giovedì 15 maggio 2014

L'anniversario della Prima guerra mondiale: nuove edizioni e vecchie analisi

Copertina Il lutto e la memoriaJay Winter: Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Il Mulino
 
Risvolto
La prima guerra mondiale fu teatro di una carneficina inaudita: i sopravvissuti dovettero fare i conti con quanto era successo e trovare linguaggi adatti ad esprimere sentimenti di perdita e demoralizzazione. Alla elaborazione di questo lutto, pubblico e privato, e alle varie forme che venne assumendo è dedicato il libro. Si parla della commemorazione dei morti, con l’istituzione dei cimiteri militari, i riti funebri collettivi, e dei modi in cui le famiglie e le comunità cercarono di superare la perdita dei loro componenti, per esempio attraverso la pratica dello spiritismo o affidandosi a credenze e superstizioni. Ma l’immaginario doloroso della Grande Guerra è presente anche nel cinema, nell’arte e nella letteratura del primo dopoguerra.
 
Jay Winter insegna Storia nell’Università di Yale. Tra i suoi libri segnaliamo: «Remembering Wars» (2006), «Dreams of Peace and Freedom» (2006), «René Cassin et les droits de l’homme» (con A. Prost, 2011).
 
Il conflitto si sconta vivendo1914-1918. La ristampa dell'importante volume di Jay Winter «Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea», per Il Mulino
Claudio Vercelli, il Manifesto 15.5.2014

In un for­tu­nato film del 1919, J’accuse di Abel Gance, i morti, uccisi negli infi­niti com­bat­ti­menti della Prima guerra mon­diale, si levano dalle tombe e, vagando di strada in strada, di viot­tolo in viot­tolo, rag­giun­gono i loro luo­ghi di ori­gine, per inter­ro­gare quanti gli erano soprav­vis­suti sull’utilità del pro­prio «sacrificio».

La guerra dopo la guerra è il tempo pro­prio alla memo­ria e alla sto­ria. L’una e l’altra in con­ti­nua ten­sione, spesso in con­tra­sto tra di loro. Poi­ché non suben­tra la pace degli spi­riti ma la divi­sione sui cri­teri per dare un senso all’esperienza tra­scorsa così come il pro­blema, desti­nato a ripro­porsi costan­te­mente, del valore morale da attri­buire all’evento bel­lico. Con esso, dell’elaborazione del lutto.
Una bru­tale emancipazione

È con le guerre napo­leo­ni­che, e la leva di massa, che la guerra supera la sua natura di evento cata­cli­sma­tico, ai limiti del fatto «natu­rale» e quindi impon­de­ra­bile, per dive­nire invece parte di un più com­plesso per­corso nella costru­zione dell’identità col­let­tiva, nazio­nale e repub­bli­cana. Le pre­messe stanno nella seria­liz­za­zione delle pra­ti­che bel­li­che, nel coin­vol­gi­mento diretto dei civili, nelle gigan­te­sche bat­ta­glie, nell’industrializzazione delle vio­lenze e nel grande numero di chia­mati alle armi.

Ma non sono solo que­sti gli ele­menti che entrano in gioco, poi­ché il con­flitto armato nove­cen­te­sco, ed il suo pro­to­tipo per eccel­lenza, la Prima guerra mon­diale, nella dimen­sione logo­rante della trin­cea costrui­sce una sorta di alter ego della catena di mon­tag­gio. L’una e l’altra costi­tui­vano dei fat­tori di eman­ci­pa­zione vio­lenta delle società rurali dai loro fon­da­menti, pro­iet­tan­dole verso sce­nari indu­striali che costi­tui­vano una linea di non ritorno.

