Claudio Vercelli, il Manifesto 15.5.2014
In un fortunato film del 1919, J’accuse di Abel Gance, i morti, uccisi negli infiniti combattimenti della Prima guerra mondiale, si levano dalle tombe e, vagando di strada in strada, di viottolo in viottolo, raggiungono i loro luoghi di origine, per interrogare quanti gli erano sopravvissuti sull’utilità del proprio «sacrificio».
La guerra dopo la guerra è il tempo proprio alla memoria e alla storia. L’una e l’altra in continua tensione, spesso in contrasto tra di loro. Poiché non subentra la pace degli spiriti ma la divisione sui criteri per dare un senso all’esperienza trascorsa così come il problema, destinato a riproporsi costantemente, del valore morale da attribuire all’evento bellico. Con esso, dell’elaborazione del lutto.
Una brutale emancipazione
È con le guerre napoleoniche, e la leva di massa, che la guerra supera la sua natura di evento cataclismatico, ai limiti del fatto «naturale» e quindi imponderabile, per divenire invece parte di un più complesso percorso nella costruzione dell’identità collettiva, nazionale e repubblicana. Le premesse stanno nella serializzazione delle pratiche belliche, nel coinvolgimento diretto dei civili, nelle gigantesche battaglie, nell’industrializzazione delle violenze e nel grande numero di chiamati alle armi.
Ma non sono solo questi gli elementi che entrano in gioco, poiché il conflitto armato novecentesco, ed il suo prototipo per eccellenza, la Prima guerra mondiale, nella dimensione logorante della trincea costruisce una sorta di alter ego della catena di montaggio. L’una e l’altra costituivano dei fattori di emancipazione violenta delle società rurali dai loro fondamenti, proiettandole verso scenari industriali che costituivano una linea di non ritorno.
Le comunità andavano riorganizzandosi intorno a questa nuova esperienza esistenziale, di cui i combattimenti erano la punta di un iceberg in una più complessa trama, dove la compenetrazione tra individui e tecnica istituiva uno scenario inedito. A capirlo, nonché a manipolarne gli esiti, furono da subito gli esponenti di quella che sarebbe stata ben presto conosciuta come «rivoluzione conservatrice». In un gioco che spostava a destra gli assi delle comprensione e dell’elaborazione del trauma bellico, esaltandone il valore di catarsi, ossia di rigenerazione antiborghese dello spirito europeo, gli autori del protofascismo furono tra i primi a cogliere il valore della mobilitazione collettiva e gli effetti, a guerra ultimata, di ricaduta sulle coscienze.
Più in generale, a guerra conclusasi, le società europee si trovarono sospese tra l’apocalitticismo e il sentimentalismo: se il primo alimentava la percezione che nulla sarebbe stato più come prima, ovvero che tutto era mutato e che le certezze trascorse erano state disintegrate, il secondo enfatizzava il bisogno di trovare un comune denominatore tra quei tanti individui che avevano vissuto il conflitto come un fatto destinato a tramutare il proprio sé, la consapevolezza della propria identità, la costruzione di relazioni interpersonali.
La dialettica tra catastrofe e consolazione divenne quindi un tema dominante nel modo di recepire gli esiti del lunghissimo confronto armato. Di fatto, accompagnò le società europee per almeno vent’anni, fino agli esordi dell’altro grande scontro, la guerra del 1939–1945. Come tutto questo abbia inciso sui quadri culturali, sulle mentalità e sui modi di pensare il rapporto con il passato attraverso l’elaborazione delle idee di trauma e di perdita, costituisce il fulcro del volume di Jay Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea (il Mulino, Bologna 2014, pp. 342, euro 14). Si tratta della ristampa, a vent’anni dalla sua prima uscita, di un’opera importante, firmata da uno studioso di vaglia, che ha insegnato a lungo storia a Yale.
