venerdì 28 marzo 2014

Nicolao Merker sul concetto di populismo: un'occasione mancata

L'analisi di Merker, per come Gravagnuolo la ricostruisce, è interessante e, come sempre, molto ben fondata sul piano storiografico. Le sue conclusioni politiche sono però deludenti e, in quanto meramente propagandistiche, non all'altezza del problema che lui stesso individua.
Non cogliere l'internità della SPD e in generale del PSE ai processi di smantellamento della democrazia moderna significa essere troppo legati al partito della propria vita per mantenersi lucidi e obiettivi. Peccato. Dopo Canfora, anche Merker sacrifica l'obiettività scientifica all'opportunità politica [SGA]

Populismo Über Alles

Il filosofo Nicolao Merker ne fa la storia a partire dalla Germania Tutto nasce in terra teutonica e lì ritorna «Oggi i tedeschi lo praticano come i guardiani dell’Europa all’insegna del rigore monetario: da primi della classe», dice lo studioso
di Bruno Gravagnuolo l’Unità 28.3.14


«SI, TECNO-POPULISMO È LA DEFINIZIONE GIUSTA. OGGI I TEDESCHI LO PRATICANO COME GUARDIANI DELL’EUROPA ALL’INSEGNA DEL RIGORE MONETARIO: DA PRIMI DELLA CLASSE». Dunque tutto nasce dalla Germania e lì ritorna, secondo Nicolao Merker, professore emerito di filosofia moderna a Roma, allievo di Galvano della Volpe. E autore di studi fondamentali, sull’Illuminismo tedesco, e sulle Origini della logica hegeliana. Merker nel 2009 ha scritto per Laterza Filosofie del populismo, e per Carocci nel 2013 Il nazionalsocialismo. Storia di un’ideologia. Oggi sta lavorando su nazionalismi e Grande guerra. Dunque è lo studioso giusto per spiegarci il populismo tra passato e presente. Oltretutto, nato a Trento nel 1931 vive tra Roma e Innsbruck e conosce bene l’universo emotivo germanico. 
Professor Merker, il populismo nasce a sinistra nell’800, in Russia e in America. Poi emigra a destra dal ‘900 a oggi. Come mai? 
«È una creatura che acquista strani connotati nel tempo. Il People’s Party americano del 1899-90 rifiutava la rappresentanza parlamentare ed era basato sulle comunità rurali. Era avverso al ceto politico, “criminale”. Agli intellettuali e agli immigrati, ma restava una costola del Partito democratico. Il populismo russo invece, basato sull’alleanza di intellettuali e contadini, va inquadrato nella lotta all’assolutismo zarista, e appartiene alla storia del socialismo » 
Il trapianto in Europa è una vera mutazione reazionaria. Ma a partire dalla lotta a morte contro il 1789. È così? 
«In Europa, il segno cambia, malgrado certe analogie. In gioco c’è l’antica avversione contro la Rivoluzione francese e tutto ciò che ne deriva: dalla rappresentanza, all’eguaglianza, ai diritti dell’uomo. È sul continente che nasce l’idea del popolo come comunità mistica e indivisa.E la differenza con Russia e America, sta nel connubio tra mistica del popolo e “gerarchia”. Di qui viene pure l’idea del condottiero che sorge dal popolo e che ne riassume identità e flussi di energia. Il riconoscimento di massa del capo è esattamente questo». 
In fondo è una forma di tribalismo moderno... 
«Certo, c’è uno specimen tribale. E fin da autori raffinati come Edmund Burke, avverso al 1789 e assertore di tradizione, continuità, religione. Come valori che tessono la continuità della nazione attraverso le generazioni. Una trama che l’illuminismo “astratto” lacera. Anche il savoiardo De Maistre, ha un modo affine di ragionare, ancorché diverso. Il popolo è popolo di Dio e i sovversivi lo distolgono dalla sua destinazione divina. Rifiutando il mistero e l’Autorità». 
La Germania però è centrale. Non è lì che si celebra il tripudio del popolo offeso e «unico», dai romantici al nazismo? 
