mercoledì 7 maggio 2014
La pikettymania sta per arrivare anche in Italia
La contestazione della finanza cela il sogno di un capitalismo dal volto umano, con tanti proprietari e una piccola borghesia diffusa; è il controcanto proudhoniano ai nostalgici del fordismo e della socialdemocrazia [SGA].
Con
il suo libro sul “Capitale nel XXI secolo”, l’economista francese è
diventato un fenomeno planetario perché rivela i segreti della
disuguaglianza
di Stefano Feltri il Fatto 7.5.14
Nel 2012, il premio Nobel
per l’Economia Joseph Stiglitz ha pubblicato il voluminoso saggio Il
prezzo della disuguaglianza - Come la società divisa di oggi minaccia il
nostro futuro (Einaudi). Non se n’è accorto nessuno. Due anni dopo, un
libro sullo stesso tema firmato da un economista praticamente
sconosciuto, con il difetto di essere francese (tutta la ricerca di
frontiera è anglosassone), è stato accolto come il contributo più
importante degli ultimi decenni: Il capitale nel Ventunesimo secolo di
Thomas Piketty continua a essere il primo nelle classifiche di Amazon,
da quando è uscita la traduzione inglese (l’originale francese era
passato quasi inosservato) non si parla d’altro, il Financial Times ne
discute quasi tutti i giorni, nell’ultimo numero l’Economist gli dedica
un articolo dal titolo solo in parte ironico Bigger than Marx, più
grande di Marx. Il barbuto studioso di Treviri, di sicuro, non si è
arricchito con il suo Capitale, Piketty che si presenta come un erede
più abile a maneggiare i dati e dalle convinzioni più solide, invece, è
ormai una superstar del dibattito economico. È quasi con pudore che
qualche giornale ha osato ricordare che di lui in passato si era parlato
più per i maltrattamenti inflitti alla ex compagna, l’attuale ministro
della Cultura francese Aurelie Filippetti, che per i risultati
accademici.
PIKETTY È INTERESSANTE per due ragioni: le sue idee e la
sua improvvisa popolarità che rivela come la sua analisi abbia risposto
a una domanda di senso inespressa, ma percepibile in un momento in cui
non ci sono più ideologie e neppure molte idee. Nel suo libro Piketty
parte da Karl Marx e dalla sua tesi che il capitale si accumula
all’infinito, ma con rendimenti decrescenti, cosa che porta a conflitti
tra capitalisti sempre in cerca di nuove opportunità. Se i rendimenti
del capitale però sono comunque maggiori della crescita dell’economia
reale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza
aumenterà: il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5
del 2010 a 6,5 nel 2100. Il Nobel Robert Solow, su New Republic,
sintetizza così il ragionamento: “Piketty suggerisce che la crescita
globale dell’output rallenterà nel prossimo secolo dal 3 all’1,5 per
anno. Fissa il tasso di risparmi/investimenti al 10 per cento. Quindi si
aspetta che il rapporto tra capitale e reddito crescerà fin quasi a 7”.
Per tradurre i numeri: le nostre economie occidentali non si stanno
evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, le spinte verso la
socialdemocrazia e la redistribuzione del Novecento sono state
un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un
capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e Balzac
in cui non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai
eguagliare un buon matrimonio. Perché la ricchezza non si accumula, si
eredita. E questo non succede (soltanto) perché l’economia occidentale è
trainata da tanti avidi Gordon Gekko che, come nel film di Oliver
Stone, accumulano profitti a spese della classe media. No, è la dinamica
interna dell’economia: se il capitale (Piketty usa capital come
sinonimo di wealth, cioè patrimonio, ricchezza) cresce sempre più in
fretta dell’economia reale, visto che i ricchi hanno molta più ricchezza
della classe media le cui sorti dipendono dai redditi, i ricchi
diventeranno sempre più ricchi.
