mercoledì 2 aprile 2014

Politeisti contemporanei


Ogni giorno qualcuno si sveglia e ne spara una grossa [SGA].

Maurizio Bettini: Elogio del politeismo. Perchè dobbiamo imparare dalle religioni antiche, il Mulino

Risvolto
Duemila anni di monoteismo ci hanno abituato a ritenere che Dio non possa essere se non unico, esclusivo, vero. Al contrario, il politeismo antico prevedeva la possibilità di far corrispondere fra loro dèi e dèe appartenenti a culture diverse (la greca Artemis alla romana Diana, l'egizia Isis alla greca Athena), ovvero di accogliere nel proprio pantheon divinità straniere. Questa disposizione all'apertura ha fatto sì che il mondo antico non abbia conosciuto quella violenza a carattere religioso che invece ha insanguinato, e spesso ancora insanguina, le culture monoteiste. È possibile attingere oggi alle risorse del politeismo per rendere più agevoli e sereni i rapporti fra le varie religioni? 


Perché dobbiamo imparare dagli deiIl politeismo di greci e romani tollerava le religioni degli altri Così Marte e le divinità dell’Olimpo possono ancora darci lezioni
di Maurizio Bettini Repubblica 2.4.14


Affermare che la religione dei Greci e dei Romani è superata corrisponde né più né meno a dichiarare che la poesia di Omero o quella di Virgilio sono superate. Affermazioni che potevano avere un senso al tempo della «querelle des anciens et des modernes», ma che difficilmente lo avrebbero oggi. In realtà, da molto si è compreso che i prodotti della cultura non si misurano sul parametro del tempo o dell’evoluzione, e questo vale anche per la religione. Sappiamo bene quanto colonialismo, quanto eurocentrismo si nascondeva dietro il paravento di certe gerarchie evolutive.
La religione greca e romana è semplicemente un’altra religione, o meglio una religione, tanto quanto lo sono lo shintoismo o l’islam. Eppure nella percezione comune essa non è affatto considerata tale. [...] Gli dei che furono venerati e onorati da due civiltà, e che sono stati al centro di organizzazioni sociali, culturali e intellettuali molto complesse, si sono infatti ridotti a personaggi di una generica «mitologia», semplici attori di racconti fantastici. Gli esiti di questa metamorfosi, realizzatasi molti secoli fa, sono peraltro ancora ben visibili nella cultura comune (per fare un esempio, alle voci «Minerva» e «Iuno» Wikipedia recita: «divinità della mitologia romana»). Eppure già Leopardi aveva rilevato quanto vano fosse il ricorso a questa «mitologia » classica, «giacché non abbiamo noi colla letteratura ereditato eziandio la religione greca e latina ». Non diversamente, anche le antiche statue di culto si sono trasformate in generiche opere d’arte, quelle Afrodite o quei Dioniso di cui contempliamo la bellezza e talvolta ammiriamo gli autori, senza pensare però che tali immagini erano chiamate a rappresentare divinità, non personaggi del “mito”. Tutto il resto, ossia quel complesso sistema di relazioni che nel mondo greco e romano legava fra loro uomini e dei, ha assunto il ruolo di oggetto di studio - ma per la verità si è conquistato questo status faticosamente, e in modo del tutto autonomo solo a partire dal XIX secolo. In conclusione potremmo dire con Heinrich Heine che gli dèi antichi sono stati «esiliati»: ma non «nell’oscurità di templi in rovina o nell’incanto dei boschi», come quelli evocati dal poeta tedesco, ma dentro le Università e negli Istituti di ricerca. [...] Ecco dunque, in breve sintesi, le ragioni per cui l’antico politeismo non è più una fonte di ispirazione viva per la cultura moderna e contemporanea, come invece continuano a esserlo la filosofia o il teatro dei Greci e dei Romani. Con ciò non intendiamo affermare che siano mancati poeti, filosofi o scrittori moderni i quali, in qualche momento della loro vita, hanno propugnato i valori del politeismo. [...] In una lettera a Max Jacobi, Goethe dichiarava ad esempio che in quanto artista si sentiva “politeista” (così come in quanto scienziato naturale si sentiva “panteista” e in quanto persona morale “cristiano”). […] La “religione sensibile” cui dovrebbe dare alimento questo programmatico “politeismo dell’immaginazione e dell’arte” altro non è, in definitiva, se non la poesia. Ben diverso il caso di Friedrich Nietzsche, che nella sua polemica anticristiana si appellerà invece al politeismo come esercizio preliminare alla nascita dell’individualismo. «Un dio» scriveva «non era la negazione o la bestemmia di un altro dio! Qui per la prima volta furono permessi individui, qui per la prima volta si onorò il diritto degli individui. L’inventare dei, eroi, superuomini di ogni specie […] costituì l’inestimabile propedeutica alla giustificazione e dell’egoismo e della sovranità del singolo». Il politeismo come incunabolo della morale, ovviamente nel senso in cui Nietzsche la intendeva.
Nel corso del Novecento il politeismo avrà invece una notevole vitalità in qualità di rappresentazione (o meglio, ancora una volta, in qualità di metafora) a carattere psicologico. Scriveva Carl Gustav Jung: «Ciò che noi abbiamo superato sono però soltanto i fantasmi delle parole, non i fatti psichici che furono responsabili della nascita delle divinità. Siamo ancora così posseduti dai nostri contenuti psichici autonomi come se essi fossero divinità. Ora li chiamiamo fobie, coazioni, e così via, in una parola, sintomi nevrotici. Le divinità sono diventate malattie, e Zeus non governa più l’Olimpo, ma il plesso solare». Sarà proprio da queste affermazioni di Jung (ma non forse dalla loro ironia) che prenderà dichiaratamente ispirazione il programma psicologico di James Hillman, inteso a riconoscere gli dei come essi stessi patologizzati […].
Ricorrendo a esempi tratti perlopiù dalla religione romana, abbiamo dunque scelto di puntare su quegli aspetti del politeismo che, se trasferiti nelle nostre società, potrebbero contribuire a ridurre uno dei molti mali che continuano ad affliggerle: il conflitto religioso, e assieme ad esso quel variegato spettro di ostilità, riprovazione, indifferenza che tuttora avvolge agli occhi degli “uni” le divinità onorate dagli “altri”. [...] Marte ad esempio, che tutti conosciamo come dio della guerra, può essere invocato anche per garantire la felice riuscita delle messi o la buona salute del bestiame. A prima vista queste diverse attribuzioni sconcertano - perché mischiare guerra, fertilità dei campi e salute dei buoi? Il fatto è che questi momenti sono accomunati da uno stesso tratto: il pericolo. Pericoli della guerra, quando si va in battaglia, pericoli delle calamità atmosferiche, quando le messi stanno crescendo, pericoli della selva, quando il bestiame va in pastura. Ecco che in tutti questi casi è chiamato a intervenire lo stesso dio, il bellicoso Marte. Tornare a tessere questa antica rete, segmentando e ricomponendo la realtà secondo le linee indicate dalle religioni classiche, offre uno stimolo prezioso per chiunque abbia voglia di pensare il mondo in modo diverso da come normalmente ci viene presentato.