Il suo titolo originale, «luoghi della memoria, luoghi della perdita» è forse più puntuale nel definire l’oggetto del testo. Il quale cerca di ricostruire il complesso impatto sulle società europee delle vicende connesse alle carneficine belliche attraverso il formarsi di un linguaggio condiviso, il costituirsi di una mitologia e il determinarsi di retoriche collettive che diedero poi corpo al discorso sulla «vittoria perduta». Discorso trasversale, che avrebbe accompagnato i vincitori così come i vinti, in una sorta di dinamica della rivalsa destinata ad inghiottire, di lì a non molto tempo, ancora una volta l’Europa intera.
I troppi fantasmi
Un problema di fondo, per l’autore, è come la morte venga incorporata nell’esistenza dei sopravvissuti. La Grande guerra interessò non solo i combattenti, con i suoi nove milioni di morti, ma anche le decine di milioni di parenti e congiunti che componevano le famiglie di quanti vennero chiamati alle armi e che spesso non tornarono più alle loro case. Non di meno, l’Europa centrale, ad occidente come ad oriente, fu l’insieme di una serie di brutali, dissanguanti confronti, destinati a durare per lunghissimo tempo, in uno stillicidio di morti e distruzioni che fino ad allora mente umana ancora non riusciva a ricordare. I prototipi ideologici ma anche fattuali riposavano non nei conflitti continentali del secolo precedente ma nella guerra civile americana, dove si erano raggiunti livelli di efferatezza senza pari, insieme ai massacri della guerra di Crimea.
L’unico antecedente europeo significativo, sul piano della barbarie, era stata la sanguinosa repressione della Comune parigina nel 1871. Con la fine della guerra, al problema del ritorno dei sopravvissuti si aggiungeva ora quello del rimpatrio dei morti, così come la ricomposizione di ciò che era stato smembrato, fossero gli arti dei mutilati piuttosto che la rete di rapporti tra comunità dilacerate dalla violenza. Si trattava nel medesimo tempo di questioni di ordine materiale, quindi concrete, e di natura simbolica e allegorica.
La loro urgenza e inderogabilità stava nel fatto che rinviassero tutte al problema della rilegittimazione del potere politico nella delicata e lunga fase della smobilitazione e della riconversione economica e sociale verso una condizione di pace. Ma più in generale, per il fatto stesso che la Grande guerra avesse costituito l’habitat di un nuovo modo di intendere la violenza organizzata, la sua ricaduta sul comune sentire non poteva lasciare indifferenti le élite di potere.
Il problema di affrontare gli innumerevoli lutti individuali assorbendoli e sublimandoli in una dimensione corale, risarcitoria, capace di dare spessore ad una sorta di rappresentazione collettiva condivisa, ossia in grado di rinsaldare il nazionalismo, fu quindi un banco di prova fondamentale per i gruppi dirigenti del dopoguerra.
La morte in battaglia, così come la dispersione dei cadaveri e le mutilazioni, furono ben presto materia di decisioni politiche impegnative. Tanto più dinanzi al consolidarsi degli effetti della Rivoluzione d’Ottobre. Al pacifismo che, pericolosamente, si avvicinava al richiamo alla trasformazione della guerra militare in guerra sociale, come era avvenuto dal 1917 in poi in Russia, si contrapponeva ora un discorso pubblico che recuperava la morte come esito eroico e virile di scelte di campo consapevoli.
La gestione del reducismo non poteva peraltro limitarsi alle lunghe pratiche di smobilitazione. Per le società liberali si poneva il problema di riportare alla vita civile quanti erano stati educati al ricorso sistematico alla violenza, così come l’affrontare il destino di quanti dal fronte non avevano fatto ritorno. Il tema delle politiche della memoria assume così un valore che fino ad allora non aveva ancora conosciuto. Da un lato avviene una vera e propria trasfigurazione della sofferenza, attraverso il fenomeno dell’«apoteosi del caduto».
