venerdì 21 marzo 2014

Le lotte per il potere alle origini della Controriforma


Avvenire 21 marzo 2014

Potere all'Inquisizione!
Lo storico (e nostro collaboratore) Massimo Firpo rievoca, nel suo nuovo libro, un momento topico per l'istituzione
di Massimo Firpo il Sole24ore domenica 30.3.14




Molto si è scritto e discusso sui concetti di Riforma cattolica e Controriforma, sui loro significati, i loro nessi, i loro conflitti, il loro valore periodizzante. Si tratta di concetti tutt'altro che neutrali, com'è ovvio, e anzi dotati di evidenti connotazioni ideologiche, dal momento che comportano giudizi molto diversi sulla storia della Chiesa nel '500, quando il dilagare delle eresie le impose di misurarsi con una crisi drammatica, di superare paralizzanti incertezze, di convocare un concilio e dotarsi di nuovi strumenti d'azione. Nel groviglio di problemi e tensioni che ne scaturì, Riforma cattolica e Controriforma disegnano percorsi alternativi, anche se variamente intrecciati tra loro, l'uno incentrato sulla cura animarum, sulla residenza dei vescovi e il rinnovamento del clero, sull'impegno dei nuovi ordini religiosi; e l'altro fondato invece sul primato dell'ortodossia, sulla repressione del dissenso, sull'autoritarismo ecclesiastico. In ogni caso, comunque li si voglia giudicare, ne scaturirono mutamenti profondi, che tendono invece a scomparire nell'indifferenziata prospettiva di un «cattolicesimo moderno», come alcuni propongono, appena scalfito dalla frantumazione confessionale e dalle lotte religiose del «secolo di ferro».
Per parte mia, continuo a credere che quei concetti mantengano la loro validità, ma al tempo stesso che occorra accentuarne la dicotomia anziché la sintesi, e soprattutto che occorra depotenziare il mito del concilio di Trento come punto d'avvio di una tenace azione riformatrice. In realtà, fu soprattutto nella battaglia contro ogni deviazione ereticale che prese corpo un'iniziativa politica e religiosa che identificava la riforma della Chiesa con la tutela di una granitica ortodossia, già definita prima dei decreti tridentini e quindi non negoziabile, che avrebbe trovato nel Sant'Ufficio lo strumento con cui combattere ogni diversa istanza di rinnovamento allora profilatasi. Il rischio di un tracollo della fede cattolica era troppo grave per attendere che se ne rendessero conto pontefici come Paolo III e Giulio III, indaffarati in cure mondane, privi di ogni autentica sensibilità religiosa e incapaci di capire il rischio che si stava correndo. Occorreva insomma prendere in mano le redini dell'istituzione ecclesiastica, impedendo che a raggiungere la tiara fossero altri e autorevolissimi porporati che, sostenuti da Carlo V, indicavano invece la strada dell'irenismo e del compromesso dottrinale in vista della ricomposizione della respublica christiana, il che agli occhi egli inquisitori avrebbe significato né più né meno che precipitare la Chiesa nel baratro dell'eresia. Per un solo voto ciò non avvenne nell'interminabile conclave del 1549-50, e solo per le inaudite accuse di eresia da essi scagliate contro i loro rivali. Al fine di scongiurare il ripetersi di un simile rischio, negli anni seguenti il Sant'Ufficio venne allo scoperto nel combattere una battaglia tutta interna ai vertici della Chiesa per impadronirsi dei meccanismi dell'elezione papale e del controllo politico della curia, come avvenne a partire dal 1555. Solo in un secondo tempo l'azione repressiva si sarebbe volta verso la periferia per stroncare ovunque il dissenso religioso, allargandone via via gli ambiti, fino a coinvolgere letteratura, filosofia, scienza, santità, magia, stregoneria, trasgressioni sessuali del clero e altro ancora.
