Nel luglio 1948 il momento sembra arrivato: Togliatti è in un letto di ospedale, colpito da tre colpi di pistola. Gli uomini della Volante Rossa, armati di mitra e panzerfaust, si dirigono a bordo del loro camion verso una caserma dei carabinieri, intenzionati a prenderla d’assalto. Intanto, un’auto con a bordo un dirigente di spicco della Federazione milanese del Pci tenta disperatamente di intercettarli, prima che scatenino una guerra.
Lontano anni luce dal revisionismo oggi così di moda, La guerra non era finita è un libro denso e documentato come un saggio storico, narrato con il passo del cinema d’azione.
I giorni della Volante Rossa
Nell’estate del ’45 a Milano il fascismo rialzò la testa Un capitolo dal libro «La guerra non era finita»: si racconta la storia del gruppo di giovanissimi partigiani che sotto la guida del «tenente Alvaro» riprese le armidi Francesco Trento l’Unità 20.2.14
DOPO UNA PRIMA FASE DI “RODAGGIO”, FUNESTATA DA UNA LUNGA CATENA DIARRESTI, IL NEOFASCISMO ESCE ALLO SCOPERTO CON UNA SERIE DI ATTENTATI, che si infittiscono quanto più ci si avvicina al 2 giugno, data in cui gli italiani sono chiamati a scegliere tra monarchia e repubblica. Nel mirino sono spesso esponenti di spicco del Pci: il 6 marzo Emilio Sereni sfugge a un agguato da parte di gruppi monarchici, e il 5 aprile è il turno di Giuseppe Di Vittorio, che scampa a un attentato qualunquista.
Per impedire il regolare svolgimento del referendum e la probabile sconfitta della monarchia, i fascisti mettono dunque in atto “una sorta di «strategia della tensione». Milano è uno dei punti nodali di tale strategia. L’11 aprile il mitico comandante «Visone», Giovanni Pesce, mette in guardia da possibili trappole, segnalando manifesti di «sedicenti partigiani» che invitano a riprendere le armi creando «situazioni incresciose, che andrebbero a discapito di tutto il popolo ». Ma le provocazioni sono molte: il 20 aprile, armati dall’esterno, detenuti fascisti guidano una rivolta nel carcere di San Vittore. Un commissario e alcuni secondini vengono tenuti in ostaggio. Forse in appoggio alla ribellione, un’auto in corsa esplode alcuni colpi d’arma da fuoco che feriscono due passanti: un ragazzo che sta giocando a pallone e una ragazza che aspetta il fidanzato. La rivolta si protrae per cinque giorni, con numerosi morti e feriti. L’esercito è costretto a intervenire con blindati ed esplosivo.
Nella notte tra il 22 e il 23 viene portata a termine la cosiddetta «Operazione Italia»: cinque aderenti al Partito democratico fascista, guidati dall’ex repubblichino Domenico Leccisi, trafugano la salma di Mussolini dal cimitero di Musocco. La sera del 23 è la Camera del Lavoro ad essere assaltata durante una riunione. Secondo Alberganti, testimone diretto dell’episodio, sono in tre a sparare dalle macerie attigue all’edificio, ferendo gravemente Stella Zuccoletti, membro del Comitato direttivo della Lega Portinai. Altri tre colpi vanno a vuoto. Alberganti, uscito prontamente dall’edificio, insegue gli attentatori che si danno alla fuga. Fatta ricoverare la donna, il dirigente del Pci telefona al prefetto, avvertendo che la Camera del Lavoro, nella notte, verrà difesa da 200 lavoratori. Stella Zuccoletti muore in ospedale il 26 aprile, dopo tre giorni di sofferenze33. L’indignazione e la rabbia sono incontenibili: l’Unità rintraccia un unico filo conduttore che lega il trafugamento dei resti di Mussolini, la rivolta di San Vittore e l’attentato alla Camera del Lavoro con la lotta politica condotta dai gruppi monarchici e neofascisti per impedire la consultazione popolare. Secondo il giornale del Pci, la colpa dell’attuale situazione è del questore di Milano, che non agisce con la dovuta energia nei confronti dei fascisti. Dello stesso parere sembra essere Alberganti.
Il giorno successivo all’attentato, si riunisce infatti la Commissione esecutiva della CdL, e il dirigente propone di organizzare la difesa del palazzo «con armi all’interno stesso della Camera del Lavoro, che gli operai possano usare al momento opportuno» . Viene inoltre richiesta al prefetto l’autorizzazione per la «costituzione di squadre di operai che siano pronte ad ogni chiamata per la difesa della città da attacchi fascisti »: una sorta, insomma, di «Volante operaia». L’attività degli estremisti neri non conosce soste. Il 10 maggio l’Unità dà notizia di un nuovo attentato: due giovanissimi ex partigiani, il giorno precedente, sono scampati per miracolo a un agguato a colpi di pistola e raffiche di mitra. Il giornale deplora l’atteggiamento della polizia che, chiamata per telefono, ha ritenuto «inutile mandar fuori gli agenti poiché certo non sarebbe stato più possibile agguantare i criminali». Intanto, Vittorio Emanuele III ha abdicato in favore del figlio Umberto II, rompendo in qualche modo la tregua istituzionale e tentando di dare nuove chance alla monarchia.