Trasfigurazioni mitiche
La morte violenta diventa indice di un sacrificio voluto e quindi cercato, arrivando ad attribuire al defunto qualità cristologiche. Un esempio, a tale riguardo, lo si ha nel cimitero-sacrario di Redipuglia, dove il martirio è inteso come la cifra sulla base della quale interpretare tutta la traiettoria bellica del Paese. All’interno di questo quadro di simbolismi, destinati ad essere recuperati a piene mani dal fascismo, si inseriscono tre elementi fondamentali della narrazione bellica: la diffusione dei monumenti al milite ignoto, la costituzione di cimiteri di guerra, l’edificazione in molte municipalità di piccoli mausolei in onore dei conterranei defunti.
Si tratta di tre strumenti della comunicazione pubblica dove all’abbruttimento condiviso in trincea si coniugava la solidarietà sociale, costruendo un vincolo di reciprocità tra l’una e l’altra. Per i nazionalismi postbellici si trattava di mettere a frutto, anche dinanzi al crescere dei fermenti sociali e alle rivendicazioni sul «dividendo della pace», un nuovo approccio alla coesione sociale, non potendo più prescindere da quelle forme di mobilitazione collettiva che ora si trasformavano in richieste di partecipazione alle decisioni nella sfera pubblica. Ma il libro di Winter non si ferma a questo livello della riflessione, cercando piuttosto di mantenere e alimentare un rapporto costante tra la dimensione micro, quella dell’esperienza dei singoli individui, e quella macro, legata alle ideologie prevalenti.
Numerose sono infatti le pagine dedicate al diffondersi di una cultura popolare basata sulla riparazione del trauma, nella quale il ricorso a credenze antiche, a superstizioni ma anche ad un inedito arsenale di significati, mutuati da una nuova consapevolezza, quella che derivava dal rifiuto dell’ineluttabilità della guerra, dava corpo e sostanza al suo progressivo rifiuto. Non più nel nome dell’autodifesa dei singoli dalla prevaricazione delle circostanze bensì sulla scorta di un progetto politico che nel capovolgimento dei rapporti di forza, a partire da quelli politici, trovava il suo fondamento.
Una ragione di più, quest’ultima, per tornare a riflettere su come i fascismi si siano inseriti a gamba tesa nei processi postbellici, senz’altro coartando la volontà di molti ma, non di meno, piegando quella di altri nella costruzione di un consenso che di lì a non molto avrebbe fatto della militarizzazione degli spiriti la premessa per un altro sfracello collettivo.
Giunse al fronte la modernità. E colse i generali di sorpresaGiorgio Rochat: nel 1914 si pensava a un conflitto breve
di Antonio Carioti Corriere 15.5.14
Folle incoscienza è forse l’espressione più adatta a descrivere il clima in cui l’Europa corse alle armi nel 1914, come sottolinea lo storico militare Giorgio Rochat: «Da entrambe le parti, nei Paesi dell’Intesa come negli Imperi centrali, tutti erano convinti che il conflitto sarebbe durato pochi mesi, sarebbe stato eroico e vittorioso. Troppi sottovalutavano, o consideravano in modo errato, l’influenza del progresso tecnico».
Secondo Rochat l’unica innovazione di cui si era capita l’importanza era la ferrovia: «Dall’antichità ai tempi di Napoleone, gli eserciti si erano mossi a piedi e il cavallo era rimasto il più efficiente mezzo di locomozione. Rifornire un armata in territorio nemico era molto difficile. Ma le ferrovie cambiano tutto. Masse enormi possono essere spostate in fretta e adeguatamente nutrite. Se nel 1859 il Piemonte aveva faticato ad alimentare 50-60 mila uomini impiegati in Lombardia contro gli austriaci, nel 1917 e nel 1918 l’Italia riesce a sostentare circa due milioni di uomini schierati al fronte».
