Vladimir Jankélévitch: Il puro e l’impuro, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, edizioni Einaudi
Risvolto
In una stagione che tende a tradurre il crollo dei principî morali in
un facile relativismo, il pensiero di Vladimir Jankélévitch costituisce
il piú influente e rigoroso tentativo filosofico di imboccare una
strada diversa. In questo libro, in cui la sua cinquantennale ricerca
raggiunge uno dei vertici, il filosofo decostruisce, con straordinario
acume analitico e tensione etica, la nozione di purezza nella
sua dialettica complessa con l'impurità.
Contro tutte le metafisiche,
antiche e moderne, che hanno cercato di immunizzare
l'esperienza umana, purificandola dalla sua stessa costitutiva molteplicità,
Jankélévitch riconosce nell'infinita alterazione della vita
l'unica fonte di senso per l'azione umana. In tal modo, in un paradossale
elogio dell'equivoco, l'impurità diventa la sede indepassabile
di una purezza non metafisicamente presupposta, ma calibrata
sull'attitudine intransigente a discernere in ogni singola occasione
il bene dal male.
Elogio filosofico dell’imperfezione
di Pier Aldo Rovatti Repubblica 23.3.14
Ecco
un altro libro, a lungo dimenticato, che viene finalmente tradotto in
italiano (Vladimir Jankélévitch, Il puro e l’impuro, a cura di Enrica
Lisciani-Petrini, edizioni Einaudi). È subito evidente quanto esso entri
e possa incidere – nonostante tutto – nelle difficoltà culturali che
stiamo attualmente attraversando.
È un elogio dell’impurità e la
denuncia radicale di ogni rigurgito purista, di ogni rinascente
ideologia della purificazione. Al tempo stesso questo libro, tutto
filosofico, è anche una denuncia formidabile di qualunque
“confusionismo” relativistico, poiché quello che Jankélévitch chiama
“l’impuro” è per lui una condizione di fatto, un dato di realtà, un
“evento”, al quale possiamo corrispondere in vari modi e con differenti
pratiche. Possiamo rifiutarlo e rispolverare la vecchia contrapposizione
tra Bene e Male inneggiando al purismo e alla purificazione come se
ancora pensassimo di aver perduto il nostro “paradiso” e dovessimo,
magari fanaticamente, continuare a nutrire l’illusione di
riconquistarlo. Oppure possiamo accettare l’idea che stiamo vivendo in
un miscuglio tra puro e impuro, innalzare la bandiera dell’opportunismo,
della furbizia calcolatrice e del compromesso relativistico dove niente
ha più valore e tutto si computa in interessi egoistici. Ma, secondo
Jankélévitch nessuna di queste due vie ci porta positivamente da qualche
parte. La prima – quella della nostalgia di una metafisica purista – è
una caricatura piena di conseguenze nefaste: ci conduce dritto ai
fondamentalismi grandi e piccoli, per esempio si concretizza
nell’attuale persistenza assurda dei razzismi. La seconda – quella
moderna e postmoderna del tramonto di ogni valore e della omologazione
pluralista delle verità – viene usata per giustificare ogni
comportamento nel nome di un effettivo trionfo dell’impurità.
Allora,
siamo bloccati? No – sostiene Jankélévitch – perché se non possiamo
chiudere gli occhi davanti alla condizione impura e mescolata che stiamo
vivendo, possiamo però “gestire” l’impurità, trovarvi elementi di
trasformazione e di libertà, qualcosa come una paradossale “purezza
dell’impuro”. Per cercare di capire quest’affermazione alquanto
scabrosa, pensiamo solo a una questione filosofica, sociale e politica,
che assilla la nostra attuale cultura: il problema dell’“identità”.
Nella versione purista c’è un’identità essenziale da recuperare e da
difendere. Nella versione moderna e confusivamente impura, le identità
si moltiplicano e ciascuno può far valere la propria, impura ma per lui
valida. Jankélévitch (che ha alle spalle il pensiero di Bergson) pensa
invece che l’identità non sia qualcosa di fermo, bensì il movimento di
un’incessante “alterazione” di se stessi: non ha niente di
fondamentalmente puro, agisce nell’impurità reale, tuttavia tiene
costante la barra di una simile pratica e la sua “purezza” consiste
proprio nella capacità di mantenere un equilibrio morale senza
arrestarsi o cadere. Potremmo anche chiamarla “libertà”.
Ho scritto
all’inizio “nonostante tutto”. Il libro nasce da un corso di filosofia
morale tenuto alla Sorbona di Parigi alla fine degli anni Cinquanta.
Avrei voluto essere lì perché tutti raccontano che quelle lezioni erano
straordinariamente cariche di fascino: oggi però facciamo un po’ fatica a
immaginarle. Ancorché dotato di humour (qualità non così comune per un
filosofo), Jankélévitch lavora dentro il discorso filosofico della
tradizione con grande severità e con uno speciale rigore fatto di
continui rimandi e intrecci. Una prosa avvolgente e tortuosa, come
giustamente osserva anche la curatrice Enrica Lisciani-Petrini
rimandando, per capirne meglio i tratti, al libro-intervista del 1978 Da
qualche parte nell’incompiuto (Einaudi, 2011). Il lettore è dunque
chiamato a un esercizio di pazienza e di attenzione al quale al giorno
d’oggi siamo decisamente poco avvezzi. E queste stesse righe che state
leggendo scontano la difficoltà di riassumere senza falsificarlo un modo
di ragionare che attribuisce alle sfumature il compito di un
paradossale rigore concettuale.
Una particolare menzione merita, in
proposito, l’introduzione al volume della curatrice, che è di certo la
più accreditata studiosa italiana di Jankélévitch. Consiglierei il
lettore di non rivolgervi uno sguardo en passant, perché qui troverà il
risultato di una lettura molto chiara, intelligente e rispettosa del
testo, istruzioni per l’uso utilissime per immettersi in quell’“Elogio
dell’equivoco” (è appunto il titolo del saggio introduttivo di
Lisciani-Petrini) che innerva tutte le pagine di Jankélévitch.
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