Antonino Pennisi: L’errore di Platone. Biopolitica, linguaggio e diritti civili in tempo di crisi, il Mulino
Risvolto
L’uomo è davvero un «animale politico» come lo definiva Aristotele? Esistono dei vincoli naturali nei modi di governare degli animali sociali? E se ciò fosse vero, che ruolo svolgono nella crisi che stiamo vivendo? A partire da una critica dell’ingegneria politica di Platone, il libro delinea una biopolitica alternativa fondata sui regolatori naturalistici dell’evoluzione: il linguaggio, la riproduzione e le migrazioni. L’autore mostra come qualsiasi organizzazione politica degli animali sociali non dipenda dalla trasmissione ereditaria dei «buoni geni», ma dall’insieme delle relazioni speciali che si instaurano per massimizzare la cooperazione sociale e l’intelligenza ecologica.
L’uomo è davvero un «animale politico» come lo definiva Aristotele? Esistono dei vincoli naturali nei modi di governare degli animali sociali? E se ciò fosse vero, che ruolo svolgono nella crisi che stiamo vivendo? A partire da una critica dell’ingegneria politica di Platone, il libro delinea una biopolitica alternativa fondata sui regolatori naturalistici dell’evoluzione: il linguaggio, la riproduzione e le migrazioni. L’autore mostra come qualsiasi organizzazione politica degli animali sociali non dipenda dalla trasmissione ereditaria dei «buoni geni», ma dall’insieme delle relazioni speciali che si instaurano per massimizzare la cooperazione sociale e l’intelligenza ecologica.
Una biopolitica diversa, senza Foucault
La demografia e le migrazioni come vincoli naturali cui l’uomo non può sottrarsi Porte aperte ai lavoratori stranieri, diritti alle coppie gay, no al mito della decrescita
di Antonio Carioti Corriere La Lettura 23.3.14
Quando
si parla di biopolitica, soprattutto in Italia, il richiamo obbligato è
al filosofo francese Michel Foucault, che introdusse questo concetto
per definire i conflitti causati dalla tendenza del potere, in epoca
moderna, a controllare e regolare l’esistenza delle persone in quanto
esseri viventi, attraverso misure profilattiche, sanitarie,
demografiche, fino agli orrori dell’eugenetica nazista. Diversi autori
di spicco, da Giorgio Agamben a Roberto Esposito, da Toni Negri a Felice
Cimatti, s’ispirano oggi a questo lascito foucaultiano.
Esiste però
una visione alternativa della biopolitica, proposta dal filosofo del
linguaggio Antonino Pennisi, sulla scorta di una vasta letteratura
anglosassone, nel saggio L’errore di Platone (il Mulino). Malgrado il
titolo, il grande pensatore greco non è al centro della trattazione: il
suo sbaglio sarebbe consistito nell’affidare alla volontà umana la
missione impossibile di plasmare la convivenza politica sulla base di
progetti intellettualistici. Invece Pennisi dice alla «Lettura» di
ritenere «che per difendere l’umanità occorra guardare più ai limiti che
alle possibilità della nostra specie». Il contrario di quanto è
successo nel Novecento, «un secolo presuntuoso, antropocentrico, che non
ha voluto riconoscere i vincoli biologici dell’uomo e lo ha giudicato
onnipotente, solo perché dotato di linguaggio e coscienza», fino a
produrre «i più efferati delitti contro l’umanità».
Insomma, mentre
la scuola foucaultiana rivendica il diritto soggettivo alla pienezza
della vita, denunciando le costrizioni imposte dal potere, oggi in
particolare attraverso le scelte economiche dettate dalla finanza
globale, la biopolitica nella versione di Pennisi «parte dalla
consapevolezza dei vincoli naturali entro cui può muoversi la
progettazione politica». A suo avviso, ogni disegno riformatore deve
fondarsi «su quelle che sin dalle origini sono state le due principali
molle dell’evoluzione sociale: i processi riproduttivi e quelli
migratori. L’Homo sapiens è comparso 200 mila anni fa in una piccola
regione dell’Africa centro-meridionale e si è espanso riproducendosi ed
emigrando dappertutto. Tale attività non è mai cessata e ha modellato il
mondo. Anche oggi i successi delle politiche nazionali derivano
soprattutto dalla capacità di dare risposte concrete per gestire i
diritti civili relativi alla riproduzione, quindi alle nuove forme di
famiglia e alle migrazioni internazionali, con leggi che garantiscano lo
spostamento e l’insediamento civile di coloro che lasciano le proprie
terre d’origine».
