mercoledì 26 febbraio 2014
Si crede Willy Brandt ma è solo Spezzaferro
"Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza! Una nuova frontiera per l’Europa". Un saggio di D'Alema in concomitanza del congresso a Roma del Partito socialista europeo e in vista del voto di maggio
Guido Moltedo Europa 26 febbraio 2014
La sinistra e l’Europa
di Massimo d’Alema l’Unità 26.2.14
Davanti
agli enormi cambiamenti e ai grandi interrogativi che segnano il mondo
globale, le destre europee, incapaci di governare e tenere a bada la
crisi, hanno riconquistato una leadership innanzitutto sul terreno
culturale e ideologico, riuscendo a utilizzare politicamente il
sentimento di paura e il riflesso di chiusura dell’opinione pubblica di
fronte al mutamento del mondo.
Da destra è venuta una offerta fatta
di antiche e facili certezze: il richiamo alla terra, al sangue, alla
religione. Anche il dibattito sulle «radici cristiane» dell’Europa ha
finito, da molte parti, per ridurre il riferimento alla religione ad un
baluardo identitario, a una sorta di scudo per proteggersi
dall’influenza di altre religioni e di altre civiltà. Una deriva che ha
accentuato una dialettica negativa con una altrettanto resistente
tensione laicista, anch’essa espressione di un’Europa del passato.
Penso, infatti, che oggi più che mai ci sarebbe bisogno di un dialogo
tra fede e ragione, ma tra una fede religiosa aperta e universale,
portatrice di speranza, e una ragione capace di reagire alle paure
irrazionali, riproponendo il valore della scienza e della storia.
Ma
a livello dell’Unione, è soprattutto l’affermarsi del pensiero
neoliberista che ha predicato il primato dell’economia sulla politica,
ad aver impoverito l’Europa, rafforzando le tendenze tecnocratiche e
favorendo una sorta di separazione fra le decisioni europee - appunto
tecniche - e il confronto politico e culturale. Intendo quella frattura
fra policies e Politics che è stata denunciata come uno degli aspetti
più gravi della crisi europea.
A questo punto, spetta ai progressisti
riaprire un confronto politico a livello europeo. La politica, infatti,
è discussione e scelta fra progetti alternativi, e non può essere
sostituita da un groviglio di regole, parametri e criteri, che finiscono
per imbrigliare la libertà della decisione e dell’iniziativa. So bene
quanto sia stata importante la collaborazione tra le grandi famiglie
politiche progressiste e moderate, in particolare tra socialisti e
popolari. Una collaborazione che resta condizione decisiva per sostenere
il cammino dell’integrazione. Ribadito questo, però, essa non deve
impedire un aperto confronto ed anche, se necessario, un conflitto tra
diverse proposte di politica economica e sociale.
Insomma,
rafforzare la dimensione politica dell’Europa significa rendere più
evidente una dialettica tra destra e sinistra. Per parte nostra,
significa attaccare un’impostazione neoliberista e una politica della
mera austerità, che hanno prodotto guasti molto profondi. Nascondere
questi contrasti sotto l’egida di un indistinto linguaggio «europeista»
finirebbe soltanto per dare vantaggio alle spinte populiste, che cercano
di rappresentare il disagio di chi sta male e di scaricare su questa
Europa la responsabilità della crisi sociale.
Dobbiamo, dunque,
imprimere una svolta politica al nostro modo di stare in Europa. (…) Non
è irresponsabile dire che bisogna uscire dalla gabbia dell’austerità e
che una politica di risanamento non può essere seriamente perseguita
senza sostenere la crescita e, quindi, senza una interpretazione più
flessibile e intelligente dei vincoli sin qui imposti. (…)
La crisi
finanziaria ha portato alla luce la debolezza dell’impianto politico
europeo, che, paradossalmente, è divenuto più fragile e inadeguato
proprio in seguito a due grandi successi dell’Europa: l’allargamento e
l’euro. Nel momento più alto dello sforzo di integrazione, sancito dalla
nascita della moneta unica, è venuta a mancare quella spinta ulteriore
che avrebbe dovuto dare alle istituzioni politiche la forza di guidare
la nuova dimensione economica dell’integrazione. È venuto, così, in
evidenza il fatto che la moneta unica, senza un coordinamento effettivo
delle politiche economiche di sviluppo, senza l’armonizzazione delle
regole fiscali e degli standard sociali, senza un significativo bilancio
federale dell’Unione, anziché essere il fondamento di una più forte
integrazione, ha finito per accentuare gli squilibri e le diseguaglianze
fra aree con diversi livelli di produttività e di competitività. La
dottrina di Maastricht, applicata alla crisi, ha rivitalizzato, invece
che annientare definitivamente, il virus letale dell’Europa: il
nazionalismo economico.
