mercoledì 5 marzo 2014

Santomassimo e il libro di Albeltaro su Pietro Secchia


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Un mito duro a morire 

Una storia italiana. «Ferreo organizzatore», il rivoluzionario che voleva l’insurrezione, il combattente che che si è scagliato contro il supposto tradimento della Resistenza . È uno dei giudizi che hanno accompagnato la figura di Pietro Secchia. «Le rivoluzioni non cadono dal cielo», il volume di Marco Albeltaro recentemente pubblicato da Laterza consente invece di ricostruire con rigore il percorso del leader comunista al di là dell’aura di dirigente ostile ai "cedimenti" del Pci che ha accompgnato la sua vita politica

Gianpasquale Santomassimo, il Manifesto 5.3.2014 


Ci sono, nella sto­ria del movi­mento ope­raio, miti che si for­mano spon­ta­nea­mente, altri che ven­gono ali­men­tati, altri ancora che pren­dono strade diverse da quelle imboc­cate in par­tenza. Il caso di Pie­tro Sec­chia rias­sume in sé tutte que­ste carat­te­ri­sti­che, e invita a ripen­sarne natura e con­si­stenza la bio­gra­fia appena pub­bli­cata da Marco Albel­taro(Le rivo­lu­zioni non cadono dal cielo. Pie­tro Sec­chia, una vita di parte, Laterza, pp. 235, euro 22). 

La dif­fi­coltà mag­giore che si incon­tra nel distri­carsi tra sto­ria e mito, nel caso spe­ci­fico, è dovuta al fatto che, come avverte l’autore fin dalla prima pagina, Sec­chia curò in prima per­sona la «costru­zione della pro­pria mito­lo­gia», per tutto il ven­ten­nio di emar­gi­na­zione pro­gres­siva dal cen­tro deci­sio­nale della poli­tica comu­ni­sta. Gran parte delle sue memo­rie sono di carat­tere auto­giu­sti­fi­ca­tivo e di riven­di­ca­zione risen­tita del suo ruolo, ma anche nel farsi sto­rico, e non irri­le­vante, di comu­ni­smo e Resi­stenza, l’esigenza di costruire e pre­ci­sare una pro­pria imma­gine giocò un ruolo di indub­bio rilievo. 

Dall’esterno, poi, molti tratti spe­ci­fici del comu­ni­smo di Sec­chia ver­ranno esa­spe­rati e tra­vi­sati, come accade spesso nelle mito­lo­gie che si auto­no­miz­zano e sfug­gono al con­trollo dell’ideatore. Ma pro­ce­diamo con ordine. 

È lecito chie­dersi pre­li­mi­nar­mente come l’autore di un cele­bre arti­colo sull’Unità del 1943 dedi­cato alla con­danna del «sini­stri­smo maschera della Gestapo» abbia finito per dive­nire icona pro­prio di un «sini­stri­smo» dif­fuso, che si irra­diava, subito dopo la morte del per­so­nag­gio, ben al di là delle cata­combe dello sta­li­ni­smo italiano. 
L’insurrezione sognata 

La rico­stru­zione di que­sto pro­cesso nell’immaginario di parte della sini­stra non è facile, e del resto non è nep­pure il com­pito che l’autore si pre­figge, nel pro­porre una bio­gra­fia ragio­nata di un impor­tante diri­gente comu­ni­sta. Cer­ta­mente gioca un ruolo impor­tante l’immagine pre­va­lente che di Sec­chia si afferma subito dopo la sua scom­parsa. Se è vero che Sec­chia non può essere inter­pre­tato ridut­ti­va­mente come L’uomo che sognava la lotta armata (che era il titolo di una vivace bio­gra­fia pub­bli­cata nel 1984 da Miriam Mafai), non c’è dub­bio però che una gran parte del suo mito dipenda da que­sta carat­te­riz­za­zione. L’elemento mili­tare del resto è pre­sente fin dall’inizio nella sua for­ma­zione di comu­ni­sta, ed è signi­fi­ca­tivo che del primo incon­tro in un con­gresso socia­li­sta a Biella con Gram­sci resti nella sua memo­ria solo l’accusa alla Fiom di non avere armato gli operai. 

