La verità è, invece, che i dispacci inviati
da Berlino alle capitali europee in quell’estate del 1914 «contengono
varianti e omissioni che», secondo Rusconi, «fanno sospettare la volontà
di confondere il campo avversario». E gli effetti di questa politica
studiata per frastornare gli interlocutori si ribaltano contro gli
ideatori di questi stratagemmi, configurandosi come una prova di
responsabilità. O, se si vuole, di grave irresponsabilità. Talché la
tesi di una guerra «inavvertita», ossia sfuggita al controllo in quanto
imposta da fattori tecnici, esterni alle intenzioni dei protagonisti,
appare «suggestiva ma non sostenibile».
C’è poi un momento,
nell’autunno del 1914, nel quale i contendenti avrebbero dovuto
accorgersi che le cose stavano andando in modo diverso da come si erano
immaginati che andassero. Tra il 6 e il 10 settembre ha luogo un grande
scontro lungo un fronte di trecento chilometri tra Meaux e Verdun. È
l’inizio di quella che prenderà il nome di «battaglia della Marna». Un
evento, scrive l’autore, «paradossalmente decisivo proprio perché non
risolve le sorti della guerra, come tutti si attendevano». I tedeschi
infatti, «sotto pressione, decidono di ripiegare per assestarsi più a
nord in trincee imprendibili». È così che «comincia quella Grande guerra
che rimarrà fissata nella memoria collettiva come guerra di trincea con
i suoi massacri insensati, i disperati assalti per conquistare poche
centinaia di metri, i continui brutali bombardamenti di artiglieria»,
dopo i quali, come si disse allora (è riportato nel libro di Alistair
Horne Il prezzo della gloria , Bur), «non si può distinguere se il fango
sia carne o se la carne sia fango». La battaglia della Marna cambia la
natura del conflitto: da guerra di movimento, diventa guerra di trincea,
«fondendosi poi, con il passare del tempo, con la guerra di materiali».
I francesi parlano di «miracolo della Marna», il filosofo Henri Bergson
evocherà Giovanna d’Arco e la «lotta della civilizzazione contro la
barbarie tedesca». Ma la battaglia non diede un vincitore e un vinto,
tant’è che Parigi e Berlino si ostinarono a rimpiangere «un risultato
migliore e risolutivo», ognuno a proprio favore. Risultato che si
sarebbe potuto ottenere se lo scontro non fosse stato interrotto. «Per
ragioni diverse», fa notare lo storico, «francesi e tedeschi ritenevano
di poter arrivare a un esito decisivo, anche se erano molto provati». È
legittimo chiedersi «perché i contendenti — di fronte all’esito inatteso
della battaglia e alla paralisi militare che ne è seguita — non abbiano
cercato vie di composizione del conflitto». Già, perché?
Nel 1915
entra in guerra l’Italia. I nostri alleati (e futuri nemici) non hanno
una grande opinione di noi. Nel novembre del 1912 l’ambasciatore russo a
Parigi, Aleksandr Izvol’skij, scrive al suo ministro degli Esteri
Sergej Sazonov: «Nessuno crede che la Triplice Intesa o la Triplice
Alleanza possano contare sulla lealtà dell’Italia che… nel caso di una
guerra assumerà un atteggiamento di osservazione e poi si assocerà alla
parte verso cui arride la vittoria». Dello stesso tono una nota del
Conseil supérieur de la défense nationale francese, secondo la quale
«l’Italia rimarrà probabilmente neutrale, ma non esiterà a schierarsi
dalla parte del possibile vincitore». Tutti la pensano allo stesso modo.
In un promemoria del 20 dicembre 1912, il capo di stato maggiore
tedesco Alfred von Schlieffen afferma di non coltivare illusioni circa
il nostro impegno: se il nostro Paese costringerà la Francia a lasciare
due corpi d’armata e relative riserve ai confini alpini «questo è tutto
il vantaggio che potremo verosimilmente trarre dall’alleanza con
l’Italia in una guerra».