GLI ATTUALI SUPER STIPENDI dei top
manager americani sono l’equivalente dei latifondi ricevuti in dono dai
sovrani nelle economie fondali, cioè la premessa per una futura e
crescente disuguaglianza tra chi ha e chi non ha (e non potrà mai
avere). Simon Kuznets ci aveva convinto che la disuguaglianza tende a
ridursi nelle fasi di sviluppo, a prescindere dalla politica economica: è
la marea che spinge in alto tutte le navi, gli yacht come le scialuppe.
Al 10 per cento più ricco degli Stati Uniti nel 1913 faceva capo il
40-45 per cento del reddito prodotto in un anno, nel 1948 la quota era
scesa al 30-35 per cento e da qui è nata la “curva di Kuznets”. Ma
Piketty sostiene, forte di analisi quantitative e storiche, che non è
stato il progresso a ridurre la disuguaglianza, ma la Seconda guerra
mondiale. Soltanto eventi traumatici come una guerra possono bilanciare
l’effetto di una tensione profonda dell’economia. Tutto il resto sono
palliativi, inclusa la proposta contenuta nel libro di una patrimoniale
globale sulle grandi ricchezze: 1 per cento sui patrimoni tra uno e
cinque milioni di euro, 2 per cento sopra i cinque milioni. Ogni anno e
con un coordinamento tra tutti i Paesi del mondo per evitare che i
ricchi si rifugino nei paradisi fiscali. Nessuno ha preso sul serio
questa ricetta di Piketty: non realizzabile e soprattutto inutile,
servirebbe soltanto a rallentare la concentrazione delle grandi
ricchezze, ma il meccanismo descritto dall’economista francese sembra
invincibile. Tanto che i critici più liberisti, come Carlo Stagnaro sul
Foglio, hanno concluso che nel mondo di Piketty i capitalisti non devono
poi sentirsi troppo in colpa . Non dipende da loro se diventano sempre
più ricchi, it's the economy, stupid.
Piketty è un economista
atipico, che attinge a letteratura, filosofia e storia del pensiero
economico, ma non dimentica equazioni e serie storiche che sono la
premessa (necessaria ma non sufficiente) per sostenere una tesi e non
limitarsi a esprimere un’opinione. Risale molto indietro nel tempo,
usando i dati sull’imposizione fiscale invece che soltanto quelli sui
redditi, così da riuscire, con qualche semplificazione, a confrontare la
ricchezza in epoche molto distanti tra loro. Paul Krugman, premio Nobel
e coscienza collettiva dei liberal del mondo e soprattutto di quelli
che leggono il New York Times, si è entusiasmato: ecco una valida
spiegazione teorica del perché negli ultimi decenni la disuguaglianza è
aumentata tanto. Finito l’effetto livellatore della guerra, il capitale
ha corso più dell’economia.
SUL FINANCIAL TIMES Martin Wolf ha
notato che Piketty ci ha spiegato tutto tranne perché la disuguaglianza è
così disdicevole. Il filosofo John Rawls sosteneva che un certo tasso
di disuguaglianza fosse accettabile se ne traevano beneficio anche gli
ultimi della scala sociale. C’è una consistente letteratura sul perché
società troppo polarizzate funzionano male: due epidemiologi, Richarld
Wilkinson e Kate Pinkett, qualche anno fa hanno dimostrato il legame tra
disuguaglianza e varie cose sgradevoli (aborti, obesità, droghe, hanno
escluso i suicidi perché la depressione nelle egualitarie società
scandinave avrebbe indebolito le conclusioni). Piketty ha cambiato la
scienza economica, sostiene Krugman. Di sicuro è arrivato al momento
giusto: dopo sette anni di crisi, in tutto il mondo gli economisti
tirano un sospiro di sollievo. Finalmente c’è una nuova narrazione che
spiega cosa sta succedendo. E assolve tutti. I ricchi che si
arricchiscono, i politici che non fanno abbastanza politiche
re-distributive , gli imprenditori che non investono nell’economia
reale, le banche che non prestano. Piketty ha aperto un dibattito.
Adesso ci vuole qualcuno (di sinistra) che scopra come distruggere la
Pikettynomics e il suo cuore che Robert Solow identifica nel “meccanismo
del ricco che diventa più ricco”.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento