mercoledì 21 maggio 2014

Le elezioni europee e alcuni comunisti

Alle elezioni europee di domenica i comunisti - alcuni comunisti, perché altri hanno ritenuto di potersi adattare alla situazione in maniera diversa - arrivano purtroppo privi di una rappresentanza autonoma. La loro iniziativa politica è perciò inevitabilmente molto limitata e può avere un significato e un effetto reattivo e solo indiretto, che non oltrepassa l'orizzonte nazionale.

E' inutile e inopportuno polemizzare tra noi, in questo momento, sulle ragioni di questa ulteriore sconfitta. Più proficuo è prendere atto della realtà, che pure non ci piace: non siamo stati in grado di orientare un dibattito pubblico sulla natura della costruzione del Grande Spazio continentale in regime capitalistico, né sulla collocazione geopolitica di questo Spazio. E non possiamo influire in nessun modo sui rapporti di forza nel parlamento europeo (un'istituzione, va detto, che ha comunque un ruolo politico molto limitato).



Non potendo dire nulla in positivo e forse non avendo nemmeno nulla da dire, vista la confusione generale, si tratta allora di fare quel  miserabile pochissimo che in questo momento possiamo fare al fine di impedire una stabilizzazione del quadro politico interno. Ovvero per ostacolare un rafforzamento dell'investimento delle classi dominanti - italiane, continentali, atlantiche - sull'imbroglione giovane Matteo Renzi.
C'è poco di cui rallegrarsi e siamo abituati a puntare a qualcosa di più della Schadenfreude. Ma per tutta una serie di ragioni, la possibilità di incidere sul quadro politico non è nelle nostre mani e non è colpa di chi si limita a descrivere la realtà se i comunisti sono oggi privi di un'organizzazione credibile e di una proposta politica minimamente dignitosa. Avremmo voluto altro e di più ovvero avremmo voluto e ci sarebbe voluta una presenza autonoma delle posizioni antagonistiche. Ma chi ha responsabilità politiche ha deciso diversamente e in queste condizioni, possiamo solo cercare di favorire lo scenario che apre le contraddizioni maggiori ovvero possiamo fare solo ciò che i più deboli e disarmati possono fare.


Si tratta in altre parole di operare quella scelta che possa fare il danno maggiore al PD e ai suoi alleati, laddove gli alleati sono quelli attuali ma anche quelli potenziali e cioè quelli che sperano prima o poi di allearsi.Ognuno proceda secondo il gusto del momento e senza troppi scrupoli, perché altri al posto nostro non hanno avuto nessuna pietà della nostra sorte.

Che la politica sia sangue e merda del resto non l'abbiamo deciso noi, che non abbiamo voce nella scelta delle regole del gioco. E finché ci saranno un Massimo L. Salvadori o una Agnes Heller a rimbrottarci e a gridare al lupo! al lupo! dalle colonne di Repubblica - o magari un altro qualsiasi che all'ultimo giro ha votato per Vendola e adesso ci chiama populisti - saremo abbastanza sicuri della nostra scelta [SGA].