Si differenzia da tutti gli altri, a Roma,
il capo di stato maggiore dell’esercito Alberto Pollio, la cui fedeltà
al Dreibund suscita l’ammirazione di amici e (potenziali) nemici. Pollio
si spinge a proporre ai tedeschi un’azione preventiva: «Non è più
logico per la Triplice sbarazzarsi di ogni falso sentimento umanitario e
incominciare per tempo una guerra che ci sarà comunque imposta? Per
questo mi chiedo, in piena sintonia con il vostro grande re Federico,
quando nel 1756 spezzò il cerchio ferreo dei suoi avversari: perché non
cominciamo noi adesso questa guerra inevitabile?». Di più: Pollio
sostiene che la Triplice debba «agire in guerra come un unico Stato». Ma
il suo interlocutore tedesco Alfred von Waldersee inviterà il
comandante supremo Helmuth Johann Ludwig von Moltke (sensibile alle
suggestioni di Pollio) a non confondere quell’interlocutore con i suoi
connazionali: «L’eccellente capo di Stato maggiore italiano è una grande
mente, un uomo affidabile. Ma fino a quando durerà la sua influenza?».
Per poi così irridere i precedenti di guerra del nostro Paese: «La nuova
Italia sinora ha sempre fatto i suoi affari con le vittorie degli
altri». Poi, dopo l’attentato di Serajevo, il 1° luglio del 1914 Pollio
muore all’improvviso. I tedeschi sospettano si tratti di omicidio (ma
non c’è alcuna evidenza in tal senso). Il successore di Pollio, Luigi
Cadorna, il 27 luglio manda una lettera a Moltke in cui ribadisce i
sensi della lealtà italiana all’alleanza e quattro giorni dopo
predispone una «Memoria sintetica» per «il trasporto in Germania della
maggiore forza possibile». Documento approvato dal re, o meglio, dal suo
principale collaboratore. Vittorio Emanuele, però, la mattina
successiva proclama la nostra neutralità. Si arriva così, scrive
Rusconi, «all’assurdo» che vede «l’aiutante di campo del re mandare la
sua lettera di approvazione a Cadorna pochissimo prima che il sovrano e
il governo decidano di congelare l’intera situazione dichiarando la
neutralità dell’Italia».
Cadorna, capita l’antifona, in un breve
volgere di tempo si trasforma nel «più solerte sostenitore della guerra
contro l’impero asburgico, scontrandosi con la riluttanza del governo
che intende invece agire con circospezione». Così come Sidney Sonnino,
che da posizioni filotedesche passa al fronte opposto, resistendo, da
ministro degli Esteri (dopo la morte di San Giuliano, ottobre 1914),
alle pressioni della Germania perché l’Italia stia ai patti e,
quantomeno, rimanga neutrale. Ma in Germania non è che da noi si
aspettino granché. Già il 14 luglio il segretario particolare del
cancelliere Bethmann, Kurt Riezler, annota come sia molto improbabile
che l’Italia mantenga i suoi impegni, «a meno che a lungo andare la
nostra vittoria sia sicura o la ritenga tale». Il 2 agosto Moltke
scrive: «Non attribuisco valore alcuno al fatto che l’Italia dia seguito
per intero alla promessa di invio di truppe in Germania»; l’importante è
che, quantomeno, non rompa platealmente il fronte della Triplice
Alleanza. I tedeschi chiedono agli austriaci di promettere qualche
compenso in più all’Italia. Ma l’Austria resiste, perché ritiene che in
ogni caso l’Italia fiuterà il vento. Anche per il fatto che, come
sostiene il primo ministro ungherese István Tisza «è militarmente debole
e codarda». I tentennamenti sono infiniti. Quando a fine agosto sembra
che l’offensiva tedesca contro la Francia sia coronata da successo,
Antonino di San Giuliano (quattro settimane prima di morire) si affretta
a scrivere: «Noi abbiamo sempre pensato che le probabilità di vittoria
erano per la Germania». E pensare che lo stesso San Giuliano poco prima
aveva detto che l’Italia poteva rompere con Austria e Germania. Ma solo,
aveva prudentemente aggiunto, se avesse avuto «la certezza di
vittoria». Ciò che gli appariva «non eroico», ma «saggio e patriottico».
