lunedì 19 maggio 2014

Le Metamorfosi tradotte da Sermonti


Vi spiego perché Ovidio è un gioco da ragazziIl volume con la traduzione commentata delle “Metamorfosi” Nell’estratto che qui pubblichiamo la rilettura in chiave giovanile del mito di Narciso
di Vittorio Sermonti Repubblica 19.5.14


Guardiamoci negli occhi, amico mio: il problema non è perché mai io abbia tradotto le Metamorfosi di Ovidio, e le abbia tradotte proprio così. Ma il problema vero francamente mi sembra un altro: perché mai tu dovresti leggerle, queste Metamorfosi di Ovidio? Potrei dire: leggitele, e poi mi rispondi! Ma se tu mi chiedessi - richiesta più che ragionevole, data anche la stazza del volume - chi te lo fa fare, suggerirti una risposta su due piedi non sarebbe la cosa più semplice del mondo. [...]E allora? Allora mi prenderò il lusso di semplificare: le Metamorfosi sono un libro sull’adolescenza, un dizionario mitologico dell’adolescenza che canta il corpo dell’uomo in mutazione incarnandolo in figure letterarie. Vuoi che semplifichi ancora di più esemplificando? Prendi il famoso Narciso. Chi è, che cos’è “Narciso”? È, come saprai anche tu, il nome di un ragazzo bellissimo, figlio di un fiume e di una ninfa, che specchiandosi nell’acqua d’un laghetto si innamora della propria immagine; ma è anche quella categoria clinica, che consiste appunto in un esclusivo, maledetto amore di sé (mai sentito parlare di narcisismo? mai praticato?); ma è anche un fiore color zafferano con i petali bianchi. La metamorfosi si compie all’interno di un nome. Un ragazzo diventa una sindrome che diventa un fiore, restando disperatamente l’io che era. Innamorato, spaventato di sé.

Le Metamorfosi di Ovidio sono proprio il poema dell’adolescenza come esperienza della labilità e vulnerabilità dell’identità, mentre il tuo corpo non fa che cambiare, che cambiare te stesso sotto i tuoi stessi occhi. E tu non sai più chi sei. Vorresti amarti di più, ma non sai chi dovrebbe amare e chi vorrebbe essere amato. E senti il tremore della «inespugnabile solitudine» che punisce ogni bellezza, che ogni bellezza si merita. Ma l’illusione non demorde: il ragazzo Narciso sa bene di essere lui l’oggetto del proprio amore, e ne muore lo stesso; va nell’Ade e continua a specchiarsi nell’acqua del fiume Stige. L’illusione si illude.
Assumere però il bel Narciso a prototipo dell’eroe in mutazione è un arbitrio come un altro. Perché nel nostro libro le mutazioni ininterrottamente si accavallano ricorrendo il più delle volte a qualche inattendibile pretesto: una omonimia, un doppio innamoramento simultaneo, una coincidenza topografica... ed ecco sgranarsi un incredibile assortimento di storie, scandite da scarti di timbro, aritmie, modulazioni, tracciate talora da un’ironia micidiale, sull’orlo talora del gossip, dove dèi bugiardi ed erotomani ed eroi o eroine spesso assai discutibili ragionano le loro pulsioni cieche con cavillosità avvocatesca; dove però ad ogni passo può spalancarsi il crepaccio della tragedia o, comunque, una smorfia del racconto che assecondi il nostro bisogno segreto di mostri...
Ma ripensando l’impressione che mi fa la baraonda di queste favole a ripensarle tutte in una volta, vedo semmai il disordine che instaura un bambino quando, in una stanza dove ne ha fatte di tutti i colori, tenta di ripristinare l’ordine senza ricordarsi bene dove erano gli oggetti, né perché fossero lì: ordine mirato a realizzare puntigliosamente un “effetto ordine”, che rappresenta insieme la perfezione e la parodia di ogni perfezione. Come “effetto” passi, ma non scherziamo!
Alla resa dei conti, sia ben chiaro, tutta la strepitosa messinscena delle Metamorfosi di Ovidio non ha nulla di puerile, e tanto meno di adolescenziale. Anzi, è governata da un geniale uomo di mondo, che naturalmente non crede a quello che racconta (additandoli come responsabili di tutto quello che capita in cielo in terra e in mare, egli non manca di precisare che i suoi dèi è molto probabile non esistano affatto), ma gli piace far finta che tu ci creda (sapendo naturalmente che non ci credi neanche tu), e così con la leggerezza, con l’irresponsabilità di un canto spiegato, facendo onore al delicato nonsenso di essere sempre quelli stessi che siamo diventando continuamente altri, ci fornisce una scheggia di verità sottratta alla opacità del reale, alla pedanteria della verisimiglianza: cioè la famosa, inutile, insostituibile poesia. Finché, d’accordo, non arriva la Vecchia Falciatrice (che in un modo o nell’altro arriva comunque) a renderci definitivamente il ricordo animale, vegetale, minerale di noi stessi. E quella di diventare un ricordo concreto di sé, almeno fin tanto che goccioleremo resina o mirra nella memoria di qualchedun altro, non è detto sia la più lugubre delle metamorfosi.
Coraggio, amico mio, chiunque tu sia, qualunque età ti succeda di avere! Prova! e se cominci, c’è anche caso che il compito obsoleto della lettura si trasformi, annaspando in questo assurdo capolavoro, in un vizio ostinato e sottile per il te sconosciuto che sei. E se è troppo sperare che il poema dell’adolescenza interessi anche qualche adolescente, io spero lo stesso.