Si contava appunto sui treni per accorciare la guerra. Ma non fu così. «Una volta trasportati grandi eserciti alla frontiera, oltre i confini i soldati dovevano muoversi a piedi e bisognava rifornirli con i carri trainati da cavalli, in un contesto nel quale l’enorme aumento di potenza delle bocche da fuoco, cannoni e mitragliatrici, favoriva i difensori rispetto agli attaccanti. Si potevano distruggere le fortificazioni con l’artiglieria, ma poi nell’avanzare bisognava spostare i pezzi a mano, dando al nemico il tempo di riorganizzarsi. Ciò spiega lo spaventoso dispendio di vite umane per guadagnare pochi chilometri. Solo con l’uso intenso dei veicoli a motore, specie dei mezzi corazzati appoggiati dall’aviazione, la situazione sarebbe cambiata nella Seconda guerra mondiale».
Del resto negli eventi del 1914 pesò anche un caso di parziale di motorizzazione: «È un po’ un mito la storia dei taxi parigini utilizzati per spostare le truppe francesi durante la vittoriosa resistenza sulla Marna. Tuttavia è vero che il generale Joseph Joffre fu avvantaggiato dal fatto di poter trasportare i soldati più facilmente, trovandosi in territorio amico, rispetto ai tedeschi, che erano giunti alla porte di Parigi, ma dovevano marciare a piedi. Decisive furono le ferrovie, ma anche i taxi servirono a far affluire rinforzi nel punto giusto al momento giusto».
A proposito di trasporti, spesso si dice che il precipitare della guerra fu dovuto anche alla necessità di attuare una mobilitazione rapida. In particolare i generali tedeschi erano ossessionati dall’idea di sconfiggere subito la Francia, prima che la Russia riuscisse a mettere in campo le sue masse sterminate di soldati. «La questione esiste — replica Rochat — ma non è determinante. Nell’estate del 1914 non si mostrano bellicosi soltanto i militari. Anche i leader politici spingono verso la guerra. È vero che la mobilitazione è un meccanismo rigido, per cui anche un breve ritardo può avere effetti gravi. Ma non sono le esigenze della mobilitazione che costringono ad affrettare l’inizio delle ostilità: semmai sono il pretesto con cui si giustifica una condotta dettata dalla volontà politica di ricorrere alle armi».
C’è un responsabile principale della catastrofe? Si può parlare di colpa tedesca? «L’Europa all’epoca era dominata dall’asse franco-britannico, appoggiato dalla Russia. La Germania era la potenza emergente, che voleva sovvertire quell’equilibrio. La guerra nasce da un contrasto di potenza in cui tutti gli attori seguono una logica imperialista: non vedo francamente uno Stato più responsabile degli altri. Direi che tutti lo sono in proporzione al loro peso sullo scacchiere internazionale, quindi i più colpevoli sono la Germania e la Gran Bretagna, anche se non bisogna sottovalutare le responsabilità di piccoli Stati come la Serbia».
Però la prima mossa dei tedeschi è aggredire il Belgio, Paese neutrale. «Potrà sembrare un discorso cinico, ma in guerra atti del genere sono da mettere in conto. Nella lotta per la sopravvivenza di solito non si rispettano le regole. Per quanto grave sia quell’episodio, non credo si possa parlare di una prevalente colpa tedesca. Del resto la Germania imperiale del 1914 non è quella di Hitler: ha un Parlamento eletto a suffragio universale maschile, un forte movimento operaio, la libertà di stampa. Lo stesso vale per l’Austria-Ungheria, ma non per la Russia zarista, Paese dell’Intesa».
Eppure c’è chi pensa che si debba parlare di una «guerra dei trent’anni» dal 1914 al 1945. Rochat non è convinto: «La Grande guerra è un conflitto a sé, anche se non ne esce un assetto stabile e quindi c’è un legame con le crisi successive. Del resto nelle guerre mondiali vediamo una tendenza della Germania ad acquisire l’egemonia europea che non è cessata dopo il 1945 e anzi sembra essersi realizzata proprio adesso con mezzi pacifici».