L’unico a restare coerente è Giovanni Giolitti, il quale sostiene a
più riprese che passare «all’aggressione (degli ex alleati) sarebbe un
tradimento come ce n’è pochi nella storia». Il 26 aprile del 1915
l’Italia firma (segretamente) il patto di Londra, con il quale si
impegna a entrare in guerra a fianco della Triplice Intesa. Poi con il
«maggio radioso» le masse vengono mobilitate in modo che si possa
pensare che il re abbia deciso in tal senso per appagare un desiderio
del «suo» popolo. Olindo Malagodi incontra Giolitti il 9 maggio e lo
trova furibondo («ha perduto la sua bella freddezza abituale», annota
sul diario). Poi dice: «La gente che è al governo meriterebbe di essere
fucilata… è un’idea fissa di Sonnino di fare la guerra per salvare la
monarchia che non è affatto in pericolo… Salandra ha mentito! Già è
pugliese!». Ma, nonostante sia il più importante uomo politico
dell’epoca e benché disponga del consenso della maggioranza dei
parlamentari, Giolitti non riesce ad impedire la nostra entrata in
guerra a fianco dell’Intesa. Evidentemente, riflette Rusconi, «la
riluttanza a fare la guerra non basta a bloccare l’effetto trascinante e
intimidente della mobilitazione a favore dell’intervento, che è
minoritaria ma potente dal punto di vista comunicativo». Non sarà
l’ultima volta nella storia d’Italia che una minoranza «potente dal
punto di vista comunicativo» prevarrà su una maggioranza che di quella
potenza non dispone (o non sa disporre). Dopodiché lo storico
ridimensiona l’accusa all’Italia d’essere venuta meno ai patti, facendo
notare come anche l’impero austroungarico facesse in quelle circostanze
il doppio gioco. Ma l’onta in qualche modo restava. E qui Rusconi mette
in rilievo come Benito Mussolini nel 1940 abbia compiuto il tragico
errore di entrare in guerra, a fianco dei nazisti, proprio per evitare
di essere accusato di aver tradito la Germania «per la seconda volta».
Fondamentale
all’epoca è quella che potremmo definire «la battaglia dei professori».
Pochi mesi, scrive Rusconi, «separano le lacrime di commozione
patriottica dei docenti berlinesi dalle lacrime per il massacro dei loro
studenti». Viene qui riletto l’«Appello dei 93» che sarà sottoscritto,
nel 1914, da ben quattromila intellettuali e accademici tedeschi. In
esso si sostiene che la «lotta dell’Occidente contro il nostro
cosiddetto militarismo» è una «lotta contro la nostra cultura». Chi ha
posizioni avverse alla Germania è un «ipocrita»: «Senza il militarismo
tedesco infatti la cultura tedesca sarebbe da tempo cancellata dalla
faccia della terra». Non è vero, sostiene l’Appello, «che abbiamo
criminosamente violato la neutralità del Belgio; è dimostrato invece che
Francia e Inghilterra erano decise a violarla, sarebbe stato un
suicidio non prevenirle». Né va dimenticato — prosegue il manifesto —
che la popolazione belga «ha sparato ai soldati tedeschi alle spalle, ha
mutilato feriti, ucciso medici nell’esercizio del loro servizio
umanitario». Di più: «I nostri nemici, per atteggiarsi a difensori della
civilizzazione europea, non hanno il diritto di allearsi con russi e
serbi e di offrire al mondo il disgustoso spettacolo di aizzare mongoli e
neri contro la razza bianca».
Tra i firmatari ci sono — salvo
pochissime eccezioni — «tutti gli studiosi che ancora oggi sono
considerati indiscusse autorità nei loro campi di studio». Non manca un
nutrito gruppo di scienziati, come il biologo Ernst Haeckel, il fisico
Max Planck e lo psicologo Wilhelm Wundt. È singolare, nota Rusconi, «che
le storie ufficiali della filosofia preferiscano ancora oggi sorvolare
sul punto, considerando l’euforia bellicista dei filosofi un incidente
trascurabile». Per contro in Francia si schierano a favore della guerra
André Gide, Marcel Proust, Anatole France, Paul Claudel, Emile Durkheim,
Charles Péguy, persino lo storico «giacobino» Albert Mathiez. E in
Russia aderiscono alla crociata contro la «barbarie teutonica» nemici
giurati dell’autocrazia zarista come Plechanov, Kropotkin. I poeti Blok,
Esenin e Majakovskij.