Le comu­nità anda­vano rior­ga­niz­zan­dosi intorno a que­sta nuova espe­rienza esi­sten­ziale, di cui i com­bat­ti­menti erano la punta di un ice­berg in una più com­plessa trama, dove la com­pe­ne­tra­zione tra indi­vi­dui e tec­nica isti­tuiva uno sce­na­rio ine­dito. A capirlo, non­ché a mani­po­larne gli esiti, furono da subito gli espo­nenti di quella che sarebbe stata ben pre­sto cono­sciuta come «rivo­lu­zione con­ser­va­trice». In un gioco che spo­stava a destra gli assi delle com­pren­sione e dell’elaborazione del trauma bel­lico, esal­tan­done il valore di catarsi, ossia di rige­ne­ra­zione anti­bor­ghese dello spi­rito euro­peo, gli autori del pro­to­fa­sci­smo furono tra i primi a cogliere il valore della mobi­li­ta­zione col­let­tiva e gli effetti, a guerra ulti­mata, di rica­duta sulle coscienze.

Più in gene­rale, a guerra con­clu­sasi, le società euro­pee si tro­va­rono sospese tra l’apocalitticismo e il sen­ti­men­ta­li­smo: se il primo ali­men­tava la per­ce­zione che nulla sarebbe stato più come prima, ovvero che tutto era mutato e che le cer­tezze tra­scorse erano state disin­te­grate, il secondo enfa­tiz­zava il biso­gno di tro­vare un comune deno­mi­na­tore tra quei tanti indi­vi­dui che ave­vano vis­suto il con­flitto come un fatto desti­nato a tra­mu­tare il pro­prio sé, la con­sa­pe­vo­lezza della pro­pria iden­tità, la costru­zione di rela­zioni interpersonali.

La dia­let­tica tra cata­strofe e con­so­la­zione divenne quindi un tema domi­nante nel modo di rece­pire gli esiti del lun­ghis­simo con­fronto armato. Di fatto, accom­pa­gnò le società euro­pee per almeno vent’anni, fino agli esordi dell’altro grande scon­tro, la guerra del 1939–1945. Come tutto que­sto abbia inciso sui qua­dri cul­tu­rali, sulle men­ta­lità e sui modi di pen­sare il rap­porto con il pas­sato attra­verso l’elaborazione delle idee di trauma e di per­dita, costi­tui­sce il ful­cro del volume di Jay Win­ter, Il lutto e la memo­ria. La Grande Guerra nella sto­ria cul­tu­rale euro­pea (il Mulino, Bolo­gna 2014, pp. 342, euro 14). Si tratta della ristampa, a vent’anni dalla sua prima uscita, di un’opera impor­tante, fir­mata da uno stu­dioso di vaglia, che ha inse­gnato a lungo sto­ria a Yale.

Il suo titolo ori­gi­nale, «luo­ghi della memo­ria, luo­ghi della per­dita» è forse più pun­tuale nel defi­nire l’oggetto del testo. Il quale cerca di rico­struire il com­plesso impatto sulle società euro­pee delle vicende con­nesse alle car­ne­fi­cine bel­li­che attra­verso il for­marsi di un lin­guag­gio con­di­viso, il costi­tuirsi di una mito­lo­gia e il deter­mi­narsi di reto­ri­che col­let­tive che die­dero poi corpo al discorso sulla «vit­to­ria per­duta». Discorso tra­sver­sale, che avrebbe accom­pa­gnato i vin­ci­tori così come i vinti, in una sorta di dina­mica della rivalsa desti­nata ad inghiot­tire, di lì a non molto tempo, ancora una volta l’Europa intera.
I troppi fantasmi

Un pro­blema di fondo, per l’autore, è come la morte venga incor­po­rata nell’esistenza dei soprav­vis­suti. La Grande guerra inte­ressò non solo i com­bat­tenti, con i suoi nove milioni di morti, ma anche le decine di milioni di parenti e con­giunti che com­po­ne­vano le fami­glie di quanti ven­nero chia­mati alle armi e che spesso non tor­na­rono più alle loro case. Non di meno, l’Europa cen­trale, ad occi­dente come ad oriente, fu l’insieme di una serie di bru­tali, dis­san­guanti con­fronti, desti­nati a durare per lun­ghis­simo tempo, in uno stil­li­ci­dio di morti e distru­zioni che fino ad allora mente umana ancora non riu­sciva a ricor­dare. I pro­to­tipi ideo­lo­gici ma anche fat­tuali ripo­sa­vano non nei con­flitti con­ti­nen­tali del secolo pre­ce­dente ma nella guerra civile ame­ri­cana, dove si erano rag­giunti livelli di effe­ra­tezza senza pari, insieme ai mas­sa­cri della guerra di Crimea.