«La Germania è emblematica e “originaria”. Fichte incita alla guerra contro Napoleone. Lui e altri intellettuali affermano: se i tedeschi vogliono liberarsi dalla Francia, debbono fondarsi sull’opposto della Francia. Non sui diritti cosmopolitici, bensì sulla stirpe, sullo Stamm,: il ceppo etnico. Ecco l’ideologia völkish, etno-populista. Persino i liberali tedeschi, nel 1848 a Francoforte, misero all’ordine del giorno la cacciata dei polacchi, tanto per intendersi. Il punto è sempre quello, dagli Schlegel, a Novalis, a Fichte, ad Adam Mueller: la Germania deve basarsi sulla comunità di stirpe per essere uno stato-nazione».
Ieri come oggi, non c’è in tutto questo il senso dell’angoscia e dell’identità minacciata? «Nella nazione concepita in tal modo, l’angoscia è innegabile. È legata a risentimento e insicurezza. Quando uno stato-nazione diventa tale in ritardo, esplodono la gara contro gli altri, la paura di restare schiacciati. Il che è evidente nella Germania, divisa in centinaia di stati dopo il 1648, invasa dai francesi, poi travolta dalla catastrofe della prima guerra. Su questo si innesta la spinta salvifica populista con la ricerca di un capo che indichi un destino ai tedeschi, tra primato biologico della razza e narcisismo idealistico di onnipotenza. Gli attori politici del populismo odierno, nelle varie forme, ripercorrono inconsapevolmente queste movenze, magari in forme iper-democratiche e anticapitaliste. Ma è storia nota. Basti pensare al primo nazismo e al primo fascismo ». 
Veniamo al linguaggio. Che tipo di retorica contraddistingue i populismi, ieri e oggi? «L’antecedente esemplare è nel MEIN KAMPF DI HITLER. SI PRESCRIVEVA UN LINGUAGGIO FATTO DI POCHE FORMULE STEREOTIPE, DA RIPETERE IN MODO MARTELLANTE. FINO A FARLE DIVENTARE VERITÀ, COMEDISSE GOEBBELS. E L’ESALTAZIONE DELL’ISTINTO E DELL’INTUIZIONE. CONTRO IL RAGIONAMENTO. COSE GIÀ TEORIZZATE DA GUSTAVE LE BON, PSICOLOGO DELLE FOLLE AMATO DA MUSSOLINI E HITLER. INFINE, LA STIMOLAZIONE DELLA VIOLENZA E DELL’ECCITAZIONE. NELL’OTTICA DELL’AMICO/NEMICO. LORO E NOI...». 
Ma questa non è una specialità di Carl Schmitt, giurista decisionista di quegli anni? 
«C’è molto in comune con Schmitt, che teorizza lo stato razziale-etico: identità etnica dentro la contrapposizione col nemico etnico. E che rintraccia la coppia amico/nemico fin dentro le relazioni tra gli individui. Nondimeno il processo mondiale va in tutt’altro senso, come vide Kant nel suo PROGETTO DI PACE PERPETUA DEL 1794. DICEVA: LA TERRA È TONDA. PER QUESTO TUTTI DISTANO IN EGUAL MODO DAL CENTRO E SONO DESTINATI AD INCONTRARSI. È L’IDEA DELLA GLOBALIZZAZIONE DEMOCRATICA. DOVE LE DIFFERENZE ARRICCHISCONO L’UNIVERSALE. SENZA CHIUSURE E FOBIE». C’è anche un risvolto fobico del cosmopolitismo, che evoca nazionalismi e populismi. Come oggi in Europa. Non le pare? 
«Senza dubbio, perciò la storia del populismo è cruciale. L’Europa è nata come un legno storto. Come unione daziaria e monetaria e non politica. E con la presunzione dei tedeschi di fare da guardiani. L’inglobamento economico della Germania est, colonizzata e annessa, dimostra l’errore iniziale di questa Europa». 
Sta dicendo per caso che i virtuosi tedeschi dell’Ovest si sono comportati e si comportano da tecno- populisti egemoni, da populisti virtuosi? 
«Sono dei tecno-populisti, che si affidano alla dittatura dell’economia e praticano una sorta di primato, anche geopolitico. Nel segno di una sordità e di un’arroganza non confessate. L’ombra di Frau Merkel, brava capo famiglia e guardiana dei conti, ha cancellato sensibilità cosmopolitiche, come quelle di Willy Brandt. Ma in Germania esistono anche degli antidoti. Penso alle possibilità della Spd nella Grosse Koalition. E all’ultimo libro di Martin Schultz, socialdemocratico candidato alla presidenza della Commissione europea. Propone un Europa democratica ed eletta dai cittadini europei. Europa federale, che mutualizzi il debito, investa in infrastrutture e allarghi il mercato interno. Senza l’ossessione dell’inflazione. Insomma, gli Stati Uniti d’Europa. Almeno come ideale regolativo».

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