Mancano solo tre settimane al referendum, e la tensione sale: dalla metà del mese, gli attentati sono all’ordine del giorno. Il 17 maggio, dopo l’ennesima bomba fascista, la Squadra politica della Questura di Milano arresta i componenti del comitato esecutivo del Pdf (tra cui Ferruccio Mortari, di cui parleremo ancora). Alcuni giorni dopo, una retata della polizia, infiltratasi all’interno di squadre paramilitari raccolte dietro il partito chiamato Schieramento nazionale, riesce a mandare all’aria un piano antireferendum la cui attuazione era prevista per il 26 maggio. Dagli interrogatori dei circa quaranta arrestati emergono collusioni tra neofascismo e monarchia: il piano prevedeva una grande manifestazione a favore del re, per provocare le forze di sinistra. I neofascisti avrebbero in seguito aperto il fuoco su eventuali cortei di protesta, per riparare infine nelle caserme. Dove, secondo l’Unità «sarebbero stati equipaggiati e armati per poi uscire per le strade insieme alle forze regolari a tutela dell’ordine pubblico, da essi stessi sconvolto».
Era inoltre previsto un falso attacco a un giornale monarchico da parte di militanti travestiti da comunisti, muniti di «fazzoletti rossi, distintivi e magari tessere false da lasciar per strada» , e un assalto a una sezione del Pci. (...)
In un contesto come questo, segnato dai continui attentati fascisti, dai piani eversivi dei monarchici e dalla scarsa vigilanza da parte delle forze dell’ordine, è più che probabile che Alberganti e altri pensino di utilizzare la Volante Rossa in funzione difensiva (con ronde e guardie notturne per vigilare Case del Popolo e sedi di partito) e ancor più probabile che guardino ad essa con simpatia. Secondo Leonardo Banfi, infatti, è proprio nel 1946 che iniziano i primi contatti per un rapporto continuativo con la Federazione milanese del Pci. Contatti che grazie agli «ufficiali di collegamento» Lamprati e Vergani si faranno sempre più fitti.
Bicicletta e pallottole, la leggenda noir della Volante rossa
Erano partigiani che, a guerra finita, continuarono a combattere e a uccidere i fascisti. fino a che furono scaricati dal Pci e cancellati da tutti i testi di storia Un libro li racconta di Matteo Tonelli Il Venerdì di Repubblica 21.3.1 da Spogli qui
Quelli della Volante rossa Uccidere per la rivoluzione
di Raffaele Liucci Il Sole Domenica 19.10.14
La vendetta, si sa, è un piatto da servire freddo. L'8 novembre 1990, l'ex partigiano comunista Giuseppe Bonfatti riconosce in un bar di Viadana (Mantova) uno dei fascisti che gli avevano bruciato la casa nel '44 e lo uccide a colpi di piccone: «È la cosa più bella che ho fatto al mondo e non sono pentito», dirà al processo: «Era un obbligo verso i miei parenti e anche verso il mio ideale» (pure il "deviazionista" Leon Trotsky era stato assassinato in Messico nel 40 con un colpo di piccone, sferrato da un sicario di Stalin).
Non tutti però pazienteranno così a lungo. Nell'agosto del '44, a Milano, il diciannovenne Giulio Paggio – futuro comandante nelle Brigate Garibaldi – giura vendetta davanti ai corpi dei quindici partigiani fucilati all'alba dai nazisti e poi esposti al sole cocente di Piazzale Loreto. Un anno più tardi, a guerra finita, Paggio, alias "tenente Alvaro", è il capo della Volante Rossa, costituita da una cinquantina di giovanissimi ex partigiani, gravitanti intorno alla Casa del Popolo di Lambrate. Il loro scopo è continuare la Resistenza dopo il 25 aprile, snidando i fascisti rimasti impuniti.
Raccontare questa storia – come fa lo scrittore e documentarista Francesco Trento, con uno stile incalzante e cinematografico, incrociando carte d'archivio e testimonianze orali – significa aprire uno squarcio sulla Milano del secondo dopoguerra, devastata dai bombardamenti, spolpata dalla disoccupazione galoppante e teatro di scorribande neofasciste. Il Partito Comunista fatica a frenare gli ardori della base, che sogna di «fare come in Russia».