Le classi dirigenti, e in questo senso anche
la famiglia socialista deve riconoscere i propri errori, non hanno
compreso, oppure hanno sottovalutato o rimosso, il fatto che
l’allargamento dei confini dell’Unione coinvolgeva Paesi in gran misura
estranei allo spirito europeista così come si era venuto definendo nella
lunga collaborazione del dopoguerra, e privava una parte della
sovranità gli stati membri, in particolare del potere fondamentale di
coniare moneta. Tutto ciò richiedeva un salto di qualità verso l’unione
politica, strumenti efficaci di governo e possibilità di decisione
libera dal potere di veto di singoli Paesi. Richiedeva un maggior
rafforzamento delle basi ideali e culturali dell’Unione, l’assunzione
reale di quell’insieme di principi di libertà e di diritti individuali e
collettivi che sono rimasti nella Carta di Nizza più come testimonianza
di cosa potrebbe essere l’Europa, che come fondamento del suo agire
effettivo.
Anche per questo, per questo deficit di politica, la
dimensione della governance economica ha preso il sopravvento e
l’illusione tecnocratica che si possa governare attraverso un insieme di
criteri e di vincoli ha finito per prevalere e imprigionare
l’Europa.(…)
Tecnocrazia e populismo sono diventate le due facce
della crisi democratica dell’Europa: è il tema della democrazia che si
presenta in tutta la sua forza dirompente. Esso mette a nudo l’esistenza
di quel deficit democratico che è la caratteristica e la contraddizione
più profonda del capitalismo globale. La democrazia si indebolisce
anche perché il potere reale si sposta verso i centri della finanza
internazionale. Questo finisce per svuotare di poteri e di ruolo gli
Stati nazionali e la politica torna ad essere dominata dall’ideologia,
proprio perché spesso vuota di contenuti reali e di poteri
effettivamente esercitabili. Spettava e spetta all’Europa colmare questo
deficit democratico, sviluppando un potere sovranazionale in grado di
ristabilire un primato della politica sull’economia. Invece l’Europa
conservatrice e neoliberista si è ridotta ad amministrazione,
burocrazia, tecnocrazia, incapace di proporre scelte reali e alternative
possibili intorno alle quali mobilitare l’opinione pubblica. Così i
cittadini avvertono un senso di impotenza nei confronti di istituzioni e
decisioni pure così rilevanti per la loro vita, sulle quali, tuttavia,
non sono in grado di esercitare né influenza né controllo. Allora come
meravigliarsi che prenda campo la rivolta populista?
Naturalmente,
le risposte devono essere date nel merito dei problemi che riguardano la
vita delle persone. Ma la condizione affinché questo possa accadere in
modo efficace sta nel rafforzamento della dimensione politica
dell’Unione. Molto si può fare nell’ambito dei Trattati esistenti, pur
consapevoli che è matura l’esigenza di progettare, con gradualismo e
realismo, un nuovo patto istituzionale tra i Paesi membri. Siamo
convinti che, con i suoi squilibri, le sue asimmetrie e i suoi vuoti
normativi, il Trattato di Lisbona non delinei ancora il quadro
democratico di cui l’Europa ha bisogno. Tuttavia, esso rappresenta un
progresso rispetto al passato, perché offre nuovi strumenti e lascia
spazio sia a miglioramenti sia alla possibilità di un consolidamento
della dimensione sociale e democratica, oltre che della proiezione
internazionale dell’Unione. (…)
A queste proposte, va aggiunto il
capitolo cruciale della governance della zona euro. È necessario
rafforzare la sua dimensione politica e, nello stesso tempo, evitare che
nasca una «Unione nell’Unione», facendo in modo che gli organismi
dell’area dell’euro si collochino all’interno delle istituzioni comuni
dell’Ue, nelle quali sono rappresentati anche Paesi che non condividono
la moneta unica.
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