mercoledì 2 aprile 2014

Nell'abbraccio di Reichlin a Renzi - e nel paragone tra Renzi e Berlinguer - una fine della sinistra italiana


Alfredo ReichlinLa sinistra ha un futuro
di Alfredo Reichlin l’Unità 1.4.14


Quali che siano le vicende del governo è chiaro che si è chiusa una intera fase politica. Condivido alcuni interrogativi ma il fatto da cui non si può prescindere è, finalmente, la scesa in campo di una nuova generazione di donne e di uomini. Il cambiamento è grande. Insieme con gli interrogativi tornano così anche le speranze. Io penso che da qui bisogna partire.
E aggiungo subito che il senso di questo mie note è dire che il terreno dell’azione e della lotta politica si è spostato in avanti. Sono convinto ed è questa la cosa essenziale che lo spazio per le forze che vengono dalla tradizione della sinistra e che non rinunciano a concepire la politica come espressione di grandi ideali e lotta per cambiare il mondo, non si sono ristretti. Anzi, potenzialmente si sono allargati. Non si tratta di guardare indietro ma di capire il senso di questo sorprendente presente che sembra voler cancellare di colpo tutto il passato. La spiegazione è che la vicenda italiana è giunta a un punto di svolta. L’ordine economico-politico che ha dominato l’Europa non regge e la conseguenza non è solo la crescita dei sovversivismi alla Grillo. Si è determinato anche una profonda rottura generazionale. Il che significa che la politica non parla più alla gente se non si misura con quel che di nuovo e di profondo si muove al di là della superficie e che riguarda la esperienza umana. I problemi politici cominciano a essere anche antropologici. I giovani sentono che l’ordine attuale (il «pensiero unico» mercatista) li condanna a non avere un futuro. Basta guardare le cifre della disoccupazione giovanile nel mezzogiorno. È un genocidio. Dietro la «rottamazione» c’è questa frattura.
È tempo quindi di mettere in campo qualcosa di più di una politica che guarda solo nel breve periodo. Penso che bisogna cominciare a indicare anche un orizzonte, una prospettiva. Non parlo di correnti politiche tradizionali ma della necessità di un pensiero ideale e culturale che non rappresenti non freno ma un impulso allo sforzo in atto del Pd di «europeizzare l’Italia». Parlo di una visione, di una idea del futuro di questa lunga penisola protesa nel Mediterraneo e del suo ruolo in Europa. Una Europa che non si chiuda in se stessa ma che si apra al dialogo con i popoli nuovi. È evidente che occorre risolvere i molti problemi di cui qui non parlo: dal «fiscal compact» al ruolo del Senato. Ma è difficile farlo se non viene avanti una classe dirigente capace di coinvolgere la gioventù italiana dicendo ad essa la verità. È la verità è che l’Italia è di fronte a una sfida molto grande, a un vero e proprio appuntamento con la sua storia. Un «prima» e un «dopo», come fu quella straordinaria prova del dopoguerra che allora vincemmo con la Costituzione di una Repubblica democratica.
La sfida che qualche decennio dopo ci ha rivolto il processo di europeizzazione era, ed è, di questa natura. Siamo al centro di un grandioso passaggio storico, di un cambiamento che rompe tutti i vecchi equilibri della società italiana. Che cambia il nostro posto nel mondo. Si dirà che io la prendo troppo da lontano. Non lo penso. Penso invece che solo la consapevolezza della dimensione di questo problema è la condizione per aiutare le forze nuove a venire in campo e a combattere e a ritrovare una ragion d’essere e una prospettiva. A non regalarle a non si sa chi. Bisogna uscire dalle macerie delle vecchie ideologie e rimettere la lotta con i piedi per terra. Bisogna tornare a pensare il ruolo delle forze che io chiamo la sinistra come inseparabile dal destino dell’Italia. Il problema che ci sta di fronte è difficilissimo ma chiaro.
Sta maturando è una grande crisi sociale. La verità è che questo modello di sviluppo non può più funzionare. Si parla di rilanciare la domanda. Ma una domanda (e una crescita) basata su questo tipo di economia e basato su una gamma di consumi come quelli attuali finanziati in buona parte a debito non ha più margine. Così non rinascerà mai una nuova civiltà del lavoro. Il rilancio dell’economia richiede lo sviluppo di nuovi consumi e quindi di una grande riforma dello sviluppo sociale e umano. Spetta a noi definire un nuovo nesso tra crescita e valorizzazione del lavoro umano, nel nuovo bisogno di libertà e di difesa dell’ambiente. Se non si fa questo il punto di rottura è più vicino di quello che pensiamo.
Dunque una prospettiva. Portare a compimento la europeizzazione dell’Italia (Mezzogiorno compreso) come il grande obiettivo del Pd di una nuova sinistra. Ma non nascondiamolo: questo non è un problema soltanto economico. Comporta la ridefinizione della figura reale dello Stato-nazione, si tratta di porre su nuove basi lo stare insieme degli italiani. Ma questa cosa non si può fare dall’alto senza una mobilitazione di grandi masse, senza una riforma della morale e della cultura degli italiani, senza cominciare a chiamare le cose col loro vero nome. Cioè quali interessi e quali forze reali sono in gioco e quindi senza mobilitare altre forze e altri interessi.
Si torna a rimpiangere Enrico Berlinguer. Ma questo fu il grande tema di Berlinguer, ciò che lui chiamò il «compromesso storico». Non era solo e non era tanto uno schieramento politico ma l’assillo di dar vita a un movimento reale e unitario che consentisse una «seconda tappa della rivoluzione democratica». Essendo la prima (l’antifascismo e l’avvento della Repubblica) rimasta incompiuta. E avendo egli ben chiaro che senza di essa la grande svolta della modernizzazione che già allora era in atto anche a livello mondiale avrebbe avuto ben altri protagonisti. Ed è ciò che abbiamo visto: la fine del compromesso democratico e la «rivoluzione conservatrice».
Se guardo così alla sfida che abbiamo di fronte capisco sempre meglio perché era decisiva la costruzione di un partito «nuovo» (Scoppola). Non l’assemblaggio delle nomenclature di partiti del passato. Un partito della «nazione» (espressione per la quale sono stato molto sfottuto). Insomma, un organismo capace di dare alla nazione italiana quel fattore di integrazione sociale e culturale che è sempre stato debole ma che l’europeizzazione mette a rischio. Purtroppo non siamo riusciti a farlo. Ma forse troppi non hanno voluto farlo.

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