E l’Italia? Nel 1915 la guerra di trincea era già cominciata: perché il nostro Paese non ricavò alcun insegnamento da quanto stava accadendo? «In effetti i progetti del comandante Luigi Cadorna –—spiega Rochat — si fondavano sull’illusione di sfondare sull’Isonzo e arrivare a Vienna in un paio di mesi. Sperava di risolvere la guerra a favore dell’Intesa. Ma non è un caso d’incoscienza isolato. I generali di tutti gli altri Paesi in lotta, all’inizio del 1915, credono ancora, al pari di Cadorna, che si possa chiudere il conflitto in breve tempo, magari entro l’estate. Perciò lanciano una serie di offensive sanguinose e inconcludenti».
Resta da capire perché prevalse la scelta dell’intervento, cui erano contrarie le masse popolari socialiste e cattoliche, nonché un leader liberale influente come Giovanni Giolitti. «La classe dirigente in realtà era quasi tutta a favore della guerra, era convinta che l’Italia, se voleva essere una potenza europea, non potesse rimanere fuori dal conflitto. Anche la piccola borghesia urbana era in prevalenza interventista, soprattutto gli studenti. Lo stesso Giolitti era più prudente di Antonio Salandra, che lo aveva sostituito alla guida del governo, ma non prese mai posizione in modo netto».
E la Chiesa? «Il Papa Benedetto XV invoca la pace e nel 1917 definisce la guerra “inutile strage”, ma nel complesso il mondo cattolico italiano tiene a dimostrare il suo patriottismo e aderisce allo sforzo bellico, così come avviene in tutti gli altri Paesi. Per esempio Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, presta servizio senza nessun problema nei servizi sanitari dell’esercito. Prevale nelle grandi Chiese la visione tradizionale per cui il buon cristiano deve obbedire alle autorità costituite, anche se si tratta di combattere».
Però durante il conflitto cresce l’insofferenza dei soldati italiani, come dimostra il gran numero dei fucilati in modo sommario o per ordine delle corti marziali. «Da noi — osserva Rochat — le esecuzioni sono un migliaio, il quadruplo rispetto alla Francia e dieci volte più che in Germania. Dipende dalla migliore organizzazione tedesca: dalle capacità degli ufficiali e dal rispetto dell’autorità diffuso nella truppa. D’altronde un terzo dei nostri soldati sono analfabeti, mentre quasi nessuno lo è nelle armate tedesche e asburgiche. Però nell’esercito italiano non avvengono i massicci ammutinamenti che si verificano invece tra i soldati francesi e austro-ungarici, per non parlare dei russi».
Un sisma che sconvolse anche il Medio Oriente
Pesano tuttora gli errori di Londra e Parigi
di Lorenzo Cremonesi Corriere 15.5.14
Medio Oriente e Prima guerra mondiale: è il tema affrontato nell’ottavo dvd della serie «14-18 Grande guerra». Ma di solito se ne parla poco. In genere tendiamo a raccontare il conflitto come una «guerra civile europea». Dimenticando però che quello stesso conflitto condusse non solo alla fine dell’Impero ottomano, ma soprattutto resta all’origine della destabilizzazione cronica che da un secolo scuote gli ex Paesi coloniali sulla sponda meridionale del Mediterraneo, dal Marocco alla Mezzaluna fertile. Tanto che il caos violento delle cosiddette Primavere arabe, esplose nel 2011 e tuttora al centro delle tensioni regionali, viene letto anche come l’ennesimo tentativo da parte delle popolazioni locali di cambiare e rimodellare i confini «artificiali» concordati segretamente nel 1916 tra Francia e Inghilterra (i cosiddetti patti Sykes-Picot), ancora prima che le truppe del generale Allenby raggiungessero Gerusalemme nel novembre 1917.