Rusconi è particolarmente incuriosito dalla
figura di Thomas Mann, che il 7 agosto del 1914 scrive al fratello
Heinrich: «Il mio sentimento fondamentale è di enorme curiosità e, lo
confesso, nutro la più profonda simpatia per questa odiata Germania,
così gravida di enigmi e di destino». Poi affiderà ai Pensieri di guerra
questo ricordo: «Guerra! Quale senso di purificazione, di liberazione,
di immane speranza ci pervase allora! Ecco, di questo parlavano i poeti,
solo di questo. E quando poi si ebbero i primi risultati decisivi,
quando si issarono le bandiere, quando i mortaretti rintronarono
annunciando la marcia trionfale del nostro esercito sino alle porte di
Parigi, non ci sembrò di avvertire allora una sorta di delusione, di
disinganno come se le cose andassero troppo lisce, fossero troppo
facili, come se la debolezza del nemico ci privasse dei nostri sogni più
belli?».
Quanto poi alle Considerazioni di un impolitico , che
Thomas Mann iniziò a scrivere nel 1915 (per sviluppare più ampiamente il
libro nel 1917 e darlo alle stampe, a guerra persa, nel 1918), Rusconi
afferma: «Non credo che sia un’opera sbagliata, mal riuscita o fallita —
come hanno scritto alcuni critici. È un’opera enigmatica, a suo modo
unica». Bersagli delle Considerazioni sono come è noto il fratello
Heinrich Mann, prototipo del «civil-letterato», e Romain Rolland, premio
Nobel della letteratura nel 1915, che ha la pretesa di mettersi «al di
sopra della mischia». Agli occhi di Thomas Mann «rappresentano
l’ipocrisia dei letterati della civilizzazione che si illudono e
vogliono illudere di avere a cuore i valori universali cosiddetti
democratici, mentre in realtà perseguono gli interessi materiali della
loro parte politica contro la Germania». Con il progetto di «indurla a
sgermanizzarsi». Poi, con gli anni, Thomas Mann cambierà idea. Ma non
ripudierà mai le Considerazioni e con esse quella che considera «una
battaglia di ritirata in grande stile, l’ultima e più tarda di uno
spirito borghese tedesco e romantico, combattuta con piena coscienza
della sua vanità e quindi non senza nobiltà d’animo» (parole scritte nel
1928, in piena Repubblica di Weimar). Nel marzo del 1952, tre anni
prima di morire, tornerà su quel libro ormai considerato scandaloso:
«Non me la sono mai sentita di rompere davvero con le Considerazioni ,
esse sono un’opera di travaglio e di scandaglio faticoso e schietto di
me stesso a cui devo essere grato perché solo quella tribolazione ha
reso possibile La montagna incantata ». La verità è da ricercarsi,
secondo Rusconi, in qualcosa che ha «reso difficile a Thomas Mann
un’adesione intima alla democrazia come istituzione e l’accettazione del
valore ineludibile delle sue procedure». I meccanismi istituzionali e
la logica elettorale, l’imprescindibilità delle regole parlamentari,
l’idea stessa dell’egalitarismo sociale non lo «hanno mai davvero
conquistato».
C’è però un grande intellettuale tedesco la cui firma
non compare in calce all’«Appello dei 93»: Max Weber. Non certo perché
sia antipatizzante nei confronti dell’impresa bellica. Anzi. Il 29
agosto del 1914 scrive: «A prescindere da come finirà, questa guerra è
grande e meravigliosa». E non ha nemmeno obiezioni all’invasione del
Belgio: «La causa della guerra non è stata la nostra marcia in Belgio,
lo sappiamo; il Belgio non doveva diventare un varco dei nostri nemici».
Eppure il sociologo non indulge alle retoriche che impregnavano le
«idee del 1914». L’imperialismo liberale, di cui lui è un
rappresentante, vede le relazioni internazionali immerse nella logica di
potenza, «potenza temperata da forme di equilibrio in un più ampio
sistema delle nazioni». Rifugge, Weber, «da ogni esaltazione
vitalistica, razzista o estetizzante della potenza, da ogni euforia
bellicista; la sua è piuttosto una visione fatalista, caratterizzata
eventualmente da un certo titanismo morale». Ma il sentimento più
diffuso (o che, quantomeno, appare tale, è quello del giovane volontario
Ernst Jünger: «Siamo partiti sotto una pioggia di fiori, ebbri di rose e
di sangue. Non vi era alcun dubbio che sarebbe stata la guerra ad
apportarci quella cosa grande, forte, memorabile che tanto sospiravamo.
Essa ci appariva un’azione virile, una divertente scaramuccia su prati
fioriti, bagnati dalla rossa rugiada del sangue».