Alle radici dell’intolleranza
L’analisi del filologo Bettini che la individua nei credi monoteisti «Elogio del politeismo» il nuovo saggio dello studioso parte dall’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni antiche esempio di tolleranzadi Luigi Spina l’Unità 8.6.14

PER PARLARE ADEGUATAMENTE DELL’ «ELOGIO DEL POLITEISMO » DI MAURIZIO BETTINI, È DOVEROSO TRACCIARE PRIMA UN BREVE ELOGIO DELLA COMPARAZIONE ANTROPOLOGICA, che è il metodo che più volte l'autore richiama come guida della sua analisi. A differenza dell’analogia, che schiaccia il nuovo sul già conosciuto (non si contano gli Hitler, i Mussolini e gli Stalin che si sono susseguiti nella politica italiana), la comparazione distingue le due realtà, quella che si conosce e quella che si vuol comparare, per coglierne soprattutto le differenze e le singolarità.
Ecco, completato il mini-elogio della comparazione, si può cominciare a dire che il saggio di Bettini affronta un tema non usuale: l’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni politeiste antiche. Farne materia di ricerca sì, ma pensare che si possano importare, per quanto criticamente, idee e comportamenti da qualcosa che non rientri nella dialettica fra le tre religioni monoteiste e la non religiosità non è pensiero ricorrente. Proprio nell’Introduzione, Bettini propone un argomento convincente: di Platone, di Aristotele, di Agostino, della democrazia antica non si può fare a meno di parlare, qualsiasi argomento attuale si voglia affrontare; difficile invece che si parli della religione antica, politeista. Il volume è organizzato in 15 capitoli e due appendici. I titoli dei capitoli offrono i terreni della comparazione: dal presepio e dalle moschee alle statuette romane e al larario; dalla proclamata unicità del Dio alla possibilità di riadattare gli dèi; dai possibili contatti sotterranei fra monoteismi e politeismi alle strutture sociali e comunitarie nelle quali la/le divinità si insediano; dalla pregnanza delle parole, infine, ai paradossi della/e scrittura/ e. Le appendici approfondiscono due temi: la tolleranza e l’intolleranza; gli usi e i significati del termine paganus.
Fra gli elementi positivi, in base ai quali il politeismo antico potrebbe far riflettere meglio sulle rigidità del monoteismo c’è sicuramente la curiosità, anche di massa, che costituiva la molla per conoscere davvero il funzionamento di religiosità diverse dalla propria. L’ostacolo dell’unicità condiziona quello stesso dialogo interreligioso che rimane, comunque, un tentativo auspicabile per mantenere aperto un canale comunicativo e di reciproca conoscenza. Quando Papa Benedetto XVI richiamò, nel 2006, la controversia del 1391 fra Manuele II Paleologo e un maestro persiano, un mudarris di fede musulmana, non fu difficile constatare che non si trattava di un vero dialogo, ma di una specie di doppio monologo, come scriveva proprio Théodore Koury, il filologo a cui lo stesso Ratzinger si riferiva. D’altra parte, la scoraggiante presa d’atto non riguardava solo la controversia antica ma anche le modalità con cui furono lette le parole del Papa.
Il rapporto con la (o le) divinità altrui è la cartina di tornasole che Bettini sperimenta per comparare la cultura romana e le culture odierne, in uno scavo che è contemporaneamente antropologico e linguistico. Non si può prescindere dal modo in cui gli antichi hanno denominato un fenomeno, una pratica, un oggetto, e dal modo in cui, spesso, sono i moderni a rinominare quello stesso dato, cercando di retrodatarne la sostanza e mascherando, in tal modo, i differenti quadri mentali. La raffigurazione del politeismo da parte dei moderni avviene attraverso termini che non corrispondono quasi mai alla denominazione da parte delle culture antiche, l’unica che consentirebbe di capire effettivamente cosa gli antichi stessi intendessero. Questa indagine, che Bettini conduce con grande chiarezza si concentra su termini per noi familiari quali politeismo, e il corrispettivo monoteismo, pagano, idolatria ecc., ma la cui storia, il cui uso, presenta molti aspetti più complessi e spesso inattesi. La traducibilità degli dèi, cioè la possibilità di accogliere divinità di altre culture nella