L’unico ante­ce­dente euro­peo signi­fi­ca­tivo, sul piano della bar­ba­rie, era stata la san­gui­nosa repres­sione della Comune pari­gina nel 1871. Con la fine della guerra, al pro­blema del ritorno dei soprav­vis­suti si aggiun­geva ora quello del rim­pa­trio dei morti, così come la ricom­po­si­zione di ciò che era stato smem­brato, fos­sero gli arti dei muti­lati piut­to­sto che la rete di rap­porti tra comu­nità dila­ce­rate dalla vio­lenza. Si trat­tava nel mede­simo tempo di que­stioni di ordine mate­riale, quindi con­crete, e di natura sim­bo­lica e allegorica.

La loro urgenza e inde­ro­ga­bi­lità stava nel fatto che rin­vias­sero tutte al pro­blema della rile­git­ti­ma­zione del potere poli­tico nella deli­cata e lunga fase della smo­bi­li­ta­zione e della ricon­ver­sione eco­no­mica e sociale verso una con­di­zione di pace. Ma più in gene­rale, per il fatto stesso che la Grande guerra avesse costi­tuito l’habitat di un nuovo modo di inten­dere la vio­lenza orga­niz­zata, la sua rica­duta sul comune sen­tire non poteva lasciare indif­fe­renti le élite di potere.

Il pro­blema di affron­tare gli innu­me­re­voli lutti indi­vi­duali assor­ben­doli e subli­man­doli in una dimen­sione corale, risar­ci­to­ria, capace di dare spes­sore ad una sorta di rap­pre­sen­ta­zione col­let­tiva con­di­visa, ossia in grado di rin­sal­dare il nazio­na­li­smo, fu quindi un banco di prova fon­da­men­tale per i gruppi diri­genti del dopoguerra.

La morte in bat­ta­glia, così come la disper­sione dei cada­veri e le muti­la­zioni, furono ben pre­sto mate­ria di deci­sioni poli­ti­che impe­gna­tive. Tanto più dinanzi al con­so­li­darsi degli effetti della Rivo­lu­zione d’Ottobre. Al paci­fi­smo che, peri­co­lo­sa­mente, si avvi­ci­nava al richiamo alla tra­sfor­ma­zione della guerra mili­tare in guerra sociale, come era avve­nuto dal 1917 in poi in Rus­sia, si con­trap­po­neva ora un discorso pub­blico che recu­pe­rava la morte come esito eroico e virile di scelte di campo consapevoli.

La gestione del redu­ci­smo non poteva peral­tro limi­tarsi alle lun­ghe pra­ti­che di smo­bi­li­ta­zione. Per le società libe­rali si poneva il pro­blema di ripor­tare alla vita civile quanti erano stati edu­cati al ricorso siste­ma­tico alla vio­lenza, così come l’affrontare il destino di quanti dal fronte non ave­vano fatto ritorno. Il tema delle poli­ti­che della memo­ria assume così un valore che fino ad allora non aveva ancora cono­sciuto. Da un lato avviene una vera e pro­pria tra­sfi­gu­ra­zione della sof­fe­renza, attra­verso il feno­meno dell’«apoteosi del caduto».
Tra­sfi­gu­ra­zioni mitiche

La morte vio­lenta diventa indice di un sacri­fi­cio voluto e quindi cer­cato, arri­vando ad attri­buire al defunto qua­lità cri­sto­lo­gi­che. Un esem­pio, a tale riguardo, lo si ha nel cimitero-sacrario di Redi­pu­glia, dove il mar­ti­rio è inteso come la cifra sulla base della quale inter­pre­tare tutta la tra­iet­to­ria bel­lica del Paese. All’interno di que­sto qua­dro di sim­bo­li­smi, desti­nati ad essere recu­pe­rati a piene mani dal fasci­smo, si inse­ri­scono tre ele­menti fon­da­men­tali della nar­ra­zione bel­lica: la dif­fu­sione dei monu­menti al milite ignoto, la costi­tu­zione di cimi­teri di guerra, l’edificazione in molte muni­ci­pa­lità di pic­coli mau­so­lei in onore dei con­ter­ra­nei defunti.

Si tratta di tre stru­menti della comu­ni­ca­zione pub­blica dove all’abbruttimento con­di­viso in trin­cea si coniu­gava la soli­da­rietà sociale, costruendo un vin­colo di reci­pro­cità tra l’una e l’altra. Per i nazio­na­li­smi post­bel­lici si trat­tava di met­tere a frutto, anche dinanzi al cre­scere dei fer­menti sociali e alle riven­di­ca­zioni sul «divi­dendo della pace», un nuovo approc­cio alla coe­sione sociale, non potendo più pre­scin­dere da quelle forme di mobi­li­ta­zione col­let­tiva che ora si tra­sfor­ma­vano in richie­ste di par­te­ci­pa­zione alle deci­sioni nella sfera pub­blica. Ma il libro di Win­ter non si ferma a que­sto livello della rifles­sione, cer­cando piut­to­sto di man­te­nere e ali­men­tare un rap­porto costante tra la dimen­sione micro, quella dell’esperienza dei sin­goli indi­vi­dui, e quella macro, legata alle ideo­lo­gie prevalenti.

Nume­rose sono infatti le pagine dedi­cate al dif­fon­dersi di una cul­tura popo­lare basata sulla ripa­ra­zione del trauma, nella quale il ricorso a cre­denze anti­che, a super­sti­zioni ma anche ad un ine­dito arse­nale di signi­fi­cati, mutuati da una nuova con­sa­pe­vo­lezza, quella che deri­vava dal rifiuto dell’ineluttabilità della guerra, dava corpo e sostanza al suo pro­gres­sivo rifiuto. Non più nel nome dell’autodifesa dei sin­goli dalla pre­va­ri­ca­zione delle cir­co­stanze bensì sulla scorta di un pro­getto poli­tico che nel capo­vol­gi­mento dei rap­porti di forza, a par­tire da quelli poli­tici, tro­vava il suo fondamento.

Una ragione di più, quest’ultima, per tor­nare a riflet­tere su come i fasci­smi si siano inse­riti a gamba tesa nei pro­cessi post­bel­lici, senz’altro coar­tando la volontà di molti ma, non di meno, pie­gando quella di altri nella costru­zione di un con­senso che di lì a non molto avrebbe fatto della mili­ta­riz­za­zione degli spi­riti la pre­messa per un altro sfra­cello collettivo.


Giunse al fronte la modernità. E colse i generali di sorpresaGiorgio Rochat: nel 1914 si pensava a un conflitto breve
di Antonio Carioti Corriere 15.5.14