Senza metamorfosi non c’è identità
I miti classici raccolti da Ovidio nel suo poema c’insegnano come sia illusorio pensare di conservare le proprie radici. Elevando barriere che ci mettano al riparo dal mutamento

Umberto Curi La Lettura

“Ovidio, la favola dell’adolescenza” 

«Ho tradotto i dodicimila esametri delle Metamorfosi: eventi e situazioni che toccano la fantasia dei ragazzi» 

Mirella Serri  Tuttolibri 20 settembre 2014
Due anni intensi, appassionati, eccitanti: «E’ stato uno dei lavori più piacevoli della mia vita. L’esperienza di correre dietro a questa lingua latina così precisa e barocca, sensuale e tragica, che però non si prende mai completamente sul serio, è stata travolgente». Ha l’entusiasmo contagioso di un ragazzino quando parla della sua fatica di traduttore uno dei maggiori interpreti del mondo classico, Vittorio Sermonti, 85 anni il 26 settembre, narratore, regista, attore, docente all’Accademia nazionale d’arte drammatica nonché celebre «the voice» della letteratura italiana (per anni ha affollato e conquistato le piazze d’Italia leggendo Dante e Virgilio). E non c’è dubbio: lo studioso di Dante i dodicimila esametri de Le metamorfosi di Ovidio (Rizzoli, € 21, pp. 846), li ha macinati con il passo allegro di un ventenne. Muovendosi con nonchalance e leggerezza, tra dramma e ironia, ne ha sviscerato i significati più remoti e ha riportato in vita il poema con linguaggio molto attuale e calato nel presente. 