Le scelte che fanno la differenza
di Massimo L. Salvadori Repubblica 21.5.14


CHE cosa può dare il voto ad un elettore che non scambi l’urna per il luogo in cui appagare i suoi ultimi desideri? Consente di scegliere tra le diverse opzioni che offre in concreto lo stato politico di un paese, bello o brutto che sia. In Italia è quello che è. Ma, proprio per le gravi difficoltà in cui versa il paese, il voto è importante.
Uno può buttare via il suo voto in quattro diversi modi: standosene a casa (il che equivale a dire: “andate tutti al diavolo!”) oppure consegnando scheda bianca (il che, se non si è organicamente indifferenti, equivale a dire: “vorrei fare il mio dovere di cittadino, ma fate tutti egualmente schifo”) oppure dando un voto di punizione (il che equivale a dire: “vorrei votare per te in base alle mie inclinazioni di fondo, ma non lo faccio perché desidero darti una lezione e quindi scelgo un altro anche se non mi piace”) oppure do la mia preferenza ad un partito incapace di in-
fluire sui rapporti di forza per dare quanto meno una testimonianza ideale. Questo atteggiamento ha fatto breccia tra molti di coloro che in passato, nonostante tutti i maldipancia possibili, si ascrivevano alla sinistra, fornendo così prova di dare ancora importanza a distinzioni che ora sembrano non più riconoscere.
Nella loro diversità di motivazioni i quattro modi sopra indicati convergono in un unico esito: contribuire all’indebolimento se non alla sconfitta della forza politica che pure dovrebbe rappresentare anche ai custodi del meglio ideale il meno peggio reale. Poiché nella realtà dei rapporti politici e sociali esiste sempre il meno peggio. Chi non vuol vederlo e accettarlo si pone al di fuori dei comportamenti orientati a criteri di razionalità. Aspira a rendere più sana, più alta la politica e, spinto dalle proprie delusioni, contribuisce a farla affondare del tutto. Invoca una più nobile responsabilità negli altri mentre ignora la propria che è di non lasciare libero campo alle forze che se non altro il buon senso dovrebbe indicare come le peggiori anche nello scenario che è indotto ad avversare nel suo insieme. Non percepire il valore del relativo significa in politica, appunto, porsi contro la razionalità.
Passando dal discorso generale ai fatti con cui l’elettore si troverà a fare i conti, chi non andrà a votare, chi deporrà scheda bianca, chi voterà con intenti punitivi e chi lo farà per testimoniare scegliendo l’inefficacia si orienterà in base ad un comune orientamento: quello secondo cui Berlusconi, Alfano, Renzi pari sono, mentre a Grillo, se non lo si fa rientrare nella stessa compagnia, si attribuisce il ruolo di vendicatore dei peccati altrui. Orbene, concediamo una certa venia ai tanti che, comprensibilmente imbufaliti dagli spettacoli indecenti offerti dalla mala politica, si lasciano trascinare dal sentimento a perdere il senso delle differenze che vi sono tra un partito e l’altro, e quindi il senso del relativo; ma non possiamo concederla ai non pochi illustri intellettuali di sinistra che fanno sfoggio di accanimento — guarda caso — soprattutto nei confronti di Matteo Renzi. Li abbiamo sentiti dire, contenti della prova offerta di allegra e compiaciuta intelligenza, che Renzi è l’alter ego di Berlusconi, una minaccia per la democrazia, un populista, che questi due insieme con Grillo rispecchiano la stessa Italia. Non entro nel merito di tali giudizi. Li si lasci a chi li pronuncia. Fatto è che, comunque la pensino, essi non possono eludere l’interrogativo che ha posto Scalfari e a cui si deve rispondere: ritengono che un grave insuccesso del Pd non faccia differenza? Sono indifferenti alle conseguenze che avrebbe l’eventuale sorpasso da parte di Grillo?
È un vecchio, intramontabile vizio della “sinistra pura” l’amore per le dichiarazioni di principio, per l’etica della convinzione, per l’imperativo categorico che non transige e induce a avversare in primo luogo la sinistra impura. Più la sinistra ne è stata danneggiata e più questo vizio si riproduce come un fungo dalle belle apparenze e dagli effetti velenosi. Sì, siamo costretti a scegliere tra Berlusconi, Alfano, Renzi e Grillo. Tutti uguali? Dopo il 25 giugno avremo i risultati elettorali. Ebbene, questo nostro paese che si trova nella tenaglia in cui lo stringono le difficoltà non avrà lo stesso destino se vincerà l’uno o l’altro. Chiunque lo dovrebbe capire. La ragione può sopportare molte violenze, ma di queste violenze non abusino in primo luogo intellettuali dottissimi ed espertissimi di politica antica e moderna.