Se è vero che in Europa la Grande guerra terminò solo nel 1945, in Medio Oriente invece la si sta ancora combattendo e in questo momento in modo più cruento che mai. Lo scenario più apocalittico è quello siriano, oltre 150 mila morti in tre anni, quasi 9 milioni di profughi, il Paese in ginocchio sotto il tallone della repressione della dittatura alawita e spaventato dagli eccessi anarcoidi dei fondamentalisti sunniti. Questa era stata per oltre quattro secoli una provincia ottomana, comprendente anche Palestina e Transgiordania. Se paragonata ai tumulti del Novecento, l’era del dominio del sultano da Costantinopoli appare tutto sommato pacifica. Alla fine dell’Ottocento Mark Twain nel suo scanzonato Innocenti all’estero descrive una Gerusalemme «quieta, trasandata e sonnolenta sino alla noia». La sua indignazione nasce dopo aver rilevato la sporcizia dei Luoghi Santi e le beghe da pollaio tra le diverse denominazioni cristiane. Nulla a che vedere però con le tensioni politiche che seguiranno le prime sommosse arabe antisioniste scaturite dalla Dichiarazione Balfour del 1917, con cui Londra prometteva di creare in Palestina un «focolare ebraico».
Alla base di tutto questo sta quella Linea nella sabbia , così come recita il titolo di un libro dell’inglese James Barr pubblicato di recente, tracciata brutalmente con il righello dagli ufficiali coloniali di Londra e Parigi. La logica era semplice. La regione veniva divisa in due, senza tener conto affatto delle realtà locali, ignorando tradizioni religiose, etniche, divisioni tribali antiche millenni. Il confine partiva sopra San Giovanni d’Acri, tra la Galilea settentrionale e il Libano meridionale, tracciava la frontiera che tutt’oggi divide la Giordania dalla Siria e quella tra l’Iraq e la Turchia contemporanei. A sud est stava la zona di influenza britannica, a nord quella francese. Poco importava che in mezzo si trovasse l’unità etnico-territoriale del popolo curdo, ancora meno che i cristiani dei monti del Libano fossero amalgamati ai drusi, con i quali si massacravano da anni. E poco importava soprattutto che venissero così tradite le promesse di indipendenza nazionale fatte dagli inglesi agli arabi per garantire la loro fedeltà nella lotta contro turchi e tedeschi.
Dallo sgambetto nacquero quelli che un altro noto storico britannico, David Fromkin, nel suo Una pace senza pace , chiama gli «Stati figli di Francia e Inghilterra: Libano, Siria, Giordania, Iraq, Israele e Palestina». Un tradimento che pesa tutt’oggi nei modi di pensare e nei pregiudizi delle piazze arabe nei confronti degli occidentali, una volta soprattutto gli inglesi e adesso gli americani. Scriverà Lawrence d’Arabia nell’introduzione al suo classico I sette pilastri della saggezza : «Era evidente, sin dall’inizio, che, se avessimo vinto la guerra, le nostre promesse sarebbero state carta straccia». È una condanna impietosa, la sua, contro le ingiustizie commesse nei confronti degli arabi da parte delle potenze vittoriose. «Se fossi stato un consigliere onesto, avrei detto agli arabi di tornare a casa e non arrischiare la vita per una simile prospettiva», aggiunge autocritico, giustificandosi solo con la sua speranza di allora per cui una travolgente vittoria della rivolta araba contro l’esercito ottomano avrebbe potuto indurre le grandi potenze a rivedere il proprio atteggiamento.
Ma così non fu. Di conseguenza la versione tradizionale dell’antisionismo arabo, che sia di matrice laica come quello di Nasser o dell’Olp, oppure islamico-fondamentalista come quello di Hamas e dei Fratelli musulmani, resta fortemente impregnata dal «peccato originale» derivato dalla Prima guerra mondiale. Come del resto non è difficile trovare tra le milizie estremiste sunnite, che oggi stanno cavalcando il progetto del «nuovo califfato» per abolire il confine tra Siria centro-meridionale e Iraq occidentale, il desiderio di ricostruire un Medio Oriente rinato dalle ceneri dei confini coloniali.
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