In realtà Sec­chia fu uno dei più attivi e moti­vati gio­vani che ade­ri­rono al nuovo par­tito comu­ni­sta, e assieme a Luigi Longo fu diri­gente di spicco della Fede­ra­zione gio­va­nile (su quest’ultimo si veda ora il libro appena uscito di Ale­xan­der Höbel, Luigi Longo, una vita par­ti­giana (1900–1945), pre­fa­zione di Aldo Ago­sti, Carocci 2014, primo volume di un’opera della quale sarà molto utile tirare le fila quando giun­gerà a com­pi­mento). I «gio­vani» por­ta­vano nel PCd’I una velata cri­tica all’impianto delle Tesi di Lione, e la ripresa lar­vata di ele­menti del bor­di­ghi­smo nel quale si erano for­mati. La «svolta» della III Inter­na­zio­nale in dire­zione di un ina­spri­mento della lotta con­tro le social­de­mo­cra­zie, con la pre­vi­sione di una situa­zione a breve insur­re­zio­nale, vide pre­miate le loro istanze, ed essi saranno i pro­ta­go­ni­sti della ripresa di una dif­fusa atti­vità clan­de­stina nell’Italia fasci­sta. Una scelta disa­strosa sul piano degli esiti (cat­tura di gran parte dei diri­genti inviati nella peni­sola) e basata su un’analisi inge­nua della fase che si apriva, ma sem­pre riven­di­cata a poste­riori dai pro­ta­go­ni­sti (non solo Sec­chia, ma anche Amen­dola) come errore «prov­vi­den­ziale» che aveva ripor­tato l’organizzazione clan­de­stina del PCd’I in Ita­lia, ponendo le basi per la futura esplo­sione di massa nella Resi­stenza. Ci sarebbe molto da discu­tere su que­sto, e molto si è discusso. Limi­tia­moci qui a rile­vare che Sec­chia in que­sto fran­gente rivelò le sue doti di «fer­reo orga­niz­za­tore» (che avrebbe con­fer­mato nel ’43-‘45), e maturò nell’etica e nel costume di un «rivo­lu­zio­na­rio di pro­fes­sione», figura impor­tante e cen­trale della poli­tica nove­cen­te­sca. Il titolo scelto dall’autore, sulle «rivo­lu­zioni che non cadono dal cielo», ripro­duce il pen­siero effet­tivo di un orga­niz­za­tore che dif­fidò sem­pre del mito della «spon­ta­neità», anche in pole­mica con altre cor­renti rivoluzionarie. 

La cat­tura da parte dei fasci­sti gli pro­curò un lungo periodo di pri­gio­nia, dall’aprile del 1931 all’agosto del 1943, e gli impedì di pren­der parte all’esperienza dei Fronti Popo­lari e della guerra civile spa­gnola, nelle quali maturò la sta­tura di Longo come grande diri­gente. Furono per Sec­chia anni di stu­dio, di Clau­sewitz e di altri clas­sici del pen­siero mili­tare, di aggior­na­mento sugli svi­luppi della poli­tica sovie­tica, di intran­si­genza nei con­fronti dei con­fi­nati non con­vinti di quelle scelte, come ad esem­pio Terracini. 

Inviato a Nord dopo la scar­ce­ra­zione, ebbe un ruolo fon­da­men­tale sul piano poli­tico e soprat­tutto orga­niz­za­tivo nel par­tito, e qui con­tri­buì a «inca­na­lare» la spon­ta­neità di fondo di gran parte del movi­mento resi­sten­ziale nella strut­tura poli­tica comu­ni­sta. Come tutto il par­tito del Nord accolse con favore la svolta di Salerno che con­sen­tiva di con­cen­trare tutte le ener­gie nella lotta con­tro i tede­schi; le dif­fe­renze rispetto alla poli­tica togliat­tiana riguar­da­vano il ruolo poli­tico e volto al futuro attri­buito ai Cln rispetto all’impianto costi­tu­zio­nale fon­dato sulla demo­cra­zia par­la­men­tare che il par­tito del Sud stava realizzando. 
La fra­go­rosa caduta 

Un serio ele­mento di dis­senso si mani­fe­sta nel dicem­bre 1947, quando inviato a Mosca pre­senta a Sta­lin una rela­zione for­te­mente cri­tica con­tro la poli­tica ecces­si­va­mente «lega­li­ta­ria» attri­buita a Togliatti. Non viene inco­rag­giato da Sta­lin in una pos­si­bile avven­tura insur­re­zio­nale, che entrambi esclu­dono, ma a dire di Sec­chia rimase l’«ottima impres­sione» fatta a Sta­lin. Di fatto viene, a torto o a ragione, iden­ti­fi­cato da molti come l’uomo di fidu­cia dei sovie­tici, sen­sa­zione che si raf­forza quando viene improv­vi­sa­mente nomi­nato vice­se­gre­ta­rio del Pci nel feb­braio 1948, a con­gresso ormai da tempo con­cluso e affian­cato a Longo che già rico­priva quella carica. 