 Folle incoscienza è forse l’espressione più adatta a descrivere il clima in cui l’Europa corse alle armi nel 1914, come sottolinea lo storico militare Giorgio Rochat: «Da entrambe le parti, nei Paesi dell’Intesa come negli Imperi centrali, tutti erano convinti che il conflitto sarebbe durato pochi mesi, sarebbe stato eroico e vittorioso. Troppi sottovalutavano, o consideravano in modo errato, l’influenza del progresso tecnico».
Secondo Rochat l’unica innovazione di cui si era capita l’importanza era la ferrovia: «Dall’antichità ai tempi di Napoleone, gli eserciti si erano mossi a piedi e il cavallo era rimasto il più efficiente mezzo di locomozione. Rifornire un armata in territorio nemico era molto difficile. Ma le ferrovie cambiano tutto. Masse enormi possono essere spostate in fretta e adeguatamente nutrite. Se nel 1859 il Piemonte aveva faticato ad alimentare 50-60 mila uomini impiegati in Lombardia contro gli austriaci, nel 1917 e nel 1918 l’Italia riesce a sostentare circa due milioni di uomini schierati al fronte».
Si contava appunto sui treni per accorciare la guerra. Ma non fu così. «Una volta trasportati grandi eserciti alla frontiera, oltre i confini i soldati dovevano muoversi a piedi e bisognava rifornirli con i carri trainati da cavalli, in un contesto nel quale l’enorme aumento di potenza delle bocche da fuoco, cannoni e mitragliatrici, favoriva i difensori rispetto agli attaccanti. Si potevano distruggere le fortificazioni con l’artiglieria, ma poi nell’avanzare bisognava spostare i pezzi a mano, dando al nemico il tempo di riorganizzarsi. Ciò spiega lo spaventoso dispendio di vite umane per guadagnare pochi chilometri. Solo con l’uso intenso dei veicoli a motore, specie dei mezzi corazzati appoggiati dall’aviazione, la situazione sarebbe cambiata nella Seconda guerra mondiale».
Del resto negli eventi del 1914 pesò anche un caso di parziale di motorizzazione: «È un po’ un mito la storia dei taxi parigini utilizzati per spostare le truppe francesi durante la vittoriosa resistenza sulla Marna. Tuttavia è vero che il generale Joseph Joffre fu avvantaggiato dal fatto di poter trasportare i soldati più facilmente, trovandosi in territorio amico, rispetto ai tedeschi, che erano giunti alla porte di Parigi, ma dovevano marciare a piedi. Decisive furono le ferrovie, ma anche i taxi servirono a far affluire rinforzi nel punto giusto al momento giusto».
A proposito di trasporti, spesso si dice che il precipitare della guerra fu dovuto anche alla necessità di attuare una mobilitazione rapida. In particolare i generali tedeschi erano ossessionati dall’idea di sconfiggere subito la Francia, prima che la Russia riuscisse a mettere in campo le sue masse sterminate di soldati. «La questione esiste — replica Rochat — ma non è determinante. Nell’estate del 1914 non si mostrano bellicosi soltanto i militari. Anche i leader politici spingono verso la guerra. È vero che la mobilitazione è un meccanismo rigido, per cui anche un breve ritardo può avere effetti gravi. Ma non sono le esigenze della mobilitazione che costringono ad affrettare l’inizio delle ostilità: semmai sono il pretesto con cui si giustifica una condotta dettata dalla volontà politica di ricorrere alle armi».
C’è un responsabile principale della catastrofe? Si può parlare di colpa tedesca? «L’Europa all’epoca era dominata dall’asse franco-britannico, appoggiato dalla Russia. La Germania era la potenza emergente, che voleva sovvertire quell’equilibrio. La guerra nasce da un contrasto di potenza in cui tutti gli attori seguono una logica imperialista: non vedo francamente uno Stato più responsabile degli altri. Direi che tutti lo sono in proporzione al loro peso sullo scacchiere internazionale, quindi i più colpevoli sono la Germania e la Gran Bretagna, anche se non bisogna sottovalutare le responsabilità di piccoli Stati come la Serbia».