Rusconi dà credito
a studi più attenti che ci dicono non essere andate le cose esattamente
in quel modo: «Accanto all’adesione entusiastica, c’è anche un’oscura
paura rimossa grazie alla prima straordinaria operazione mediatica di
massa del Novecento, pilotata dalle agenzie statali e dai grandi
giornali nazional borghesi, in grado di sedurre, zittire, oscurare le
voci dissenzienti o perplesse… Sull’unanimità della festa popolare
dell’agosto 1914 (qui in Italia del maggio 1915, ndr ), sulla euforia
della partecipazione di tutti gli strati sociali, oggi si hanno forti
dubbi». Si registra piuttosto un condiviso «spirito di servizio» per la
patria in pericolo, nel quadro di un «patriottismo difensivo». Che è
cosa diversa da quella che da cento anni si tramanda.
Attenti,
dunque, alle «straordinarie operazioni mediatiche di massa», ci mette in
guardia l’autore. Rusconi propone le parole del «supercapitalista»
tedesco Hugo Stinnes, che qualche tempo prima dell’inizio del conflitto
si opponeva al ricorso alle armi con questo argomento: «In Europa non
c’è nessuno che possa contestarci il nostro rango. Dunque, tre o quattro
anni di pace e vi assicuro la predominanza tedesca in Europa con tutta
tranquillità». Una citazione che, letta oggi, appare maliziosa. La
Germania del 2014, mette in chiaro Rusconi, «non ha nulla in comune con
quella del 1914 salvo l’eccellenza economica, ma in un contesto
internazionale e geopolitico inconfrontabile; il processo della sua
integrazione europea e occidentale è irreversibile, a meno di
imprevedibili disastri; se esiste un problema tedesco, è perché esiste
un problema europeo, ma questo a sua volta non può essere adeguatamente
compreso con l’apparato concettuale tradizionale con il quale abbiamo
analizzato le vicende che culminano nella Grande guerra».
Quando ero bambino, nel salotto di mia nonna Anita, pendeva il ritratto fotografico di suo fratello Ettore, elegante e malinconico, in divisa e chepì, lo sguardo di chi muor giovane. Nel tragico «Albo d’Oro» dei caduti italiani nella Grande Guerra, 460.000 morti e 947.000 feriti (lo studioso militare americano Eggenberger calcola i bilanci del conflitto in 10.000.000 di morti e 20.000.000 di feriti) c’è anche il mio prozio, volume «Provincia di Milano», pagina 469, «Rivera Carnesi Ettore di Tomaso, Sergente 58° reggimento fanteria, nato il 24 novembre 1892 a Marudo, distretto militare di Lodi, morto il 28 settembre 1917 sul Carso per ferite riportate in combattimento».
Leggendo il saggio di Gian Enrico Rusconi 1914, attacco a Occidente (Il Mulino) mi tornava in mente lo struggente dolore con cui, pur ormai mezzo secolo dopo, mia nonna leggeva il Diario di sua madre alla data 4 novembre 1918 «Vittoria: Ettore non è morto invano». In occasione dei 100 anni dell’evento che ha creato e insieme minato fin quasi a distruggerla, la coscienza del nostro tempo, leggete dunque 1914, attacco a Occidente. Improvvisamente, come per mia nonna, la Grande Guerra vi apparirà vicinissima.
Rusconi riparte dall’interrogativo di cui gli storici diffidano: era inevitabile la I Guerra Mondiale? Dalla «scintilla» di Sarajevo dovevano necessariamente esplodere la carneficina sulla Marna, le battaglie della Somme e Verdun, le undici, insensate offensive italiane sull’Isonzo? Per Rusconi nessuna scelta è innescata dal Fato inesorabile, l’Austria-Ungheria poteva reagire all’assassinio del principe ereditario Franz Ferdinand (un moderato spesso in contrasto con il decrepito Kaiser) in modo meno ottuso, la Germania non firmare «un assegno in bianco» al militaresco alleato. Le democrazie, Francia e Gran Bretagna, usare la diplomazia in modo meno vacuo o far valere la mediazione di papa Benedetto XV, sempre ostile al conflitto. Come oggi in Ucraina contro Putin, in una delle crisi del XXI secolo, Balcani, Medio Oriente, Siria, Iraq, Nord Africa, germinate dal 1914, forse l’economia avrebbe fermato gli Imperi Centrali, la vetusta «Kakania» irrisa da Musil ne «L’uomo senza qualità», meglio della guerra.