Sec­chia non verrà emar­gi­nato dalla desta­li­niz­za­zione, come acca­drà a molti diri­genti della «vec­chia guar­dia», ma la sua caduta fra­go­rosa avvenne prima, il 25 luglio del 1954, a causa di una vicenda che con­ti­nua ad appa­rire cla­mo­rosa nelle sue impli­ca­zioni. Il suo più stretto col­la­bo­ra­tore, Giu­lio Seniga, scom­pare por­tando via una somma enorme di denaro rastrel­lato da gran parte dei depo­siti cui aveva accesso e molti docu­menti riser­vati. Le moti­va­zioni che ver­ranno date di que­sto gesto oscil­lano tra la volontà di dare una spinta a un Sec­chia rilut­tante a met­tersi alla testa di una cor­rente «rivo­lu­zio­na­ria» che desse bat­ta­glia all’interno del par­tito con­tro i «cedi­menti» oppor­tu­ni­stici o di creare un fatto com­piuto che costrin­gesse Sec­chia a uscire dal par­tito e creare un pro­prio movi­mento. Era in ogni caso un «piano assurdo, inge­nuo e cre­tino», come com­menta Sec­chia nei suoi diari retro­spet­tivi, ma lascia inten­dere il clima che si respi­rava nella cer­chia più intima di chi gestiva l’organizzazione del par­tito. Albel­taro glissa oppor­tu­na­mente sulla tema­tica dell’omosessualità, che pure fu tirata in ballo, anche se rileva molte stra­nezze nei diari di Sec­chia sulla sfera della ses­sua­lità. Certo molti si chie­sero come mai un uomo così cauto e avve­duto avesse con­fe­rito tanto potere a un uomo dalla mili­zia comu­ni­sta rela­ti­va­mente recente. 

A par­tire di qui Sec­chia subì una pro­gres­siva emar­gi­na­zione, anche se mai com­pleta: fu vice­pre­si­dente del Senato, dele­gato a molti con­gressi inter­na­zio­nali, ma senza avere più voce in capi­tolo negli orga­ni­smi in cui si deci­deva la linea poli­tica comu­ni­sta. Negli anni suc­ces­sivi si dedicò soprat­tutto alla sto­ria della Resi­stenza e del par­tito comu­ni­sta, lasciando con­tri­buti di rilievo pur se intrec­ciati a un ine­vi­ta­bile auto­bio­gra­fi­smo (carat­te­ri­stica che fu pro­pria di tutti i diri­genti di quel par­tito fat­tisi storici). 

La vera discus­sione che si apre o si ria­pre a distanza di tanti anni verte essen­zial­mente attorno a un’unica que­stione: fu quella di Sec­chia una linea alter­na­tiva al togliat­ti­smo? Anche Albel­taro, come tutti gli sto­rici che si sono posti il que­sito, a par­tire da Enzo Col­lotti che curò la pub­bli­ca­zione dell’Archi­vio Sec­chia, tende a negarlo: fu piut­to­sto una diva­ri­ca­zione all’interno di una linea comune. Era la posi­zione dello stesso Sec­chia, del resto. 
La difesa della resistenza 

Nelle sue carte negò sem­pre di avere in alcun modo adom­brato l’idea di una con­qui­sta armata del potere durante la Resi­stenza. E in effetti quando Sec­chia parla di «Resi­stenza tra­dita», che è il tema del suo inter­vento par­la­men­tare più rile­vante pro­nun­ciato al Senato nell’ottobre 1949, fa sem­pre rife­ri­mento ai par­ti­giani incri­mi­nati in paral­lelo coi fasci­sti amni­stiati, alla restau­ra­zione di per­so­nale e di metodi dello Stato fasci­sta inter­ve­nuti dopo la rot­tura della col­la­bo­ra­zione gover­na­tiva nel 1947. Anche quello dell’operaismo (qui inteso nel signi­fi­cato un po’ gri­gio e cor­po­ra­tivo che il ter­mine aveva prima di venire com­ple­ta­mente rein­ven­tato da intel­let­tuali negli anni Ses­santa) è un mito postic­cio che a Sec­chia viene sovrap­po­sto, lad­dove, come docu­menta Albel­taro, nei suoi inter­venti aveva al con­tra­rio sem­pre lamen­tato l’incapacità di aper­ture al «ceto medio» che rim­pro­ve­rava al partito. 

