lunedì 24 febbraio 2014

Le Crociate tardive

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Marco Pellegrini, Le crociate dopo le crociate. Da Nicopoli a Belgrado (1396-1456), Il Mulino, Bologna

Risvolto
«Le crociate “classiche” che ebbero come meta la Terrasanta finirono nel 1291 con la caduta di San Giovanni d’Acri. A partire dal Trecento l’ipotesi di una riconquista di Gerusalemme non fu più al centro della pianificazione crociata. Essa divenne il corollario di una strategia di attacco avente come obiettivo primario la distruzione della potenza turca in area balcanica, e dal 1453 in poi la sua cacciata da Costantinopoli»
Le crociate sono abitualmente associate all’idea di Medioevo: l’elenco ufficiale ne conta otto fra il 1098 e il 1270. Ma anche dopo questa data per lungo tempo la crociata restò un obiettivo capace di mobilitare emozioni e risorse dell’Europa cristiana. Queste «crociate tardive» non ebbero più come oggetto la lotta per la Terrasanta ma la difesa dello spazio europeo dall’avanzata dell’Impero ottomano. Furono molte: se ne annoverano più di dieci fino alla battaglia di Lepanto (1571) e altre ne seguirono in età moderna. Durante questo periodo gli eserciti della cristianità colsero più insuccessi che vittorie. Il volume racconta i diversi progetti di offensiva antiottomana promossi dal papato e i loro esiti, a cominciare dal disastro di Nicopoli nel 1396, la più sanguinosa sconfitta mai toccata a una spedizione crociata, per terminare con la fortunosa vittoria di Belgrado del 1456, per la quale si parlò addirittura di miracolo.



Marco Pellegrini insegna Storia moderna all’Università di Bergamo. È autore di saggi e monografie tra cui, da ultimo: «Religione e umanesimo nel primo Rinascimento» (Le lettere, 2012). Con il Mulino ha pubblicato «Le guerre d’Italia» (2009) e «Il papato nel Rinascimento» (2010).


Il papa e il sultano sfida nei Balcani
La lotta ai turchi rafforzò il primato pontificio: un libro di Marco Pellegrini
Antonio Carioti La Lettura


Quando gli eserciti crociati volevano liberare i Balcani 
Un saggio racconta la storia meno nota delle ultime imprese dei cavalieri cristiani contro l’impero turco nell’oriente europeo 
Alessandro Barbero La Stampa 9 marzo 2014

L’abitudine di numerare le crociate ha certamente dei vantaggi dal punto di vista didattico, ma presenta anche non pochi svantaggi. Uno è che a partire da un certo momento le spedizioni si moltiplicano e si confondono, col risultato che i conti non tornano mai: secondo certi manuali le crociate sono otto, secondo altri nove o addirittura dieci – un problema che dev’essersi posto anche Steven Spielberg, prima di risolverlo brillantemente mandando Indiana Jones all’Ultima crociata. Ma il difetto più grave di questo approccio manualistico sta nel dare l’impressione che dopo la catastrofe di Luigi IX il Santo a Tunisi nel 1270, di crociate non se ne siano fatte più. In realtà non è così: le crociate dopo le crociate sono un capitolo di storia così rilevante che neppure un libro sostanzioso come questo di Marco Pellegrini riesce a esaurire l’argomento.
A prima vista, le spedizioni tre e quattrocentesche possono sembrare molto diverse da quelle dei secoli precedenti: sono orientate verso i Balcani anziché la Palestina, e non mirano a riconquistare Gerusalemme, ma a contenere l’avanzata dell’impero turco e a difendere, o riconquistare, Costantinopoli. In realtà il confine è molto più sfumato: i pellegrini della prima crociata sapevano che a sbarrare loro la strada per il Santo Sepolcro c’erano i turchi, lo stesso nemico contro cui andranno a farsi ammazzare tre secoli dopo i cavalieri francesi e borgognoni della crociata di Nicopoli. La strada fatta da Goffredo di Buglione e dai suoi per raggiungere, a piedi, Gerusalemme li condusse attraverso i Balcani fino alla capitale bizantina, e nel 1204 una delle crociate più famose, la quarta, si concluse proprio con la presa di Costantinopoli. Lo scacchiere geografico mediterraneo era percepito in modo unitario dai politici del Medioevo, ed era intuito lucidamente nelle sue direttrici strategiche, anche se poi le capacità esecutive e la competenza logistica e tattica si rivelavano sempre, disastrosamente, inferiori alle ambizioni.
Marco Pellegrini ricostruisce poco più di mezzo secolo di spedizioni occidentali nel quadrante balcanico rievocando vicende note ed altre meno note. Fra i suoi protagonisti ritroviamo figure familiari come Enea Silvio Piccolomini, l’intellettuale umanista che si convertì e divenne papa; o il frate Giovanni da Capestrano, che predicava contro i turchi in Ungheria invitando perfino gli ebrei a unirsi alla crociata; o il Re dei Romani Sigismondo di Lussemburgo, membro di una delle dinastie più strabilianti che si siano mosse sotto i riflettori del palcoscenico medievale: il bisnonno era Enrico VII, l’imperatore amato da Dante e morto nel pieno del suo tentativo di pacificare l’Italia; il nonno era Giovanni, il cieco re di Boemia, ucciso nel 1346 alla battaglia di Crécy; il padre era l’imperatore Carlo IV, fondatore della grandezza di Praga che gli ha dedicato il suo celebre Ponte Carlo.
Ma troviamo anche personaggi dai nomi meno familiari, come Tvrtko II re di Bosnia, e dalle vite altrettanto movimentate: come Isidoro, il greco metropolita di Kiev e Mosca, che non riuscì a imporre al clero russo l’unione con Roma negoziata dal basileus come ultima speranza di ottenere soccorsi dall’Occidente, e perciò andò in esilio a Roma e finì cardinale; o come il suo collega il cardinale Cesarini, artefice dell’unione fra le Chiese e della successiva crociata antiottomana, morto anche lui in battaglia nel 1446 sul campo di Varna, dove si disfece quella trama così a lungo tessuta. E naturalmente non può mancare il principe valacco Vlad Dracul, padre di Vlad Tepes l’Impalatore, più noto come Dracula.

Denso com’è di fatti accuratamente ricostruiti, il libro affronta solo in parte il posto della crociata nell’immaginario dell’epoca. Se fosse stato possibile dedicarvi più pagine, avremmo incontrato altre figure familiari, come Giovanna d’Arco, ma presentate sotto una luce inconsueta: perché Giovanna, sempre vista come antesignana del nascente, moderno nazionalismo francese, voleva sì vincere la guerra dei Cent’Anni, ma affinché i re cristiani finalmente pacificati potessero tornare a occuparsi di Gerusalemme. E ritroveremmo Enea Silvio Piccolomini, ora papa Pio II, che i limiti cronologici del libro ci costringono a lasciare prima che la sua parabola sia compiuta, e che morirà nel 1464 ad Ancona, aspettando l’arrivo di una flotta crociata che non riuscirà mai a materializzarsi: simbolo, in una prospettiva romantica, della fine di un’epoca e dell’esaurirsi di un ideale, ma in realtà testimonianza di quanto i modi di ragionare e la visione del mondo del Rinascimento e dell’età moderna fossero, a buon diritto, diversi dai nostri.

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