La nostra casa non diventi un museo
di Agnes Heller Repubblica 21.5.14

LA DOMANDA può essere formulata in due modi: l’Europa è un museo o l’Europa è (diventerà) solo un museo? Guardiamo innanzitutto la posizione degli europei: se chiedi a un qualsiasi europeo dell’Europa, ti risponderà che la sua patria, la sua nazione è in Europa. Qualcuno aggiungerà anche che l’Europa è la sua casa più grande. È un’esperienza comune, ogni volta che un europeo torna da un altro continente, di provare la sensazione di essere tornati a casa. Se insistete a chiedere a quell’europeo cosa significa l’Europa per lui (o lei), vi risponderà citando l’Unione Europea, la democrazia, ma anche aspetti della civiltà, come le regole nel vestire, il tipo di famiglia, il cibo preferito e così via.
SEMPRE di più gli “stranieri”, gli “estranei” per loro sono persone con preferenze differenti. Se andate ancora più in profondità e gli chiedete della cultura, vi citerà più facilmente il cristianesimo che non l’arte o i musei. Molti europei sicuramente vanno orgogliosi del loro patrimonio culturale, e questo patrimonio include visite a città e musei famosi, in particolare quelli più segnalati dalle guide turistiche. Da questo punto di vista l’Europa diventa anche un museo per gli europei: si scattano e si collezionano foto, e insieme con le foto qualche ricordo.
Gli europei dei nostri giorni non vivono la discrepanza, per non dire l’abisso, fra le tradizioni culturali dell’Europa
e la loro vita effettiva sul continente europeo.
Quando ero giovane io era diverso. Io ho vissuto in Paesi totalitari, in un’Europa di campi di concentramento e campi di sterminio. Quando Thomas Mann visitò l’Ungheria, il più grande poeta di quell’epoca, Attila József, scrisse un poema in suo onore, che si concludeva così: «Siamo estasiati di vedere finalmente tra gli uomini bianchi un europeo».
Per noi a quel tempo c’erano due Europe: l’Europa dei campi di sterminio, dei massacri, delle guerre, e l’Europa della poesia, dell’arte. L’altra Europa. In termini filosofici distinguevamo, senza conoscere quelle parole, tra l’Europa empirica e l’Europa trascendente. L’Europa trascendente era l’Europa della cultura umanista, della poesia, di un altro mondo. L’Europa empirica era il nostro mondo reale fatto di guerra, lager, fame e morte. L’Europa trascendentale era la promessa. Per la sua stessa esistenza e come consolazione. Quante volte abbiamo citato l’ Ode al vento occidentale di Shelley: noi che vivevamo nell’inverno della storia vi leggevamo la promessa che la primavera non poteva essere troppo lontana. Quanto era affascinante un Baudelaire che desidera fuggire lontano con la sua amata.
Musei o campi di concentramento: questo era il dilemma. Per il momento il dilemma sembra risolto: ci sono rimasti solo i musei.
L’Europa è sempre stata — tra le altre cose — anche un museo, almeno da quando i re hanno cominciato a collezionare quadri, da quando i papi hanno invitato gli architetti a creare grandi cattedrali, da quando i borghesi hanno cominciato ad andare ai concerti e da quando Gutenberg ha scoperto la stampa. Ma quando tutto questo avveniva, l’Europa era ancora solo un piccolo continente, e il prezioso concetto di “Europa” non era ancora venuto alla luce. La “cultura europea” come concetto, come idea, è comparsa tardi, ha iniziato la sua carriera con l’idea di Goethe di una “letteratura mondiale” (considerando che l’Europa, almeno nel suo aspetto culturale, all’epoca era identificata con il mondo). Erano pochi quelli che potevano viaggiare per vedere la “cultura europea” dal vivo, e quei pochi andavano per lo più in Italia, ma la stampa cominciò a fare il suo lavoro dalla seconda metà del Settecento in poi: disegni di importanti opere d’arte, e successivamente anche riproduzioni, viaggiavano al posto delle persone.
La tradizione, il “museo”, cioè l’arte “alta”, aveva in breve tre funzioni: la contemplazione, l’ispirazione e l’innovazione. Le prime due sono rimaste vive fino a oggi. Il problema odierno dell’Europa “come semplice museo” ha a che fare con la terza funzione. Dal Rinascimento in poi, insieme alla nascita del concetto di “progresso”, gli artisti importanti dovevano costantemente andare oltre la tradizione da cui provenivano. Questo dinamismo è finito con il superamento di tutti gli stili e scuole avvenuto con l’high modernism. Avvennero due cose: l’arte europea, al pari della filosofia, divenne una faccenda individuale, e al tempo stesso cessò di essere europea. Sono la globalizzazione e la personificazione dell’arte che hanno fatto sorgere la domanda se l’Europa non sia diventata solo un museo.
Per non dare adito a malintesi, è il caso di dire che gli artisti europei continuano a creare opere d’arte importanti, ma lo stesso fanno gli artisti cinesi, giapponesi e via discorrendo. Cosa che hanno sempre fatto, ma non è questo il punto: il punto è che è impossibile distinguere le opere d’arte create in un continente da quelle create negli altri continenti. Il fatto che un maggior numero di premi Nobel provenga da continenti diversi dall’Europa è solo l’aspetto più superficiale del cambiamento. La sostanza è che tutti questi scrittori, a parte un po’ di colore locale ogni tanto, appartengono allo stesso mondo. Quello che resta specificamente europeo è il “museo”, la sua tradizione culturale unica, non imitabile. Ma finché esisterà creazione artistica contemporanea, l’Europa non si trasformerà in un puro e semplice museo.
Anche la democrazia liberale europea non è un semplice museo. La democrazia europea, se eccettuiamo l’Atene antica, non è molto vecchia. La democrazia in America è più vecchia, più stabile, anche più popolare. Ma rimaniamo al tema dell’Europa come semplice museo.
Dopo aver parlato del punto di vista degli europei, voglio soffermarmi sul punto di vista dei non europei. Qui è il caso di distinguere fra turisti ricchi e rifugiati poveri. Per i rifugiati poveri in fuga, l’Europa è la Terra Promessa. I giovani sognano l’Europa, un continente dove non si corra il rischio di morire, dove lavorare e studiare.
L’Europa è un semplice museo soltanto per i turisti ricchi. Questo museo include anche le stradine medievali, le case, in altre parole la storia. E il gusto del cibo, del vino, il colore del cielo. Fra le migliaia di turisti, ce ne saranno sempre almeno tre che cominceranno a contemplare, che non vedranno soltanto il passato dell’Europa reificato nei musei, ma anche il presente vivo e il futuro. L’utopia, o per usare le parole di Adorno, «la promessa di felicità».
Torniamo ai tre utilizzi dei musei nel senso più ampio del termine: contemplazione, ispirazione e innovazione. L’innovazione, intesa come creazione non semplicemente di grandi opere d’arte, ma anche come creazione di nuovi stili e scuole, non è più possibile, almeno così sembra. La nostra tanto amata creatività ora la condividiamo con altre persone nel mondo.
L’Europa diventerebbe un puro e semplice museo se dovesse scomparire anche la fantasia, lo spirito creativo degli europei, se gli europei dovessero limitarsi a starsene seduti sugli antichi allori, se l’ispirazione ricevuta dal passato dovesse lentamente morire, se la democrazia liberale dovesse diventare una questione di abitudine.
Sì, l’Europa potrebbe diventare un semplice “museo all’aria aperta”: ma speriamo che non accada. (L’autrice è una filosofa ungherese Traduzione di Fabio Galimberti)

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