propria, rinominandole, riconoscendo loro nuove funzioni, rappresenta il vero punto originale del politeismo antico. In quel mercato comune della divinità non era un problema inserire nel contatto fra i popoli e le culture i rapporti fra le divinità, in una tendenza all’inclusione e all’allargamento, piuttosto che all’esclusione e alla reductio; la traducibilità tra divinità, inoltre, non consente di identificare superficialmente quelli che potrebbero sembrare suoi inaspettati residui nelle religioni monoteiste, come per esempio, in quella cattolica, il culto dei santi. Le funzioni che si attribuiscono alla Madonna e a molti santi, di patronato, di assistenza, di protezione mancano del requisito della traducibilità, della trasferibilità, per cui mantengono quella che Bettini definisce una pluralità esclusiva.
Un’attenzione particolare Bettini dedica alla tolleranza, che è termine moderno altrettanto abusato che contestato, in quanto conserva insieme un valore tendenzialmente positivo e un rischio negativo di tipo etimologico. Non a caso la tolleranza è contrapposta alla interpretatio degli dèi, quel carattere di traducibilità che percorre tutto il libro. L’interpretatio è quella traducibilità potenziale che viene stabilita attraverso la mediazione, il compromesso che presiede a qualsiasi negoziazione perché abbia un buon esito. Si capisce, dunque, come la tolleranza, spesso sentita come punto di avvio di un dialogo fra diversi, marchi nello stesso tempo la gerarchia fra i diversi stessi: il rispetto che si sottintende nel termine cela, infatti, la sofferenza della accettazione risolta solo da un’etica caritatevole che sa anche tollerare gli errori. Se non si pensasse di possedere l’unica verità, forse, non scatterebbe la vocazione alla tolleranza.
Connesso al tema della tolleranza è quello della violenza, dello scontro di carattere religioso. Che le divinità dei Greci e dei Romani fossero coinvolte nelle guerre umane, che fossero immaginate addirittura in guerra fra loro, ciò non toglie che questo scontro non avesse per nulla carattere religioso, ma che la religione rappresentasse, anzi, un motivo per attenuare lo scontro stesso. Tanto più che le divinità facevano parte sostanziale delle comunità, in particolare attraverso quei riti di attribuzione della cittadinanza che Bettini ben spiega. Nel capitolo che non a caso si intitola «Il sacrificio del presepio e le bombe della moschea», Bettini affronta un tema divenuto di forte attualità da qualche anno in occasione delle feste natalizie, da quando, cioè, la presenza del presepio o del Crocifisso, simboli del cristianesimo, nei luoghi pubblici dello Stato (scuole, tribunali), è diventato argomento di polemica; allo stesso modo, Bettini segnala le polemiche contro la costruzione di una moschea in Val d’Elsa. Questo tema riassume i termini della comparazione possibile fra politeismi e monoteismi nella vita non solo religiosa di una comunità. Entrambe le reazioni, la rinunzia al presepio proposta da alcuni insegnanti e genitori di scuole italiane come gesto di rispetto verso altri culti e, dall’altra parte, la protesta di segno opposto, mostrano come al fondo delle due opzioni vi sia un unico vincolo: l’unicità del dio nel quale si crede, al punto che la scelta si può dividere fra: se non quello, meglio nessuno. Eppure, il presepio mi pare possa rappresentare ancora uno spazio nel quale simboleggiare le dinamiche interne a comunità che hanno nella diversità religiosa fra monoteismi un punto vulnerabile. La grotta del presepio mi sembra abbia perso la sua posizione centrale, per la spinta a dare voce e spazi a presenze le più varie, fino all’irruzione, grazie ai ben noti artigiani napoletani, di personaggi dell’attualità. Una sorta di cittadinanza riconosciuta a elementi estranei alla tradizionale ambientazione del presepio potrebbe essere la chiave di volta per aprirlo a una vera tensione politeista, sperimentando un quadro mentale che adottasse gli schemi della traducibilità, della mediazione negoziata: un inizio in cui una nuova cittadinanza risulti visibile e leggibile, per dèi, uomini e donne, ciascuno con le proprie credenze e divinità e, anche aggiungerei, in assenza di esse.



