lunedì 28 aprile 2014
L'impegno umanitario di Di Vittorio per i soldati italiani che avevano aggredito l'Urss ed erano stati fatti prigionieri di guerraUrss
Ritrovati ora negli archivi della Cgil i documenti della missione del segretario con lettere e foto dai lager di Stalin
di Concetto Vecchio Repubblica 27.4.14
GLI SCRIVONO con calligrafia tremante: «Segretario Di Vittorio, liberaci
da questa tormentosa angoscia». Dalla lettera di Nunziata Ciuciotta:
«Le ultime notizie di mio figlio Antonio risalgono al 20 febbraio 1943 e
da allora ho vissuto in uno stato di ansia e di attesa incredibili». E
imbuca questo suo appello - a fare qualcosa, a trovarlo - con l’animo di
chi ormai si affida a un messaggio in bottiglia, la mattina dell’8
agosto 1945: sul frontespizio sette francobolli per un totale di 200
lire, la lettera indirizzata a «Spettabile Cgil Roma». Che ne è stato
del sottotenente medico Antonio? O del bersagliere Antonio Nicodemo,
della divisione Pasubio, «disperso dal dicembre 1942», come informa il
padre, «il compagno Nicodemo Pipita» da Cirò (Catanzaro). «Sono tre anni
che non ho notizie di mio marito Umberto Pizzichini»: così inizia la
missiva spedita da Macerata dalla moglie Pasqualina. Giuseppe Di
Vittorio, il grande leader della Cgil, i cui funerali nel 1957 saranno
un enorme evento di popolo, «una cosa mai vista» scriverà Pasolini,
nell’agosto 1945 parte per Mosca con questo fascio di dispacci
disperati. La guerra è finita. Ma di quasi centomila soldati dell’Armir,
l’armata italiana in Russia, prigionieri dall’inverno del 1942, non si
hanno più notizie: mariti, figli, fratelli inghiottiti nel ventre bianco
della lontana Russia. Dei 229mila che Mussolini ha mandato allo
sbaraglio almeno 95mila mancavano alla conta del generale Italo
Gariboldi dopo la ritirata. Il Pci si dibatte in imbarazzo. La sorte dei
reclusi domina il dibattito pubblico, e si trascinerà fino alla
decisiva contesa elettorale del 1948, fornendo una formidabile arma
politica agli avversari. Rintracciarli, riportarli in Italia, non è solo
un’esigenza morale. È anche una necessità politica per i comunisti. E
per Di Vittorio, membro della direzione del Pci, proletario come
proletari erano quei soldati, specialmente.
Dall’archivio storico della Cgil ora spuntano queste lettere, carte
ingiallite dal tempo che ci parlano. Soprattutto affiora una lista di
1800 internati che Di Vittorio scova durante il suo viaggio di un mese.
Tornerà in Italia con le firme di ciascun milite ritrovato, e l’appunto
“fatto” vergato a mano accanto a ogni nominativo, con cui indica che è
stata informata la famiglia. L’elenco dei 1800 è la somma di più
elenchi: alcuni forniti appositamente dai russi durante le visite ai
campi di prigionia; altri compilati da Di Vittorio; altri di provenienza
incerta. Ma rappresentano una prima lista di destini in quel buco nero
su cui Stalin mantiene volutamente l’ambiguità, e che fa dire sconsolato
al nostro ambasciatore a Mosca Pietro Quaroni, in una lettera per De
Gasperi nel maggio del 1945: «Il mistero che circonda i nostri
prigionieri non è certo maggiore del mistero che circonda qui qualsiasi
cosa. Con questa mentalità dura e spietata, aliena da ogni
sentimentalità ritenuta inutile, la nostra ansietà di avere notizie non è
capita». L’importanza di questa lista, nota la storica Maria Teresa
Giusti, autrice de I prigionieri italiani in Russia (Il Mulino, 2003,
2009), è data anche dal fatto che soltanto dopo il crollo del comunismo,
nel 1991, i russi fornirono elenchi ufficiali al ministero della
Difesa, sancendo ufficialmente che nei campi di prigionia erano morti
almeno 64mila italiani. I lager nei quali finirono i nostri erano almeno
428, e a Di Vittorio ne faranno vedere appena tre: il 58/4 e il 58/6 di
Tjomnikov e il campo 40, obekt 4-0, di Krasnogorsk. Tra i meno peggio, e
si capisce.
Esasperando i famigliari, il vice commissario degli affari esteri
sovietico, Solomon Losowski, comunica al capo del sindacato italiano che
il numero dei prigionieri ammonta 20.600, come rivela una lettera che
Di Vittorio invierà al sottosegretario agli Interni Spataro. E degli
altri, migliaia e migliaia, che ne è stato? Tra i 1800 molti
consegneranno lunghe lettere a Di Vittorio, destinate ai parenti, per
dire semplicemente «sono vivo». Le condizioni di prigionia furono
oscene, disumane, tra carenze di cibo, cannibalismo, eppure negli
scritti dei nostri soldati, nella costrizione della censura, diventano
«l’organizzazione perfetta, buon vitto, igiene massima» come scrive il
soldato Mario Gonnelli da Montepulciano (Siena); «il cuore generoso del
popolo sovietico, le sue cure premurose», racconta il geniere Fiorenzo
Lancelotti; «il trattamento è buono, riceviamo giornalmente 600 grammi
di pane, tre pasti al giorno con zuppa e cascia, e quando poi sul lavoro
superiamo la norma, veniamo ricompensati con supplementi di una zuppa e
da 100 a 300 grammi di pane», dice il sergente Andrea Lusardi. Penose
bugie. E viene da mettere a contrasto, queste lettere amarissime, con lo
scambio di vedute tra il rappresentante italiano al Comintern Vincenzo
Bianco e Palmiro Togliatti. Nel febbraio 1943 Bianco avverte
Togliatti che bisogna evitare che i nostri prigionieri «muoiano in
massa». La risposta del Migliore è quella di un leader corroso dal
cinismo: «Se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle
dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire». Di
Vittorio annuncerà il rimpatrio dei nostri il 26 agosto 1945. Missione
compiuta. Torneranno in appena 10.032, alcuni saranno trattenuti fino
agli anni Cinquanta, come il soldato Filippo Neri, che nel Natale del
1952 aveva scritto una cartolina ai genitori di Linguaglossa (Catania)
«vi saluto di cuore », e gli diranno, sulla banchina della stazione
Termini, il 16 gennaio 1954 - nove anni è durata la sua prigionia - che
mamma e papà sono invece morti da anni: lei nel 1949, lui nel 1951. C’è
chi come Fidia Gambetti, partito per la guerra camicia nera, rientrerà
di salda fede comunista. I più vorranno soltanto dimenticare. Di
Vittorio nel frattempo avrà scritto molti telegrammi, come questo a
Alberto Jacchia, via del Tritone 132, Roma: «Piacere comunicarvi che
ebreo deportato Germania Davide Limentani liberato Armata Rossa salvo
buona salute procinto rimpatrio stop. Invece sua madre due fratelli due
sorelle un cognato un nipote uccisi dai tedeschi mesi prima
liberazione ».
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