martedì 18 febbraio 2014
Il culto italiano di Hannah Arendt, soldatessa della Guerra Fredda divenuta icona pop
Arendt: Hitler era solo un clown non un demone
Una raccolta di conversazioni inedite tra il 1964 e il ’73
di Nadia Urbinati Repubblica 17.2.14
«Non ci sono pensieri pericolosi per la semplice ragione che pensare è
in se stesso un’impresa pericolosa». Così Hannah Arendt rispondeva a
Roger Errera in una delle ultime interviste da lei rilasciate, pochi
mesi prima di morire il 4 dicembre del 1973. Una risposta socratica alla
domanda del giornalista francese sul “Watergate” (il più pericoloso
caso di tentativo tirannico sul suolo americano, secondo Arendt),
esempio della trasformazione dell’eccezionalità emergenziale in una
pratica ordinaria di arbitrio che nel nome della sicurezza nazionale
celava, nascondeva e, soprattutto, spiava ignari cittadini. Una
riflessione che torna di grande attualità nel nostro tempo, quando
l’autore delle rivelazioni sullo spionaggio americano di milioni di
cittadini in tutti i paesi del mondo può meritare il premio Nobel per la
pace. The Last Interview and Other Conversations (Brooklyn e Londra, Melville House) è un piccolo libro prezioso che
raccoglie conversazioni, in parte già pubblicate in parte inedite,
concesse da Arendt fra il 1964 e appunto il 1973. In uno stile
colloquiale, allegro a volte, ironico.
La prima, con Günter Gaus, è forse la più toccante, dedicata alle sue
varie dimensioni di estraneità, a cominciare da quella dell’essere stata
condannata a vivere senza poter usare la propria lingua, dovendo
contare sempre su correttori di stile. Nella prima domanda Gaus le
chiede un commento sull’essere «la prima donna» delle conversazioni
filosofiche da lui curate, la prima esponente del suo genere a svolgere
«un’occupazione veramente maschile», quella della filosofa. La domanda -
come percepisce «il suo ruolo nel circolo dei filosofi» così inusuale o
peculiare per una donna? - riceve una risposta complessa che non riesce
a celare il fastidio di Arendt: «Mi dispiace ma devo protestare. Io non
appartengo al circolo dei filosofi. La mia professione, se ha un
qualche senso usare questa espressione, è la teoria politica... Circa
l’altra questione: lei dice che la filosofia è generalmente pensata come
un’occupazione maschile. Ma non deve restare tale! È assolutamente
possibile che una donna sia filosofa». Arendt non amava fare del genere
un “noi” (non amava nessun “noi”) né pensava che il genere dovesse
essere una specificazione del pensiero filosofico. La sua risposta,
apparentemente così di buon senso, descrive benissimo il suo
atteggiamento mentale possibilista e anti-determinista: che senso ha
pensare che ciò che è stato ieri sarà così anche domani?
All’altra risposta, quella sulla filosofia, dedicava molte più parole, e
anzi l’intera conversazione (come la sua produzione teorica) si può
dire che ruoti intorno a questo tema: la diffidenza per non dire
l’ostilità degli amanti della verità assoluta per la politica - con
l’eccezione di Kant che distingueva, come anche lei, “l’essere pensante”
e “l’essere agente”. Il filosofo, aggiungeva, può essere oggettivo
circa la natura e quando dice ciò che pensa su di essa egli parla certo
nel nome dell’umanità. Ma non può essere oggettivo o neutrale circa la
politica e quando (dopo Platone) vuole ambire a questo, allora diventa
nemico della politica.
La politica rischia quando diventa un dipartimento delle scienze esatte o
quando l’aspetto tecnico della gestione dello stato prende il
sopravvento sul discorso opinabile dei cittadini: di questo Arendt
temeva le conseguenze nefaste, che nell’età dello stato-nazione poteva
produrre, come produsse, mostri. Il regime che partorì Eichmann
appartenne a questa genia di antipolitica, nella quale il “noi” aveva
sopravvento sull’ “io” e un capo si era circondato di esecutori e
yesmen, funzionari ed esecutori di comandi. Eichmann, che pensava che il
«rimorso fosse adatto ai bambini», non aveva nulla per cui sentire
rimorso perché aveva sempre eseguito, era sempre stato un “noi”: di
questo funzionario che non sapeva ridere Arendt tratteggia quel che
resta forse il suo più importante contributo come teorica politica,
ovvero la descrizione di un regime politico nuovo, che non è né tirannia
né dittatura, e del quale ella volle sfatare la leggenda sulla
“grandezza” satanica di cui, pure, fu capace; una diagnosi che, pensava,
avrebbe potuto destare ammirazione come tutte le cose grandi. Hannah
Arendt si propose, com’ella spiega, di non semplicemente cercare di
capire come fu possibile quel male radicale, ma soprattutto di togliere
ad esso e al suo capo ogni aura di grandezza: un clown che fece uccidere
dieci milioni di persone circondato di esecutori grigi che non sapevano
ridere né di lui né di se stessi. «C’era qualcosa di oltraggioso in
quella stupidità... ma nessuna profondità- nulla che fosse demoniaco».
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