Difficile quantificare il numero esatto degli omicidi effettivamente commessi dalla Volante, perché nei mesi successivi alla Liberazione agiscono altre bande irregolari. I cadaveri di molti fascisti scomparsi, apparentemente fuggiti in Sud America, in realtà finiscono nella "colata" della Breda o in fondo ai canali Martesana e Villoresi. Ma non tutte le azioni punitive si concludono in modo così cruento: talvolta i "rei" vengono sequestrati e poi, al termine di un processo sommario, rimessi in libertà, se giudicati "pesci piccoli". Un po' come accadrà con le prime Brigate Rosse, fondate nel 1970 da Renato Curcio proprio a Milano. Del resto, il mito della Volante Rossa era senz'altro scolpito nell'immaginario dei brigatisti.
Ma i raffronti storici sono spesso ingannevoli. Le Br nascono infatti in opposizione al Pci, "traditore della classe operaia". La Volante Rossa, invece, sorge per coadiuvare il Partito comunista, in attesa dell'insurrezione. Non sappiamo se Togliatti e gli altri dirigenti fossero davvero coscienti del ruolo omicida svolto da questa banda di apprendisti rivoluzionari. Comunque sia, dal '47 la Volante si trasforma in una specie di servizio d'ordine della Federazione milanese comunista. Dalle manifestazioni di piazza all'occupazione delle fabbriche, spiccano sempre, in prima linea, i suoi uomini, che sfoggiano sul giubbotto un triangolo rosso. Ormai, "quelli di Lambrate" non sono più soltanto un nucleo clandestino a caccia di fascisti, ma una formazione operante alla luce del sole, con una divisa, una bandiera e persino un inno ufficiale.
I sogni di gloria della Volante si spegneranno dopo il fallito attentato a Togliatti, il 14 luglio 1948, quando un autocarro di uomini armati, lanciato verso una caserma dei carabinieri, viene bloccato all'ultimo minuto da un'auto con a bordo un dirigente del Pci milanese. Ancora sotto shock per l'inattesa sconfitta elettorale del 18 aprile, il partito rinuncia ufficialmente alla "rivoluzione", togliendo così ogni illusione a chi ancora ne nutriva. Nel gennaio '49, dopo il duplice e rocambolesco "omicidio dei taxi" (una delle vittime è il presunto assassino del martire comunista Eugenio Curiel), il Pci scaricherà definitivamente i ragazzi "rossi", presto falcidiati dalla polizia, pur concedendo ai loro capi di rifugiarsi in Cecoslovacchia. Paggio, graziato nel '78 da Pertini, scomparirà a Praga nel 2008, ormai uno dei tanti "uomini ex", ritratti da Giuseppe Fiori nel suo omonimo romanzo. Quattro anni prima era mancato Theodor Saevecke, il capitano delle SS responsabile dell'eccidio di Piazzale Loreto: senza scontare un solo giorno di prigione e anzi gratificato di una brillante carriera nella polizia della Repubblica Federale Tedesca. Un altro nome ben radicato nel pantheon dei guerriglieri italiani negli anni di piombo fu quello di Pietro Secchia (1903-73), «l'uomo che sognava la lotta armata», secondo il fuorviante titolo del libro di Miriam Mafai (1984). In verità Secchia era stato sì un "rivoluzionario di professione", ma interamente calato nella tradizione stalinista del partito comunista e della terza internazionale. Le Br erano invece soprattutto figlie del '68, del terzomondismo, dei Tupamaros. Inoltre, la linea di Secchia – nel secondo dopoguerra vicesegretario del Pci e responsabile della sua organizzazione – non fu mai davvero alternativa a quella "legalitaria" di Togliatti. Così sostiene il giovane storico Marco Albeltaro, nella prima biografia scientifica a lui dedicata.
È una buona occasione per ripercorrere le vicissitudini di un personaggio che l'anticomunista Leo Valiani – nemico implacabile dei terroristi rossi – definirà il «faro vivente del disinteresse personale». Le umili origini, i dodici anni trascorsi come «prigioniero del fascismo», la Resistenza, l'approdo al vertice del partito, sino alla fragorosa caduta in disgrazia, nel '54: per colpa del suo più stretto collaboratore, Giulio Seniga, fuggito con un'enorme somma di denaro prelevata dalle casse del Pci (pari a circa 9 milioni di euro attuali). Un episodio mai del tutto chiarito, che tuttavia si presta a due postille storiche. Innanzitutto, la mancata denuncia del furto, trattandosi di finanziamenti sovietici illegali. In secondo luogo, i sospetti di omosessualità adombrati dai nemici interni di Secchia, riguardo al suo legame con Senise («vita privata anormale»). Segno di una radicata omofobia, oggi non più di moda, almeno a sinistra.
Nessun commento:
Posta un commento