Non c’è da stupirsi che la ricetta di Pennisi per
combattere la crisi parta dal «nesso tra crescita economica e aumento
della popolazione», nel quale individua, forse con un eccesso di
determinismo, «l’unica bussola reale della navigazione biopolitica». Gli
appare ozioso che ci si accapigli su «come redistribuire le ricchezze
con piccoli provvedimenti che spostano una coperta stretta da un lato o
dall’altro delle classi sociali». E liquida come «un piccolo fattarello
di cronaca che la Germania abbia ancora una buona tenuta economica e
l’Italia no», poiché i due Paesi sono affetti da fenomeni analoghi di
denatalità e invecchiamento della popolazione. La vera urgenza, afferma
Pennisi, è «mantenere in equilibrio le diverse generazioni produttive
rispetto a tutte le altre». Perciò è indispensabile «investire in
popolazione giovane e in immigrazione», per «immettere energie fresche
nel sistema sociale» e innescare così uno sviluppo durevole.
Porte
aperte ai lavoratori stranieri, dunque. E anche ai diritti dei gay.
Pennisi non reputa affatto casuale la concomitanza tra la crisi
economica e l’approvazione di numerose leggi, in molti Paesi del mondo,
per il riconoscimento delle coppie omosessuali. Collega tale fenomeno
all’emancipazione civile e lavorativa delle giovani donne «che non fanno
più, o fanno pochissimi, figli». Il combinato disposto, osserva, «è
destinato a creare una depressione demografica ancor più grave». Un
meccanismo che «non è arrestabile perché è il naturale risultato di
quelle che gli specialisti chiamano transizioni demografiche, uguali
nell’evoluzione di tutti i tempi e di tutte le nazioni». Una volta
legittimata appieno la «sessualità non riproduttiva», conclude Pennisi,
bisognerà prendere atto che al declino della natalità «c’è un solo
rimedio naturale: lo spostamento di grandi masse di migranti che
potranno redistribuire le giovinezze mancanti».
Detto così sembra un
po’ troppo semplice. Date le tensioni socio-culturali provocate
dall’immigrazione, viene da obiettare che converrebbe comunque fare
qualcosa per aiutare gli autoctoni a mettere al mondo una prole più
numerosa. Ma secondo Pennisi «l’ingegneria della fecondazione
artificiale o quella del sostegno sociale alle madri che lavorano» sono
soltanto «piccoli palliativi». A suo parere la retorica antimmigrati,
assurda sotto il profilo biopolitico, è un frutto avvelenato della dote
che distingue maggiormente la nostra specie, il linguaggio.
Anche
altri animali (api, cervi, babbuini, uccelli migratori), nota Pennisi,
«prendono decisioni che passano per l’elaborazione di un consenso
collettivo», ma lo fanno «con segnali univoci», mirando sempre «a
trovare la soluzione ecologicamente conveniente all’intera comunità e
non al bene di un suo membro o di una sua parte». Noi uomini
comunichiamo in modo assai più complesso e abbiamo un’acuta coscienza
dell’individualità. Qualità eccezionali, che si rivelano tuttavia armi a
doppio taglio, perché ci portano a creare «universi di discorso,
dispositivi riccamente articolati per la produzione di teorie, sistemi,
credenze», spesso finalizzati a «favorire logge, corporazioni, partiti,
se non singoli individui». Il risultato è che i parlamenti si perdono in
chiacchiere e «non servono ad assumere decisioni utili per tutti».
Tra
le ideologie prese di mira da Pennisi non c’è però soltanto il
populismo xenofobo antimmigrati. Ammiratore del liberalismo
settecentesco, che «inaugurò la grande stagione della circolazione
sociale dei beni e delle idee», boccia senza appello i fautori della
decrescita. La retromarcia dell’economia non gli appare affatto
auspicabile: «In Italia — s’indigna — stiamo già morendo di decrescita,
eppure c’è chi vuole propinarla persino all’esercito dei disoccupati,
guadagnandoci pure sulle disgrazie altrui. Ma la diminuzione dei consumi
è sempre fonte di enormi tragedie collettive».
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