giovedì 27 marzo 2014
"Non c'è architettura senza filosofia"
Perché teoria e mestiere servono più dell’alta tecnologia. Una disciplina da ridefinire
di Vittorio Gregotti Corriere 26 marzo 2014
La cura della catastrofe
Architettura. Shigeru Ban, un ritratto del giapponese premio Pritzker che passò dal rugby alle costruzioni per le emergenze, realizzando case, teatri e ponti con cartone, tubi, stoffe e altri materiali poveri
Shigeru Ban è un progettista molto particolare. Educato, come
abbiamo visto, a Tokyo e poi in due scuole americane molto «di
tendenza», la Sci Arch di Los Angeles e la newyorchese Cooper
Union, si è costruito fin da subito un percorsoassai individuale.
Il suo lavoro è memore della ricchezza della tradizione modernista
giapponese, ma ha, allo stesso tempo, un carattere più rude
e immediato, influenzato forse della passione per il rugby e per
i valori molto poco glam che caratterizzano quello sport:
lealtà , coraggio, collaborazione, molta voglia di sporcarsi le
mani (magari di fango). E le mani Shigeru Ban se le è sporcate spesso,
specializzandosi da subito in architetture per l’emergenza
e accorrendo a sperimentarle e metterle a disposizione ogni volta
che i disastri le rendevano davvero necessarie: Kobe, Rwanda,
Cina, India, Haiti, L’Aquila, Onegawa.
La necessità di costruire velocemente a prezzi stracciati ha
stimolato nel progettista nato a Tokyo nel 1957 una ricerca
radicale e inusuale sui materiali e le tecniche di costruzione:
carta, tubi di cartone, legni poveri, container, stoffe. Questa
strana idea di costruzione leggera e «da montare» ha fatto da
elemento di connessione tra i suoi lavori emergenziali e quelli di
carattere più professionale, come la splendida serie di ville
e case minime realizzate in Giappone dagli anni novanta in poi. La
prima ad arrivare sui nostri tavoli, grazie a un servizio su
Casabella fu la casa Curtain wall del ’95, dove in sostanza non c’era differenza tra le tende e la casa stessa.
Dopo molti altri progetti di successo oggi Shigeru Ban è, a modo
suo, una star consolidata, con atelier a Tokyo, New York e Parigi.
Ha avuto per sei anni uno studio aperto sul tetto del Beaubourg, ha
edifici in costruzione in diverse parti del mondo, ha vinto decine di
premi, ha insegnato a Harvard, Cornell e in molte altre scuole.
Nonostante questo il suo lavoro non abbandona la natura povera
e sperimentale delle opere più giovanili, e il suo impegno rimane
alto, come si è visto in occasione dello tsunami giapponese o del
terremoto dell’Aquila. Semmai negli edifici maggiori il metodo da bricoleur di
Ban tende a evolvere verso una specie di monumentalità domestica
e inusuale, con intrecci barocchi di tubi di cartone e nervature
quasi floreali, come si vede nel Centre Pompidou di Metz e nella
Golf Club House coreana.
Guardando giornali e agenzie l’impressione è che molti
interpretino questo premio a Shigeru Ban come la conferma di uno
«spirito del tempo» ormai ostile alle archistar e all’iperlusso
architettonico. Certamente i tre ultimi premi – Wang Shu, Souto de
Moura e questo – danno l’impressione di voler celebrare ricerche più
appartate e sensibili al senso delle crisi (economica, ecologica,
espressiva) che attraversiamo. Ma col Pritzker non è mai detto,
basterebbe una vittoria a Steven Holl o a Peter Eisenman – due che
in qualche modo se lo aspettano — nel 2015 per smentire la tendenza.
Più interessante forse notare che si tratta della quarta volta in
cinque anni che il premio va a uno studio asiatico. E che per la
terza volta, sempre nelle ultime cinque, va a un giapponese (Sanaa,
Toyo Ito, Shigeru Ban, che si aggiungono a Tange e Maki). Forse qui
possiamo trovare un’argomentazione un po’ più sottile. Vale a dire
che nell’epoca in cui le archistar più acclamate costruiscono
edifici spettacolari e multimiliardari, nel lontano Oriente il
Pritzker premia architetti che vengono da quei paesi e che in
lavorano spesso a una scala di versa, con un’attenzione maggiore al
valore sociale e comunitario dell’architettura.
Questa, con tutta la volubilità di giurie che cambiano quasi
ogni anno, potrebbe essere una lettura politica della scelta
dell’edizione 2014.
Odile Decq 15 maggio 2014 Decq: «L’architetto sarà un neuroscienziato»
Aperte da qualche giorno, si chiudono tra quasi due mesi le iscrizioni all’accademia che la progettista ha creato a Lione. Via ai corsi in autunno. «La didattica è bloccata, la scuola è lontana da società e informatica. Noi puntiamo su altri linguaggi: fisica, medicina, nuove tecnologie»
Stefano Bucci La Lettura
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