"Elogio del politeismo" di Maurizio Bettini

Maurizio Bettini, ordinario di Antropologia del mondo antico a Siena, affronta in questo breve saggio il tema del politeismo come scuola di tolleranza. Grazie all’“interpretatio”, infatti, era possibile far corrispondere tra loro dèi e dèe appartenenti a culture diverse: la greca Artemis, per esempio, era omologa alla romana Diana e l’egizia Isis alla greca Athena. E se questa “traduzione” non era possibile, c’era sempre la possibilità di accogliere nel proprio pantheon le divinità straniere. Lo facevano gli eserciti romani, che nell’attaccare le città nemiche chiamavano le loro divinità a cambiare campo con l’“evocatio”. Pratica che, secondo Bettini, aveva lo scopo non tanto di accrescere la potenza dei legionari affiancando alle armi terrene anche quelle divine come spesso è ripetuto, quanto piuttosto quella di evitare che quegli dèi potessero subire insulti analoghi a quelli dei loro fedeli in caso di saccheggio e sconfitta.  Insomma, “se si parte dal principio che gli dèi sono molti viene meno il motivo per affermare che quelli degli altri sono falsi dèi o demoni”. L’autore non ignora che Roma pagana ebbe vari momenti repressivi, prima che nei confronti del cristianesimo, per esempio verso i culti dionisiaci. Nell’appendice, dedicata a tolleranza e intolleranza religiosa nel mondo antico, osserva però che a Roma non ci fu mai un elenco ufficiale delle religioni consentite e che “i casi di repressione religiosa hanno motivazioni prima di tutto politiche, non religiose in senso moderno”. Nell’epoca in cui la globalizzazione e l’immigrazione multietnica stanno moltiplicando all’infinito le occasioni per scontri di civiltà e di religione, Bettini è convinto che “l’adozione di alcuni quadri mentali propri del politeismo ridurrebbe senz’altro il tasso di conflittualità fra le diverse religioni monoteistiche e le loro interne suddivisioni”. D’altra parte, l’ostacolo principale all’assunzione di quadri mentali politeistici da parte dei monoteismi è costituito dal fatto che si tratta di “religioni del libro”, fedi che si basano su un testo il cui autore è Dio. Si può obiettare che la componente politica non è affatto estranea a quelli che Bettini cataloga come scontri religiosi, difficilmente rintracciabili allo “stato puro”, ieri come oggi. E anche le nuove tecnologie, con  il “crepuscolo della scrittura”, spingono le nuove spiritualità verso evoluzioni rapide, con esiti “politeistici”. Il giapponese Ken Sakamura, per esempio, teorizza la “ubiquitous network society” che identifica la realtà virtuale con i kami della tradizione scintoista.

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