La sua con­ce­zione del par­tito for­mal­mente non si disco­stava molto da quella di Togliatti, che per primo aveva par­lato, nel 1947, di un par­tito di massa che doveva diven­tare anche par­tito di qua­dri, anche se la visione di un «par­tito di qua­dri di massa», che Sec­chia sem­brava adom­brare, pareva fuori dal novero delle possibilità. 

E indub­bia­mente Pie­tro Sec­chia non fu mai un ere­tico, ma un diri­gente che rien­trava in pieno nel main­stream del comu­ni­smo euro­peo: tra i comu­ni­sti fran­cesi, greci o por­to­ghesi le sue posi­zioni sareb­bero apparse con­sue­tu­di­na­rie, e lo furono a lungo anche in quello ita­liano, fino a quando non entra­rono in con­flitto con l’anomalia rap­pre­sen­tata dall’impronta auto­noma e ori­gi­nale che Togliatti cer­cava di impri­mere alla costru­zione di una via ita­liana al socia­li­smo che non fosse la sem­plice rima­sti­ca­tura, con poche varianti, di vec­chi cate­chi­smi bolscevichi. 

È solo intrec­ciando le posi­zioni uffi­ciali con quelle dei diari che si com­prende il solco che si stava sca­vando tra Sec­chia e Togliatti, nel rifiuto delle posi­zioni più ori­gi­nali e inno­va­tive che il Pci andava assu­mendo: dal discorso sul destino dell’uomo di fronte alla pace e alla guerra e sul pon­ti­fi­cato di Gio­vanni XXIII rubri­cato come sem­plice «svio­li­na­tura cle­ri­cale», alle ricor­renti e ripe­ti­tive accuse di cedi­mento social­de­mo­cra­tico riser­vate a Togliatti e poi a Longo, in note che all’autore paiono det­tate più da «risen­ti­mento» che da ela­bo­ra­zione alter­na­tiva: l’espressione «spin­gere al mas­simo» che ricorre in Sec­chia fa inten­dere la dispo­si­zione ad agire con mag­giore radi­ca­lità ma senza mai andare oltre con­fini ben defi­niti che non vanno comun­que varcati. 
Le delu­sioni storiche 

Negli ultimi anni Sec­chia fu col­pito dal movi­mento stu­den­te­sco, nel quale rav­visò somi­glianze col ribel­li­smo della pro­pria gene­ra­zione, ma che inter­pretò sem­pre facen­dolo rien­trare nei canoni rigidi della sua for­ma­zione teo­rica. Isti­tuì un legame con Fel­tri­nelli, che si tra­dusse nella cura di Annali e nel libro sulla Guer­ri­glia in Ita­lia (1969) che pro­ba­bil­mente influì mol­tis­simo sul mito postumo. Viag­giò molto, per docu­men­tarsi sulle crisi rivo­lu­zio­na­rie che si erano aperte nel mondo, e nel suo ultimo viag­gio in Cile con­trasse una miste­riosa intos­si­ca­zione che dopo qual­che mese lo con­dusse alla morte il 7 luglio del 1973. Si parlò di avve­le­na­mento da parte della Cia, senza alcun ele­mento di plau­si­bi­lità, ma anche que­sto entrò a far parte dell’alone mitico che cir­condò a lungo la sua figura. 

Un’ultima con­si­de­ra­zione. Pro­ba­bil­mente non è mai esi­stito il tanto discusso «gram­scia­zio­ni­smo», in quanto l’ispirazione gobet­tiana rias­su­meva in sé anche gran parte delle sug­ge­stioni del gio­vane Gram­sci, men­tre il Gram­sci maturo era incom­pa­ti­bile con i pre­sup­po­sti della forma men­tis azio­ni­sta. Cer­ta­mente è esi­stito però negli anni Set­tanta un «sec­chia­zio­ni­smo», che era la con­fluenza di due delu­sioni sto­ri­che, e nel quale si intrec­cia­vano anti­chi e gio­vani mugu­gni sulla svolta di Salerno, il mito della Resi­stenza quale rivo­lu­zione tra­dita, la sfi­du­cia nella Costi­tu­zione repub­bli­cana valu­tata quale com­pro­messo dete­riore, ammic­ca­menti alla lotta armata e avver­sione verso le forme della media­zione poli­tica e sin­da­cale. Una parte cospi­cua della pro­du­zione para­sto­rica di que­gli anni riflette l’influenza di que­sto con­fuso amal­gama. Di tutto que­sto Sec­chia non è ovvia­mente respon­sa­bile, e la rifles­sione sto­rica final­mente avviata sulla sua per­so­na­lità serve anche a depo­ten­ziare o cir­co­scri­vere nei suoi giu­sti limiti una mito­lo­gia dalla fra­gile consistenza.

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