domenica 23 marzo 2014

Tradotto Il puro e l'impuro di Vladimir Jankélévitch


Vladimir Jankélévitch: Il puro e l’impuro, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, edizioni Einaudi

Risvolto
In una stagione che tende a tradurre il crollo dei principî morali in un facile relativismo, il pensiero di Vladimir Jankélévitch costituisce il piú influente e rigoroso tentativo filosofico di imboccare una strada diversa. In questo libro, in cui la sua cinquantennale ricerca raggiunge uno dei vertici, il filosofo decostruisce, con straordinario acume analitico e tensione etica, la nozione di purezza nella sua dialettica complessa con l'impurità.


Contro tutte le metafisiche, antiche e moderne, che hanno cercato di immunizzare l'esperienza umana, purificandola dalla sua stessa costitutiva molteplicità, Jankélévitch riconosce nell'infinita alterazione della vita l'unica fonte di senso per l'azione umana. In tal modo, in un paradossale elogio dell'equivoco, l'impurità diventa la sede indepassabile di una purezza non metafisicamente presupposta, ma calibrata sull'attitudine intransigente a discernere in ogni singola occasione il bene dal male.                    


Elogio filosofico dell’imperfezione
di Pier Aldo Rovatti  Repubblica 23.3.14


Ecco un altro libro, a lungo dimenticato, che viene finalmente tradotto in italiano (Vladimir Jankélévitch, Il puro e l’impuro, a cura di Enrica Lisciani-Petrini, edizioni Einaudi). È subito evidente quanto esso entri e possa incidere – nonostante tutto – nelle difficoltà culturali che stiamo attualmente attraversando.
È un elogio dell’impurità e la denuncia radicale di ogni rigurgito purista, di ogni rinascente ideologia della purificazione. Al tempo stesso questo libro, tutto filosofico, è anche una denuncia formidabile di qualunque “confusionismo” relativistico, poiché quello che Jankélévitch chiama “l’impuro” è per lui una condizione di fatto, un dato di realtà, un “evento”, al quale possiamo corrispondere in vari modi e con differenti pratiche. Possiamo rifiutarlo e rispolverare la vecchia contrapposizione tra Bene e Male inneggiando al purismo e alla purificazione come se ancora pensassimo di aver perduto il nostro “paradiso” e dovessimo, magari fanaticamente, continuare a nutrire l’illusione di riconquistarlo. Oppure possiamo accettare l’idea che stiamo vivendo in un miscuglio tra puro e impuro, innalzare la bandiera dell’opportunismo, della furbizia calcolatrice e del compromesso relativistico dove niente ha più valore e tutto si computa in interessi egoistici. Ma, secondo Jankélévitch nessuna di queste due vie ci porta positivamente da qualche parte. La prima – quella della nostalgia di una metafisica purista – è una caricatura piena di conseguenze nefaste: ci conduce dritto ai fondamentalismi grandi e piccoli, per esempio si concretizza nell’attuale persistenza assurda dei razzismi. La seconda – quella moderna e postmoderna del tramonto di ogni valore e della omologazione pluralista delle verità – viene usata per giustificare ogni comportamento nel nome di un effettivo trionfo dell’impurità.
Allora, siamo bloccati? No – sostiene Jankélévitch – perché se non possiamo chiudere gli occhi davanti alla condizione impura e mescolata che stiamo vivendo, possiamo però “gestire” l’impurità, trovarvi elementi di trasformazione e di libertà, qualcosa come una paradossale “purezza dell’impuro”. Per cercare di capire quest’affermazione alquanto scabrosa, pensiamo solo a una questione filosofica, sociale e politica, che assilla la nostra attuale cultura: il problema dell’“identità”. Nella versione purista c’è un’identità essenziale da recuperare e da difendere. Nella versione moderna e confusivamente impura, le identità si moltiplicano e ciascuno può far valere la propria, impura ma per lui valida. Jankélévitch (che ha alle spalle il pensiero di Bergson) pensa invece che l’identità non sia qualcosa di fermo, bensì il movimento di un’incessante “alterazione” di se stessi: non ha niente di fondamentalmente puro, agisce nell’impurità reale, tuttavia tiene costante la barra di una simile pratica e la sua “purezza” consiste proprio nella capacità di mantenere un equilibrio morale senza arrestarsi o cadere. Potremmo anche chiamarla “libertà”.
Ho scritto all’inizio “nonostante tutto”. Il libro nasce da un corso di filosofia morale tenuto alla Sorbona di Parigi alla fine degli anni Cinquanta. Avrei voluto essere lì perché tutti raccontano che quelle lezioni erano straordinariamente cariche di fascino: oggi però facciamo un po’ fatica a immaginarle. Ancorché dotato di humour (qualità non così comune per un filosofo), Jankélévitch lavora dentro il discorso filosofico della tradizione con grande severità e con uno speciale rigore fatto di continui rimandi e intrecci. Una prosa avvolgente e tortuosa, come giustamente osserva anche la curatrice Enrica Lisciani-Petrini rimandando, per capirne meglio i tratti, al libro-intervista del 1978 Da qualche parte nell’incompiuto (Einaudi, 2011). Il lettore è dunque chiamato a un esercizio di pazienza e di attenzione al quale al giorno d’oggi siamo decisamente poco avvezzi. E queste stesse righe che state leggendo scontano la difficoltà di riassumere senza falsificarlo un modo di ragionare che attribuisce alle sfumature il compito di un paradossale rigore concettuale.
Una particolare menzione merita, in proposito, l’introduzione al volume della curatrice, che è di certo la più accreditata studiosa italiana di Jankélévitch. Consiglierei il lettore di non rivolgervi uno sguardo en passant, perché qui troverà il risultato di una lettura molto chiara, intelligente e rispettosa del testo, istruzioni per l’uso utilissime per immettersi in quell’“Elogio dell’equivoco” (è appunto il titolo del saggio introduttivo di Lisciani-Petrini) che innerva tutte le pagine di Jankélévitch.

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