Sermonti, con la sua traduzione-interpretazione lei ci fa capire che i riti e i miti di Ovidio - Narciso perso nell’attrazione per se stesso, Aracne punita per la superbia, Dafne oggetto di bramosia per Apollo, Mirra innamorata di suo padre - sono oggi più che mai vivi e operanti tra noi. E’ cosi?
«Narciso è un fanciullo attraente, figlio di un fiume e di una ninfa, che, specchiandosi nell’acqua di un laghetto, viene catturato dalla propria immagine; ma oggi Narciso è anche una categoria clinica ed è pure il nome di un fiore. Il poema di Ovidio è l’opera che meglio rappresenta l’età evolutiva, le mutazioni, la labilità e l’insicurezza che contraddistinguono i più giovani, il cui corpo non fa che cambiare sotto i loro stessi occhi». 
«Le metamorfosi» sono destinate a un lettore-ragazzo?
«Ovidio trasforma in favola tutto ciò che un adolescente elabora e nasconde. Parla di parricidi, stupri, incesti, libido. Racconta di situazioni ed eventi che toccano da vicino la fantasia dei ragazzi: così, per esempio, la masturbazione giovanile è uno stupro timido e solitario compiuto magari di fronte a un ritratto, a una fotografia di qualcuno che non ti desidera e che nemmeno ti conosce. Il tema della metamorfosi è poi un repertorio fondamentale nell’immaginario occidentale e ha alimentato tutta una splendida produzione di Bernini, Caravaggio, Poussin, Guido Reni. Attualmente ben raffigura le incertezze, la precarietà di un’epoca di crisi come questa in cui viviamo». 
Lei si è dichiarato un «bibliodipendente mai pentito». Legge il poeta latino in coincidenza con l’avvio del commento dantesco, poiché l’opera di Ovidio ne è il laboratorio, il luogo a cui Dante attinge abbondantemente per la «Commedia»? In questa catena di libri, l’interesse per Dante quando inizia?
«Risale a tempi lontani, quando avevo circa dieci anni e mio padre, toscano di origine, mi leggeva a voce praticamente tutta la Commedia. Però coltivavo con grande determinazione anche tanti personali momenti di lettura. Non solo Emilio Salgari, che era l’autore più diffuso tra i coetanei, ma anche Luigi Pirandello, cugino di secondo grado di mia nonna. Il primo approdo sono state le sue novelle. Il teatro delle maschere è arrivato successivamente. Quando mi presento all’esame di maturità a Roma, come allievo del Convitto nazionale, so parecchio di quel compìto personaggio che ricordavo in visita nella casa romana dei nonni per gli auguri di Natale. Più dei docenti pronti a interrogarmi. Dopo avermi ascoltato per una ventina di minuti, i professori entusiasti mi mettono dieci. Però avevo come riferimento anche altri scrittori, in quinta ginnasio traduco in versi Guglielmo Tell di Friedrich Schiller e mi conquisto un altro dieci, questa volta in tedesco. Guerra e pace è stato un libro da cui non riuscivo a staccarmi. Fin da ragazzo sentivo il fascino della recitazione, da William Shakespeare a Vittorio Alfieri. Uno dei miei autori di riferimento era Aleksandr Sergeevic Puškin con i poemi e il teatro, da Boris Godunov a Evgenij Onegin a Mozart e Salieri». 
Tutto cambia radicalmente?
«Non c’è dubbio. Con la famiglia ci trasferiamo a Milano. Una delle immagini indelebili è via Manzoni tutta sdentata, dove si alternavano gli edifici rasi al suolo e quelli bombardati e non ancora caduti. Sto cercando di scrivere un libro dedicato a quell’esperienza, di ripescare le sensazioni di un ragazzino che faceva il conteggio delle persone scomparse e registrava che a Brescia ce n’erano state 120 e 800 a Torino. Vivevo la mia adolescenza mentre si accumulavano 60 milioni di morti. All’epoca nutrivo una qualche insofferenza per la cultura fascista ma contemporaneamente ne ero dipendente. Non solo per via dei giornali di regime ma ero anche suggestionato dagli autori che andavano per la maggiore, come Friedrich Nietzsche». 
Nel dopoguerra?
«Entro alla Rai da cui poi mi licenzio pur continuando a collaborare sia come regista che come autore. Ho la fortuna di incontrare personaggi d’eccezione, da Roberto Longhi a Carlo Emilio Gadda. Quest’ultimo connotato da una personalità che difficilmente si dimentica. Capace di sfuriate terribili, molto misogino. Ma ce l’aveva anche con Ugo Foscolo per il tono enfatico della sua poesia, per il “maschiottismo”, ovvero per l’ostentazione della virilità la cui condanna e denigrazione darà poi vita a quel capolavoro di Gadda che è Eros e Priapo. Questa è stata l’opera veramente capace di mettere alla berlina il fascismo e le ossessioni del gallismo. Continuo poi a dedicarmi alle traduzioni e, in quegli anni, un posto di rilievo lo occupava Brecht che mi calamitava sia con le sue doti di semplificazione ideologica ma anche con le capacità di grande scrittore. Ma erano pure importanti Sartre, Wedekind, von Hofmannsthal».
Nel bicentenario leopardiano ha scritto un libretto d’opera; nel centenario di Giuseppe Verdi alcuni racconti estratti dalle partiture verdiane.
«Da ragazzo suonavo il pianoforte, strumento da cui ricavavo ben poca soddisfazione. Però forse avrei potuto dedicarmi al violoncello. Ascolto molta musica ma non mi piace andare ai concerti. Ma la cosa che mi attira di più è la musica della letteratura. Ovvero la metrica: ritengo di essere uno dei massimi esperti».

