giovedì 6 marzo 2014
Eurasia & pajàta
Alla ricerca dell’Eurasia
L’ideologia dell’aggregazione politica e teologica
di Pietrangelo Buttafuoco Repubblica 6.3.14
Non
è solo un'espressione geografica, l’Eurasia. È un progetto ideologico.
Parla con la lingua di Eduard Limonov, è nazionalbolscevica
nell’accezione più sgargiante, e, infatti, unisce in un’unica
affabulazione Solgenitzin e il kalashnikov. È un esito di passionalità e
di convenienze. Sorge oltre i luoghi del Novecento, e da queste
giornate di Crimea, in cui la civilizzazione liberale di piazza Majdan, a
Kiev, incontra lo specialissimo “spirito russo” – irriducibile Kultur
di operai e soldati –, pur con la guerra in agguato genera un amplesso
che è già una visione del mondo: l’euroasiatismo.
Questa idea
dell’aggregazione continentale di Europa e Asia si accompagna, nella
versione più profonda, alla ri-cristianizzazione della società. Si fa
carico dell’eredità teologica di Pavel Florenskj e si attiva nella
“creazione di una comunità giusta”, per dirla con Il destino della
teocrazia di Vladimir Solov’ev, teorico della rinascita spirituale.
Tutto
diventa teocentrico e politico. Sacro e Romano è Putin, che in visita a
Roma ha donato al Papa la copia dell’Icona con cui Stalin fece benedire
la “patria sovietica”. E non è un caso che il primo atto ufficiale
della crisi ucraina sia stato del Patriarca di Mosca: la rimozione del
Metropolita di Kiev. Mosca, oggi, come più di cento anni fa con
Solov’ev, sente la responsabilità verso il «sacerdote d’Occidente che ha
bisogno della venuta e della protezione del sovrano d’Oriente». Nella
terra che fu laboratorio del materialismo scientifico, l’ostacolo alla
causa di Dio è l’ateismo e, al tempo stesso, «il frazionamento del
potere statale».
L’Occidente attende di diventare Oriente e
l’euroasiatismo (che non è un’esclusiva dei russi: uno dei più attivi
teorici è Ahmet Davutoglu, ministro degli Esteri turco) è l’approdo
della dottrina politica conservatrice. In tema di valori propri della
sacralità, infatti, Mosca offre più garanzie di Washington; ed è
significativo come in tutti i think tank della destra – una volta
esaurita l’islamofobia – con la criminalizzazione dell’euroasiatismo la
russofobia sia diventata la questione principale.
L’Occidente muove
guerra all’Oriente. E ciò in ragione di un’inimicizia che prescinde la
stessa eredità della Guerra Fredda tra i due blocchi. Lo schema, oggi, è
quello di un revival: il ritorno del Grande Gioco, The Great Game, dal
racconto di Peter Hopkirk; e non ci si muove dall’eterno conflitto per
il controllo di quello che la geopolitica descrive come “il cuore della
terra”.
L’Eurasia s’invera nel continente dello scacchiere
centroasiatico dove perfino la Cina – forte di una primogenitura
culturale, Wu Chengh’en in coppia con Marco Polo – a dispetto dei secoli
si presenta con i suoi uomini d’affari per svegliare la Via della Seta -
e bussare alle porte dell’Occidente. E lo fa sempre con accorta mossa
politica, non senza schierarsi, come nel delicato caso dell’Ucraina, al
fianco della Russia, la cui Aquila – bicefala – si volge con una testa
al di qua degli Urali per cercare un punto d’appoggio esterno, mentre
l'altra è compiaciuta nella direzione opposta. Ossia a Oriente, dove
Mosca – “terza Roma” avendo mutuato in cesarismo universale l’eredità
della Terza Internazionale – vigila sui destini delle repubbliche
centro-asiatiche, alleandosi con l’Iran, dove l’Eurasia è già carta
d’identità, e poi rinnovando il protettorato con le antiche nazioni
indo-saracene, dove, in luogo di Solov’ev, le confraternite sufi e i
reduci delle guerre afgane leggono in cirillico i testi di Ahmed
Yassavi, il Dante Alighieri (o Francesco d’Assisi) degli sciamani. Non
sarà mai una costruzione burocratica, l’Eurasia. Vista da qui,
dall’Occidente, è un istinto. Vista da lì, da Oriente, un cammino.
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