Tutto ciò contribuisce a spiegare perché i trionfi del Sant'Ufficio nell'Italia del secondo '500 si accompagnarono a un sostanziale fallimento delle istanze riformatrici manifestatesi alla conclusione del Tridentino, ben presto incagliatesi nel ferreo centralismo della curia romana, nel primato dell'obbedienza, nell'intangibilità del sistema beneficiario, nelle ribadite esenzioni degli ordini mendicanti. Pronti a maneggiare la clava inquisitoriale contro chiunque non si schierasse al loro fianco, infatti, i supremi tutori della fede furono ben disposti a chiudere un occhio, e se necessario anche due, sull'ignoranza e la corruzione dei religiosi o sull'assenteismo dei vescovi dalle diocesi, purché venisse assicurata la più rigorosa tutela dell'ortodossia. Quanto al concilio, un papa in fama di austero riformatore quale san Pio V non avrebbe esitato ad affermare che su molte questioni il Tridentino era stato guidato non tanto dallo spirito santo quanto da un bizzarro «folletto»: il che fra l'altro lo avrebbe autorizzato a non rispettarne in molti casi né la lettera né lo spirito e a continuare a fidarsi più dei frati che dei vescovi. Recenti ricerche hanno documentato con grande efficacia il costante atteggiamento della curia papale in età postridentina nell'arginare l'impegno degli ordinari diocesani contro i preti criminali, che trovavano invece nei tribunali d'appello e nelle congregazioni romane una sostanziale garanzia di impunità. Ne offrono conferma gli atti delle visite pastorali di fine '600, che riflettono un clero non molto diverso da quello di due secoli prima, con buona pace del Tridentino come svolta epocale nella storia della Chiesa e punto d'avvio di una capillare riforma cattolica, sia pur lenta e difficile, ma infine vittoriosa. Al di là delle «Indie di casa nostra» ovunque denunciate dai gesuiti, ancora alla metà del Settecento Antonio Genovesi avrebbe definito «huttentotti» i contadini alle porte di Napoli, selvaggi «senz'arte e talvolta senza religione, della quale molti di costoro non hanno che la sola corteccia senza lo spirito e i principi della vera morale», e nel 1786 le condizioni del clero lunigianese sarebbero apparse disastrose al duca Pietro Leopoldo. Anche a Roma gli slanci di rinnovamento del secondo '500 vennero affievolendosi nell'età dei Borghese, dei Barberini, dei Chigi, dove il presunto rinnovamento postridentino sembrò scivolare come una lieve brezza sul sistema beneficiario e giudiziario della curia papale.
Il che non significa che la Controriforma fu tutta e soltanto dettata dall'agenda e dalle strategie inquisitoriali, ma soltanto che esse ebbero un decisivo ruolo religioso e politico nel suo momento genetico, che costante ne fu la presenza nella storia della Chiesa fino a tempi recentissimi, avvertibile anche nel pur ineguale sforzo di disciplinamento religioso e morale promosso dall'istituzione ecclesiastica dopo la conclusione del concilio. Uno sforzo che non fu solo normativo e repressivo, ma anche caritativo, assistenziale e pedagogico, spesso rivolto ai ceti sociali più deboli, benevolmente paternalistico fin dove possibile, ma se necessario imposto con la forza, attraverso i tribunali della coscienza, gli strumenti della censura, il costante appoggio del braccio secolare. Manifestatosi in forme molto diverse nei diversi contesti politici e sociali, laddove fece sentire la sua influenza esso incise nel lungo periodo sul costume collettivo, sulle pratiche sociali (si pensi al matrimonio, per esempio), sulle forme devozionali dei paesi rimasti cattolici, soprattutto in Italia, di fatto l'unico paese sottoposto alla giurisdizione papale. Ma tale sforzo fu lento, difficile, contrastato da innumerevoli resistenze esterne e interne, non di rado incerto e velleitario, soprattutto nel Mezzogiorno, in larga misura neppure sfiorato dai decreti tridentini a un secolo di distanza, senza che la congregazione del concilio avesse la forza – e forse anche l'intenzione – di fare qualcosa per debellare consolidati abusi e malcostumi del clero, la sua sostanziale ingovernabilità e il continuo infoltirsi dei suoi ranghi per sottrarsi alla giurisdizione ordinaria, l'inadeguatezza dei vescovi, le infinite prepotenze della feudalità.

1 commento:

Antiper ha detto...

http://www.antiper.org/autoproduzioni/21-antiper-marx-eredi.html