Rusconi cita «Hugo Stinnes, l’esponente di punta del capitalismo tedesco» che, nel 1911, «attaccava… le continue istigazioni alla guerra da parte del partito pantedesco… convinto che la Germania non avesse bisogno di alcun predominio militare o di espansione territoriale ma di costante sviluppo economico» e predicava «lasciateci tre o quattro anni di tranquillo sviluppo e la Germania sarà la padrona incontrastata d’Europa. I francesi oggi sono rimasti indietro rispetto a noi, sono un popolo di piccoli rentier. Gli inglesi hanno troppo poca voglia di lavorare e non hanno il coraggio di nuove imprese». Anche Londra però, scrive Rusconi, era certa di vincere perché «Dal punto di vista dell’alta finanza… una guerra per la divisione del mercato mondiale non aveva nessun senso… Nel settore degli investimenti esteri i tedeschi semplicemente non potevano competere. Persino iniziative di prestigio imperialistico come la costruzione della ferrovia di Baghdad potevano realizzarsi solo con l’aiuto francese e britannico. Nessuno Stato avrebbe dovuto fare la guerra non essendo in gioco interessi vitali. Eppure nessuna potenza al momento decisivo era disposta ad accettare la perdita del proprio prestigio evitando la guerra…». È il giudizio degli studiosi Afflerbach e Stevenson «La prima guerra mondiale è stato un esito possibile, ma per nulla obbligato… dell’ordine politico allora esistente…».
Con raziocinio, Rusconi rifiuta di giudicare i nostri antenati, tedeschi inclusi, da barbari, folli e assetati di sangue, secondo lo stile della storica Barbara Tuchman ne «I Cannoni di Agosto» o «March of Folly». E discute dell’Italia, che povera in armi e digiuna di sapere strategico (gli italiani non studiano mai Clausewitz, lamentava Geyr von Schweppenburg), cambia alleanze e piani all’ultimo momento.
1914 attacco a Occidente eccelle nel ridisegnare il XX secolo dal genoma della Grande Guerra, visibile già nell’impasse sulla Marna 1914, quando i tedeschi vanno in trincea e la dialettica tra «guerra di movimento e guerra di posizione» studiata da Jomini e Clausewitz, degenera in mattanza di fantaccini (nel suo «La guerra bianca» lo storico Thompson ricorda che a volte gli austriaci, disgustati di falciare fanti italiani sui reticolati, ondata dopo ondata, gridassero «Tornate indietro, avete dimostrato di esser coraggiosi»). L’offensiva imperiale del conte Schlieffen e del generale von Moltke, non offre i frutti sperati e l’esito sarà quel che conosciamo.
Ma l’arrogante morale tratta dagli eventi a Parigi e Londra, Hitler (portaordini decorato al valore, tutti i suoi compagni di reparto cadono, lui, ferito a ripetizione, si salva per miracolo) che vuol vendicare il «tradimento» con una stavolta vincente guerra di movimento, Mussolini, persuaso che la generazione delle trincee debba prevalere sui politici democratici, seminano la rovina d’Europa. Lo storico Geoffrey Barraclough parlerà di «Guerra civile europea 1914-1989» e Rusconi ne delinea in 1914 eventi, natura, esiti. Lo «scontro di civiltà» europeo non si sanerà fino alla fine della Guerra fredda, e torna ora a sobbollire da Kiev alla Crimea: 1914 attacco all’Occidente è libro che vi parla di futuro, non di passato.
Dalla neutralità all'intervento
Gian Enrico Rusconi ricostruisce il lavorio politico-diplomatico dell'estate 1914 e analizza le vicende belliche di quell'anno
di Piero Fornara Il Sole Domenica 12.10.14
Cento anni fa in Italia ancora non sparavano «i cannoni d'agosto» come
nel resto dell'Europa, ma nell'autunno 1914 in una situazione bellica
quanto mai incerta – con l'arresto della marcia tedesca sulla Marna dopo
le iniziali vittorie in Francia e le enormi perdite subite dagli
austriaci in Galizia contro l'esercito russo – il governo italiano deve
decidere se confermare la neutralità in cambio di risarcimenti
territoriali oppure preparare l'intervento contro l'Austria.
