martedì 18 febbraio 2014

Una storia della Volante Rossa

Roberto Beretta Avvenire 15 febbraio 2014

Bicicletta e pallottole, la leggenda noir della Volante rossa
Erano partigiani che, a guerra finita, continuarono a combattere e a uccidere i fascisti. fino a che furono scaricati dal Pci e cancellati da tutti i testi di storia Un libro li racconta di Matteo Tonelli Il Venerdì di Repubblica 21.3.1 da Spogli qui


Quelli della Volante rossa Uccidere per la rivoluzione
di Raffaele Liucci Il Sole Domenica 19.10.14

La vendetta, si sa, è un piatto da servire freddo. L'8 novembre 1990, l'ex partigiano comunista Giuseppe Bonfatti riconosce in un bar di Viadana (Mantova) uno dei fascisti che gli avevano bruciato la casa nel '44 e lo uccide a colpi di piccone: «È la cosa più bella che ho fatto al mondo e non sono pentito», dirà al processo: «Era un obbligo verso i miei parenti e anche verso il mio ideale» (pure il "deviazionista" Leon Trotsky era stato assassinato in Messico nel 40 con un colpo di piccone, sferrato da un sicario di Stalin).
Non tutti però pazienteranno così a lungo. Nell'agosto del '44, a Milano, il diciannovenne Giulio Paggio – futuro comandante nelle Brigate Garibaldi – giura vendetta davanti ai corpi dei quindici partigiani fucilati all'alba dai nazisti e poi esposti al sole cocente di Piazzale Loreto. Un anno più tardi, a guerra finita, Paggio, alias "tenente Alvaro", è il capo della Volante Rossa, costituita da una cinquantina di giovanissimi ex partigiani, gravitanti intorno alla Casa del Popolo di Lambrate. Il loro scopo è continuare la Resistenza dopo il 25 aprile, snidando i fascisti rimasti impuniti.
Raccontare questa storia – come fa lo scrittore e documentarista Francesco Trento, con uno stile incalzante e cinematografico, incrociando carte d'archivio e testimonianze orali – significa aprire uno squarcio sulla Milano del secondo dopoguerra, devastata dai bombardamenti, spolpata dalla disoccupazione galoppante e teatro di scorribande neofasciste. Il Partito Comunista fatica a frenare gli ardori della base, che sogna di «fare come in Russia».
Difficile quantificare il numero esatto degli omicidi effettivamente commessi dalla Volante, perché nei mesi successivi alla Liberazione agiscono altre bande irregolari. I cadaveri di molti fascisti scomparsi, apparentemente fuggiti in Sud America, in realtà finiscono nella "colata" della Breda o in fondo ai canali Martesana e Villoresi. Ma non tutte le azioni punitive si concludono in modo così cruento: talvolta i "rei" vengono sequestrati e poi, al termine di un processo sommario, rimessi in libertà, se giudicati "pesci piccoli". Un po' come accadrà con le prime Brigate Rosse, fondate nel 1970 da Renato Curcio proprio a Milano. Del resto, il mito della Volante Rossa era senz'altro scolpito nell'immaginario dei brigatisti.
Ma i raffronti storici sono spesso ingannevoli. Le Br nascono infatti in opposizione al Pci, "traditore della classe operaia". La Volante Rossa, invece, sorge per coadiuvare il Partito comunista, in attesa dell'insurrezione. Non sappiamo se Togliatti e gli altri dirigenti fossero davvero coscienti del ruolo omicida svolto da questa banda di apprendisti rivoluzionari. Comunque sia, dal '47 la Volante si trasforma in una specie di servizio d'ordine della Federazione milanese comunista. Dalle manifestazioni di piazza all'occupazione delle fabbriche, spiccano sempre, in prima linea, i suoi uomini, che sfoggiano sul giubbotto un triangolo rosso. Ormai, "quelli di Lambrate" non sono più soltanto un nucleo clandestino a caccia di fascisti, ma una formazione operante alla luce del sole, con una divisa, una bandiera e persino un inno ufficiale.
I sogni di gloria della Volante si spegneranno dopo il fallito attentato a Togliatti, il 14 luglio 1948, quando un autocarro di uomini armati, lanciato verso una caserma dei carabinieri, viene bloccato all'ultimo minuto da un'auto con a bordo un dirigente del Pci milanese. Ancora sotto shock per l'inattesa sconfitta elettorale del 18 aprile, il partito rinuncia ufficialmente alla "rivoluzione", togliendo così ogni illusione a chi ancora ne nutriva. Nel gennaio '49, dopo il duplice e rocambolesco "omicidio dei taxi" (una delle vittime è il presunto assassino del martire comunista Eugenio Curiel), il Pci scaricherà definitivamente i ragazzi "rossi", presto falcidiati dalla polizia, pur concedendo ai loro capi di rifugiarsi in Cecoslovacchia. Paggio, graziato nel '78 da Pertini, scomparirà a Praga nel 2008, ormai uno dei tanti "uomini ex", ritratti da Giuseppe Fiori nel suo omonimo romanzo. Quattro anni prima era mancato Theodor Saevecke, il capitano delle SS responsabile dell'eccidio di Piazzale Loreto: senza scontare un solo giorno di prigione e anzi gratificato di una brillante carriera nella polizia della Repubblica Federale Tedesca. Un altro nome ben radicato nel pantheon dei guerriglieri italiani negli anni di piombo fu quello di Pietro Secchia (1903-73), «l'uomo che sognava la lotta armata», secondo il fuorviante titolo del libro di Miriam Mafai (1984). In verità Secchia era stato sì un "rivoluzionario di professione", ma interamente calato nella tradizione stalinista del partito comunista e della terza internazionale. Le Br erano invece soprattutto figlie del '68, del terzomondismo, dei Tupamaros. Inoltre, la linea di Secchia – nel secondo dopoguerra vicesegretario del Pci e responsabile della sua organizzazione – non fu mai davvero alternativa a quella "legalitaria" di Togliatti. Così sostiene il giovane storico Marco Albeltaro, nella prima biografia scientifica a lui dedicata.
È una buona occasione per ripercorrere le vicissitudini di un personaggio che l'anticomunista Leo Valiani – nemico implacabile dei terroristi rossi – definirà il «faro vivente del disinteresse personale». Le umili origini, i dodici anni trascorsi come «prigioniero del fascismo», la Resistenza, l'approdo al vertice del partito, sino alla fragorosa caduta in disgrazia, nel '54: per colpa del suo più stretto collaboratore, Giulio Seniga, fuggito con un'enorme somma di denaro prelevata dalle casse del Pci (pari a circa 9 milioni di euro attuali). Un episodio mai del tutto chiarito, che tuttavia si presta a due postille storiche. Innanzitutto, la mancata denuncia del furto, trattandosi di finanziamenti sovietici illegali. In secondo luogo, i sospetti di omosessualità adombrati dai nemici interni di Secchia, riguardo al suo legame con Senise («vita privata anormale»). Segno di una radicata omofobia, oggi non più di moda, almeno a sinistra.

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