Sermonti, bravate lessicali nelle Metamorfosi per adolescenti
A proposito della traduzione del poema ovidiano proposta da Vittorio Sermonti per Rizzoli. Un giovane latinista ha letto questa versione espressamente rivolta «ai ragazzi incolti», e spiega, con una serie di esempi, perché Ovidio è stato travisato nel tono e nel lessico
di Giovanni Zago, il Manifesto 28.12.2014
Accom­pa­gnata da un coro pres­so­ché una­nime di lodi, oggetto di pre­sen­ta­zioni tele­vi­sive e let­ture radio­fo­ni­che, ha visto la luce lo scorso mag­gio, per i tipi di Riz­zoli, una nuova ver­sione ita­liana delle Meta­mor­fosi, rea­liz­zata da Vit­to­rio Ser­monti (Le Meta­mor­fosi di Ovi­dio, pp. 846, euro 21,00). Gli ampi con­sensi riscossi dal libro, di cui ho per le mani la seconda edi­zione, pub­bli­cata a giu­gno, impon­gono una valu­ta­zione non super­fi­ciale dei risul­tati otte­nuti dallo sforzo (senza dub­bio ingente) che il tra­dut­tore ha pro­fuso.
Il cor­poso volume si apre con una bre­vis­sima intro­du­zione scritta in uno stile for­te­mente diso­mo­ge­neo, che mescola triti cli­ché espres­sivi («Ovi­dio … è morto. W OVIDIO!»), sin­tagmi banali («folle imma­gi­na­zione», «legit­timo orgo­glio», «cavil­lo­sità avvo­ca­te­sca», ecc.), gergo sag­gi­stico («meta­fa­vola»), forme incon­suete nell’odierno ita­liano stan­dard («men­ti­sci»), invo­lu­zioni sin­tat­ti­che (si pensi al seg­mento sui lati­ni­sti: terzo capo­verso di pag. 11). Si cer­che­ranno invano infor­ma­zioni sulla vita e le opere di Ovi­dio, sui modelli let­te­rari, sullo stile e la metrica. Altra è la fina­lità di Ser­monti: egli ha con­ce­pito l’introduzione come un pro­tret­tico alla let­tura delle Meta­mor­fosi ovi­diane, pro­tret­tico che ha per desti­na­tari tanto i vec­chi quanto i gio­vani («Corag­gio, amico mio …, qua­lun­que età ti suc­ceda di avere! Prova!»), ma che è indi­riz­zato soprat­tutto agli ado­le­scenti, in pri­mis quelli incolti, ossia i ragazzi che, secondo la «socio­lo­gia più bril­lante e sbri­ga­tiva», non leg­gono «nem­meno il più stu­pido por­no­giallo da Auto­grill». Ser­monti sce­glie costoro come inter­lo­cu­tori pri­vi­le­giati per­ché crede che pos­sano essere i più sen­si­bili al fascino delle Meta­mor­fosi, da lui biz­zar­ra­mente defi­nite, in un impeto sem­pli­fi­ca­to­rio, «un libro sull’adolescenza, un dizio­na­rio mito­lo­gico dell’adolescenza che canta il corpo dell’uomo in muta­zione incar­nan­dolo in figure let­te­ra­rie».
Il prin­ci­pale eroe meta­mor­fico per Ser­monti è Nar­ciso, evo­cato anche dall’elaborazione gra­fica in coper­tina (uno sdop­pia­mento della miche­lan­gio­le­sca Testa con orec­chino, alte­rata al com­pu­ter). Ser­monti – si noti – legge l’episodio ovi­diano di Nar­ciso in chiave ‘nar­ci­si­stica’ («un ragazzo bel­lis­simo … diventa una sin­drome che diventa un fiore…»): una let­tura senza dub­bio fun­zio­nale all’interpretazione delle Meta­mor­fosi come «poema dell’adolescenza» (p. 16), ma in realtà distorta e defor­mante. Al cen­tro della sto­ria di Eco e Nar­ciso, come Ovi­dio la rac­conta (3, 339 sgg.), non c’è tanto, infatti, il tema dell’amore (‘nar­ci­si­stico’) di sé, quanto il motivo dell’apparenza ingan­ne­vole e dell’illusione. È que­sta una tra le non poche defor­ma­zioni d’Ovidio che carat­te­riz­zano il volume ser­mon­tiano.