Nel libro 1914, attacco a Occidente, pubblicato dal Mulino, Gian Enrico
Rusconi ricostruisce il lavorio politico-diplomatico dell'estate 1914 e
analizza le vicende belliche del primo anno di guerra.
Secondo l'autore il conflitto nasce come una «guerra tedesca» per
rompere l'accerchiamento di cui la Germania si sente vittima da parte
dell'Intesa russo-francese e inglese. La lotta per l'egemonia sul
Continente assume i tratti di una «guerra di civiltà» all'interno
dell'Occidente stesso, con effetti di lunga durata: nel Secondo
conflitto mondiale, infatti, l'attacco tedesco alla Francia sarà inteso
come replica e rivincita del 1914.
La dinamica che avrebbe portato alla Grande Guerra era cominciata in
modo inatteso, con l'assassinio il 28 giugno a Sarajevo dell'arciduca
Francesco Ferdinando, erede al trono della monarchia austro-ungarica. La
situazione precipita un mese dopo con l'ultimatum e la dichiarazione di
guerra austriaca alla Serbia.
Nel 1914 l'Italia è ufficialmente alleata da più di trent'anni con la
Germania e l'Austria-Ungheria nella Triplice Alleanza; le convenzioni
militari segrete del trattato prevedono, in caso di conflitto, la
presenza di un'armata italiana sul Reno a fianco dei tedeschi.
Ma l'atteggiamento elusivo e ambiguo di Vienna verso Roma sulle
possibili «compensazioni» porta il governo italiano a proclamare la
neutralità, cogliendo di sorpresa gli stessi capi militari.
Berlino segue con crescente apprensione le trattative sulle concessioni
territoriali (il Trentino, ma non solo), che potrebbero garantire una
benevola neutralità italiana verso gli Imperi centrali nel conflitto.
Nel suo libro Gian Enrico Rusconi annota alcuni fatti poco noti
all'opinione pubblica, come la morte improvvisa, il 1º luglio 1914, del
capo di stato maggiore del l'esercito Alberto Pollio, che lascia
«sconcertati gli ambienti militari tedeschi, che non escludono
addirittura il sospetto di omicidio».
Il suo successore Luigi Cadorna assume formalmente tutti gli impegni di
Pollio, ma poco tempo dopo il governo italiano – da pochi mesi guidato
da Antonio Salandra – proclama la neutralità e blocca ogni spostamento
di truppe verso la Francia.
Nel mese di ottobre, sempre del 1914, muore il ministro degli Esteri
Antonino di San Giuliano e gli subentra Sidney Sonnino. Nella classe
dirigente politica e militare italiana torna in primo piano e ridiventa
popolare la questione delle «terre irredente» nelle richieste di
compensazioni avanzate all'Austria.
Anche la missione a Roma in dicembre dell'ex cancelliere tedesco
Bernhard von Bülow, amico personale di Giovanni Giolitti, ritenuto lo
statista italiano più influente, non ottiene gli effetti sperati. I
contatti tra Roma e Vienna entrano in un circolo vizioso e la tattica
del ministro degli Esteri Sonnino è quella di alzare sempre di più il
prezzo della neutralità italiana per creare l'occasione della rottura.
«Più lineare, coerente anche se sofferto, è il filogermanesimo di
Giolitti, a partire dalla sua convinzione che la Triplice e in
particolare il legame con la Germania siano un vantaggio netto per
l'Italia. Giolitti resiste fino all'ultimo alla rottura della Triplice
Alleanza, che non esita a definire come un "tradimento", salvo poi
allinearsi lealmente con il Paese in guerra».
Quando il 1º maggio 1915 Sonnino illustra in Consiglio dei ministri
l'urgenza di denunciare la Triplice Alleanza per potere stringere il
patto con l'Intesa, in realtà questo è già stato firmato cinque giorni
prima. La forzatura politica dall'alto, anche nei riguardi del
Parlamento – per l'esigenza di salvare la monarchia dal pericolo
rivoluzionario, pensa Sonnino – viene considerata da qualche storico un
«colpo di Stato».
Dalla guerra vittoriosa l'Italia trarrà comunque negli anni Venti e nei
primi anni Trenta un notevole peso internazionale. «Per colmo d'ironia,
le disgrazie italiane – chiosa Rusconi – cominceranno quando Mussolini,
dopo aver affiancato la politica dell'Italia a quella della Germania
nazista, non vorrà "tradirla" una seconda volta».
Nessun commento:
Posta un commento