Però la prima mossa dei tedeschi è aggredire il Belgio, Paese neutrale. «Potrà sembrare un discorso cinico, ma in guerra atti del genere sono da mettere in conto. Nella lotta per la sopravvivenza di solito non si rispettano le regole. Per quanto grave sia quell’episodio, non credo si possa parlare di una prevalente colpa tedesca. Del resto la Germania imperiale del 1914 non è quella di Hitler: ha un Parlamento eletto a suffragio universale maschile, un forte movimento operaio, la libertà di stampa. Lo stesso vale per l’Austria-Ungheria, ma non per la Russia zarista, Paese dell’Intesa».
Eppure c’è chi pensa che si debba parlare di una «guerra dei trent’anni» dal 1914 al 1945. Rochat non è convinto: «La Grande guerra è un conflitto a sé, anche se non ne esce un assetto stabile e quindi c’è un legame con le crisi successive. Del resto nelle guerre mondiali vediamo una tendenza della Germania ad acquisire l’egemonia europea che non è cessata dopo il 1945 e anzi sembra essersi realizzata proprio adesso con mezzi pacifici».
E l’Italia? Nel 1915 la guerra di trincea era già cominciata: perché il nostro Paese non ricavò alcun insegnamento da quanto stava accadendo? «In effetti i progetti del comandante Luigi Cadorna –—spiega Rochat — si fondavano sull’illusione di sfondare sull’Isonzo e arrivare a Vienna in un paio di mesi. Sperava di risolvere la guerra a favore dell’Intesa. Ma non è un caso d’incoscienza isolato. I generali di tutti gli altri Paesi in lotta, all’inizio del 1915, credono ancora, al pari di Cadorna, che si possa chiudere il conflitto in breve tempo, magari entro l’estate. Perciò lanciano una serie di offensive sanguinose e inconcludenti».
Resta da capire perché prevalse la scelta dell’intervento, cui erano contrarie le masse popolari socialiste e cattoliche, nonché un leader liberale influente come Giovanni Giolitti. «La classe dirigente in realtà era quasi tutta a favore della guerra, era convinta che l’Italia, se voleva essere una potenza europea, non potesse rimanere fuori dal conflitto. Anche la piccola borghesia urbana era in prevalenza interventista, soprattutto gli studenti. Lo stesso Giolitti era più prudente di Antonio Salandra, che lo aveva sostituito alla guida del governo, ma non prese mai posizione in modo netto».
E la Chiesa? «Il Papa Benedetto XV invoca la pace e nel 1917 definisce la guerra “inutile strage”, ma nel complesso il mondo cattolico italiano tiene a dimostrare il suo patriottismo e aderisce allo sforzo bellico, così come avviene in tutti gli altri Paesi. Per esempio Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, presta servizio senza nessun problema nei servizi sanitari dell’esercito. Prevale nelle grandi Chiese la visione tradizionale per cui il buon cristiano deve obbedire alle autorità costituite, anche se si tratta di combattere».
Però durante il conflitto cresce l’insofferenza dei soldati italiani, come dimostra il gran numero dei fucilati in modo sommario o per ordine delle corti marziali. «Da noi — osserva Rochat — le esecuzioni sono un migliaio, il quadruplo rispetto alla Francia e dieci volte più che in Germania. Dipende dalla migliore organizzazione tedesca: dalle capacità degli ufficiali e dal rispetto dell’autorità diffuso nella truppa. D’altronde un terzo dei nostri soldati sono analfabeti, mentre quasi nessuno lo è nelle armate tedesche e asburgiche. Però nell’esercito italiano non avvengono i massicci ammutinamenti che si verificano invece tra i soldati francesi e austro-ungarici, per non parlare dei russi».



Un sisma che sconvolse anche il Medio Oriente
Pesano tuttora gli errori di Londra e Parigi
di Lorenzo Cremonesi Corriere 15.5.14

 Medio Oriente e Prima guerra mondiale: è il tema affrontato nell’ottavo dvd della serie «14-18 Grande guerra». Ma di solito se ne parla poco. In genere tendiamo a raccontare il conflitto come una «guerra civile europea». Dimenticando però che quello stesso conflitto condusse non solo alla fine dell’Impero ottomano, ma soprattutto resta all’origine della destabilizzazione cronica che da un secolo scuote gli ex Paesi coloniali sulla sponda meridionale del Mediterraneo, dal Marocco alla Mezzaluna fertile. Tanto che il caos violento delle cosiddette Primavere arabe, esplose nel 2011 e tuttora al centro delle tensioni regionali, viene letto anche come l’ennesimo tentativo da parte delle popolazioni locali di cambiare e rimodellare i confini «artificiali» concordati segretamente nel 1916 tra Francia e Inghilterra (i cosiddetti patti Sykes-Picot), ancora prima che le truppe del generale Allenby raggiungessero Gerusalemme nel novembre 1917.
Se è vero che in Europa la Grande guerra terminò solo nel 1945, in Medio Oriente invece la si sta ancora combattendo e in questo momento in modo più cruento che mai. Lo scenario più apocalittico è quello siriano, oltre 150 mila morti in tre anni, quasi 9 milioni di profughi, il Paese in ginocchio sotto il tallone della repressione della dittatura alawita e spaventato dagli eccessi anarcoidi dei fondamentalisti sunniti. Questa era stata per oltre quattro secoli una provincia ottomana, comprendente anche Palestina e Transgiordania. Se paragonata ai tumulti del Novecento, l’era del dominio del sultano da Costantinopoli appare tutto sommato pacifica. Alla fine dell’Ottocento Mark Twain nel suo scanzonato Innocenti all’estero descrive una Gerusalemme «quieta, trasandata e sonnolenta sino alla noia». La sua indignazione nasce dopo aver rilevato la sporcizia dei Luoghi Santi e le beghe da pollaio tra le diverse denominazioni cristiane. Nulla a che vedere però con le tensioni politiche che seguiranno le prime sommosse arabe antisioniste scaturite dalla Dichiarazione Balfour del 1917, con cui Londra prometteva di creare in Palestina un «focolare ebraico».
Alla base di tutto questo sta quella Linea nella sabbia , così come recita il titolo di un libro dell’inglese James Barr pubblicato di recente, tracciata brutalmente con il righello dagli ufficiali coloniali di Londra e Parigi. La logica era semplice. La regione veniva divisa in due, senza tener conto affatto delle realtà locali, ignorando tradizioni religiose, etniche, divisioni tribali antiche millenni. Il confine partiva sopra San Giovanni d’Acri, tra la Galilea settentrionale e il Libano meridionale, tracciava la frontiera che tutt’oggi divide la Giordania dalla Siria e quella tra l’Iraq e la Turchia contemporanei. A sud est stava la zona di influenza britannica, a nord quella francese. Poco importava che in mezzo si trovasse l’unità etnico-territoriale del popolo curdo, ancora meno che i cristiani dei monti del Libano fossero amalgamati ai drusi, con i quali si massacravano da anni. E poco importava soprattutto che venissero così tradite le promesse di indipendenza nazionale fatte dagli inglesi agli arabi per garantire la loro fedeltà nella lotta contro turchi e tedeschi.
Dallo sgambetto nacquero quelli che un altro noto storico britannico, David Fromkin, nel suo Una pace senza pace , chiama gli «Stati figli di Francia e Inghilterra: Libano, Siria, Giordania, Iraq, Israele e Palestina». Un tradimento che pesa tutt’oggi nei modi di pensare e nei pregiudizi delle piazze arabe nei confronti degli occidentali, una volta soprattutto gli inglesi e adesso gli americani. Scriverà Lawrence d’Arabia nell’introduzione al suo classico I sette pilastri della saggezza : «Era evidente, sin dall’inizio, che, se avessimo vinto la guerra, le nostre promesse sarebbero state carta straccia». È una condanna impietosa, la sua, contro le ingiustizie commesse nei confronti degli arabi da parte delle potenze vittoriose. «Se fossi stato un consigliere onesto, avrei detto agli arabi di tornare a casa e non arrischiare la vita per una simile prospettiva», aggiunge autocritico, giustificandosi solo con la sua speranza di allora per cui una travolgente vittoria della rivolta araba contro l’esercito ottomano avrebbe potuto indurre le grandi potenze a rivedere il proprio atteggiamento.
Ma così non fu. Di conseguenza la versione tradizionale dell’antisionismo arabo, che sia di matrice laica come quello di Nasser o dell’Olp, oppure islamico-fondamentalista come quello di Hamas e dei Fratelli musulmani, resta fortemente impregnata dal «peccato originale» derivato dalla Prima guerra mondiale. Come del resto non è difficile trovare tra le milizie estremiste sunnite, che oggi stanno cavalcando il progetto del «nuovo califfato» per abolire il confine tra Siria centro-meridionale e Iraq occidentale, il desiderio di ricostruire un Medio Oriente rinato dalle ceneri dei confini coloniali.

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