Le pagine intro­dut­tive rive­lano scarsa con­si­de­ra­zione, direi anzi mal­ce­lato disprezzo per la filo­lo­gia latina, per la quale Ser­monti, con iro­nica con­di­scen­denza, esorta il let­tore a nutrire «tutto il rispetto e tutta la gra­ti­tu­dine che merita qual­siasi abne­ga­zione». Nelle sue parole, l’attività dei lati­ni­sti, e in par­ti­co­lar modo degli spe­cia­li­sti di Ovi­dio, sem­bra ridursi a un’indagine, meti­co­losa ma di fatto ste­rile, sull’impianto com­po­si­tivo delle Meta­mor­fosi. Ora, i lati­ni­sti svol­gono effet­ti­va­mente – non v’è dub­bio – ana­lisi di que­sto tipo, ma fanno anche altro, molto altro, e prima di tutto cer­cano di inter­pre­tare ret­ta­mente il testo dell’opera oggetto delle loro cure. Dei risul­tati rag­giunti dalla plu­ri­se­co­lare tra­di­zione di studi critico-testuali ed ese­ge­tici sulle Meta­mor­fosi Ser­monti si sarebbe senz’altro potuto gio­vare, se li avesse valu­tati con mag­gior equi­li­brio, e ciò non avrebbe affatto peg­gio­rato il suo libro. A causa dell’ostentato disin­te­resse per la filo­lo­gia, invece, egli priva i let­tori di nozioni essen­ziali, cosa tanto più grave in quanto si rivolge, come abbiamo osser­vato, soprat­tutto ai semi­colti e agli incolti. Ser­monti non dice, ad esem­pio, che delle Meta­mor­fosi (così come di ogni altra opera clas­sica) non ci è per­ve­nuto l’originale, e che ne cono­sciamo il testo solo gra­zie a una plu­ra­lità di mano­scritti che sono copie di copie, mano­scritti i quali spesso tra­man­dano lezioni inac­cet­ta­bili, che devono essere emen­date dal filo­logo, o lezioni diver­genti l’una dall’altra (tec­ni­ca­mente ‘varianti’), tra le quali deve essere effet­tuata una scelta. Non solo, ma Ser­monti non spe­ci­fica nep­pure da quale edi­zione scien­ti­fica ha desunto il testo latino che la sua tra­du­zione pre­sup­pone, testo che, per giunta, non sem­pre col­lima con il testo ovi­diano stam­pato a fronte, privo di appa­rato cri­tico così come la ver­sione ita­liana è priva di note espli­ca­tive. Ecco, ad aper­tura di libro, alcune tra tali incon­gruenze: met. 1, 91–92: Ser­monti scrive «leg­ge­vano», che pre­sup­pone lege­ban­tur, ma nel testo a fronte tro­viamo liga­ban­tur; 1, 728: S. tra­duce «atter­rita», che pre­sup­pone ter­ruit, ma il testo a fronte reca exer­cuit; 2, 324: S. rende «che fuma» (fuman­tia­que), ma nel testo latino è stam­pato fla­gran­tia­que; 7, 792: S. rende «latri» (latrare), ma il testo a fronte ha cap­tare; 11, 523: S. tra­duce «(per quanto) le onde lam­peg­gino», avendo quindi sotto gli occhi arde­scunt … undae, ma nel testo a fronte è pre­sente arde­scunt … ignes. Ed ecco alcuni refusi, che ren­dono inin­tel­li­gi­bile il latino ovi­diano: con­cla­mato per con­cla­mat. (7, 844); imi­tat per inri­tat (8, 418); adisse per odisse (10, 314).
Veniamo ora alla tra­du­zione, metri­ca­mente diso­mo­ge­nea, in quanto alterna ‘esa­me­tri neo­clas­sici’ riu­sciti piut­to­sto bene, ossia versi quali 11, 516 («ecco le nubi squa­gliarsi in immani rove­sci di piog­gia»), assi­mi­la­bili al pasco­liano «tuf­fano il bronzo: rim­bomba d’un suon d’ancudine l’Etna» (si ricor­dino le Regole di metrica neo­clas­sica del Pascoli), a ‘esa­me­tri neo­clas­sici’ imper­fetti e seg­menti di pura prosa, in cui l’‘a capo’ appare deter­mi­nato solo dal desi­de­rio di ripro­durre il con­te­nuto dei sin­goli esa­me­tri ovi­diani. Pre­scin­dendo dalla metrica (il fatto che un’opera di poe­sia venga tra­dotta in versi diso­mo­ge­nei o anche in prosa non è, ovvia­mente, cen­su­ra­bile in sé), si deve pur­troppo con­sta­tare che la qua­lità della ver­sione ser­mon­tiana è dav­vero delu­dente: una cono­scenza forse non ade­guata della lin­gua latina e lo scarso inte­resse, già sot­to­li­neato, per l’acribia filo­lo­gica, hanno cau­sato, infatti, una lunga serie di impre­ci­sioni, frain­ten­di­menti, tra­vi­sa­menti. Così, ad esem­pio, uinc­tae cor­tice uir­gae (1, 122), ossia «ver­ghe legate da cor­tec­cia» (con rife­ri­mento alla costru­zione di rudi­men­tali capanne), diventa nella resa ser­mon­tiana «fra­sche ammuc­chiate l’una sull’altra» (gia­ci­gli?); index … lin­gua … refert audita susurra (7, 825–6), cioè «il dela­tore … rife­ri­sce le cose udite con lin­gua sus­sur­rante», diviene «il dela­tore quanto ha ascol­tato le risus­surra» (per­ché «risus­surra»? Da dove si desu­me­rebbe che il dela­tore ha udito bisbi­gli?); poco dopo (7, 834), indi­cio­que fidem negat («e nega fede alla dela­zione») si tra­muta in «ricusa le prove»; in 8, 528, plan­gun­tur, ovvero «si bat­tono il petto», diventa «urlando da (sic) dispe­rate».
In mol­tis­simi altri luo­ghi, Ser­monti sem­bra aver colto il senso del testo, ma, nella tra­du­zione, deforma Ovi­dio (per dare alla resa un ritmo più accat­ti­vante? Per stu­pire con bra­vate les­si­cali un po’ kitsch?). Così, per esem­pio, silua­sque tenent del­phi­nes (1, 302), ossia «e i del­fini occu­pano le selve», diventa «i del­fini par­cheg­giano (sic) nelle fore­ste»; iuue­nali … pugno (3, 626) diviene «col suo manone di ferro», e uario … uul­nere (10, 375) «da tante maz­zate». La raf­fi­na­tis­sima espres­sione di 4, 777, carat­te­riz­zata da duplice enal­lage, siluis hor­ren­tia saxa fra­go­sis («rocce irte di selve sco­scese»), diviene, in lin­gua ser­mon­tiana, «rupi sca­pi­gliate (sic) d’aspre bosca­glie». Per l’irresistibile influsso di un sin­tagma nazio­nal­po­po­lare iuuen­tus (10, 316) si tra­sforma in «la meglio gio­ventù». Nel tra­durre 15, 141, Ser­monti scrive «nel met­tere sotto i denti costate di manzo». E per­ché non con­tro­fi­letti o trippa? Ovi­dio ha evo­cato gene­ri­ca­mente boum … cae­so­rum mem­bra («le mem­bra di buoi ammaz­zati»). Meglio inter­rom­pere qui la disa­mina, da cui risul­terà – temo – che chi cer­casse una tra­du­zione affi­da­bile delle Meta­mor­fosi dovrebbe tenersi alla larga da que­sto libro, il quale forse pia­cerà agli esti­ma­tori della scrit­tura di Ser­monti, ma stenta a resti­tuire bar­lumi del vero Ovidio.

Nessun commento: