mercoledì 7 maggio 2014

Pietro Ingrao monocameralista e precursore di Matteo Renzi, Norberto Bobbio difensore della democrazia moderna




Pietro Ingrao: Crisi e riforma del Parlamento, Ediesse

Risvolto
L’aspetto più impressionante dei saggi di Pietro Ingrao qui pubblicati – risalenti tutti al biennio 1985-1986 – è la distanza abissale che essi consentono di misurare tra l’Italia di allora e l’Italia di oggi e, al tempo stesso, la loro straordinaria attualità. Distanza dall’Italia odierna e attualità di questi scritti dipendono dal fatto che i fattori di crisi delle istituzioni rappresentative in essi analizzati erano infinitamente meno gravi di quelli che stanno oggi svuotando e demolendo la nostra democrazia. E tuttavia essi sono tutti, in questi scritti di trenta anni fa, lucidamente avvertiti e denunciati, con incredibile lungimiranza.
Nel passaggio da un corpo legislativo all’altro gli interessi corporativi hanno infiniti modi di far sentire la loro pressione. Domando: ma perché tutto questo? Perché non andare a una delle riforme «più decisioniste» che si possono dare oggi e cioè a una camera unica? Ecco l’attualità della riforma.


Dialoghi Il filosofo e il leader della sinistra discutono di riforme, bicameralismo e partiti. Un confronto dell’85 ancora attuale
Quale democrazia per l’Italia?
Anticipiamo stralci di un carteggio tra Norberto Bobbio e Pietro Ingrao, svoltosi tra novembre ’85 e gennaio ’86, sulle riforme istituzionali e la democrazia. I testi fanno parte del volume «Crisi e riforma del Parlamento» (che raccoglie gli scritti di Ingrao) in libreria da domani per la Ediesse.
l’Unità 6.5.14

CARO INGRAO, 
LAPROPOSTA, DA TE FATTA NEL RECENTE CONVEGNO DEL CENTRO PER LA RIFORMA DELLO STATO DI «UN’ASSEMBLEA costituente per la riforma della Costituzione», fondata su «un nuovo compromesso istituzionale» (così leggo in «l’Unità » del 30 ottobre) ha destato incredulità e sorpresa. Condivido la incredulità ma non la sorpresa. Che oggi esistano le condizioni per una politica di alleanze indirizzata principalmente alla riforma costituzionale, direi proprio di no. Però è certo, e per questo non sono sorpreso, che se la riforma della Costituzione si dovesse fare, non potrebbe farsi se non attraverso un ampio e durevole compromesso politico. Su questo punto hai perfettamente ragione. Ma proprio perché hai ragione la riforma non si farà: la condizione che tu poni, la creazione di una sorta di nuova Assemblea costituente, è una condizione impossibile, almeno per ora. 
Non sono sorpreso anche per un’altra ragione. In questa tua proposta intravedo, lo dico un po’ provocatoriamente, una certa nostalgia per una unità perduta, poi sempre di nuovo perseguita, quasi raggiunta, quindi riperduta. Non sono mai riuscito a capire le precise ragioni di questa corsa affannosa verso una non raggiunta e irraggiungibile unità, perché, se è vero che la nostra Costituzione è nata da uno sforzo unitario delle varie parti politiche che avevano combattuto il fascismo, la forma di governo che ne è derivata è la democrazia parlamentare, e il governo parlamentare si regge non sull’unità ma sulla distinzione, non su una fittizia unanimità masulla regola della maggioranza, e sulla conseguente contrapposizione tra maggioranza e minoranza. (...) Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario. Pluralismo significa non soltanto che vi sono (debbono esservi) molte forze in gioco, ma anche che tra queste forze vi è (deve esserci) concorrenza e quindi conflitto, e pertanto ogni compromesso è sempre parziale e provvisorio, e l’unità non è facilmente perseguibile e nemmeno benefica. (...) 
Forzo un po’ la mia argomentazione perché mi preme sapere, e penso prema anche a te, se siamo d’accordo sul modo d’intendere la democrazia. Non da oggi, sono convinto che una delle ‘peculiarità’ dei comunisti, sulle quali abbiamo consumato montagne di carta stampata, sia proprio il modo d’intendere la democrazia. Del resto è su questo tema che ci siamo incontrati e scontrati altre volte. (...) La prima riflessione che dovremmo fare riguarda quelli che io ho chiamato altrove i ‘vincoli’ della democrazia. Abbiamo creduto che con la democrazia si potesse fare tutto. No, con la democrazia non si può fare tutto. È già accaduto che, volendo tutto, non si è ottenuto niente, e per giunta si è perduta anche la democrazia. Quali sono questi vincoli? Anzitutto ci sono alcuni principi che vengono dalla tradizione del pensiero liberale, e che abbiamo convenuto di considerare irreversibili, quali i diritti di libertà, in generale i diritti civili: sono i principi senza i quali le stesse regole del gioco non possono essere applicate. Poi ci sono appunto le regole del gioco, le regole in base alle quali vengono prese le decisioni collettive in un certo modo piuttosto che in un altro: regole del gioco democratico sono quelle che presiedono alle trattative che si concludono, quando si concludono, con un accordo, e quella che stabilisce che quando l’accordo non è possibile (il che vuol dire che la decisione non può essere presa all’unanimità) s’intende per decisione collettiva quella presa a maggioranza. (...) 
Il linguaggio politico è pieno, come si sa, di parole al cui significato emotivo fortissimo corrisponde un significato descrittivo debolissimo. A me pare che una di queste parole sia massa. (...) Sempre restando entro l’ambito della definizione procedurale di democrazia, sarei curioso di sapere che cosa si possa mai intendere per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale, in buona sostanza che cosa si dica di più e di meglio quando si parla di democrazia di massa rispetto a quel che si intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto. È vero che un’espressione che tu usi frequentemente come «irruzione delle masse nello Stato» fa pensare a un fiume tumultuoso che rompe gli argini e spazza e travolge tutto ciò che trova nel suo corso, ma si tratta di un’espressione figurata con la quale non si vuol dire altro, a mio vedere, se non che i cittadini, oltre al diritto di voto, hanno anche quello di fare manifestazioni sulle pubbliche piazze. Ma che cosa sono queste manifestazioni se non la naturale conseguenza del diritto di riunione sancito da qualsiasi Costituzione liberal- democratica e anche dalla nostra? Prima che fosse riconosciuto il diritto di riunione una manifestazione di massa sarebbe stata condannata come ‘tumulto’ e la folla ivi radunata sarebbe stata considerata una ‘turba’. (...) Il concetto di democrazia, nel suo senso storicamente più corretto, ame pare sia incompatibile col concetto di massa che fa pensare a un corpo collettivo insieme amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo che nella sua essenza o sostanza personale si distingue da tutti gli altri. (...) 
In una democrazia non ci possono essere masse: ci sono, o individui, oppure associazioni volontarie composte da individui come i sindacati e i partiti. Mi domando, insomma, se il termine ‘massa’, oltre il significato emotivo che, come ho detto, è ambiguo, possa avere anche un significato descrittivo che serva a fare capire meglio che cosa sia la democrazia, e a contraddistinguere un tipo di democrazia (la democrazia di massa) dal tipo di democrazia tramandato dal pensiero liberale e democratico che chiamerei semplicemente ‘democrazia dei cittadini’. L’unico significato di democrazia di massa, che traspare anche dai tuoi scritti, è quello di democrazia senza ‘delega’, una parola che ha quasi sempre nel linguaggio della sinistra estrema un significato peggiorativo. Ma che cosa è la democrazia senza delega se non la democrazia diretta o la democrazia assembleare o quella in cui tra elettori ed eletti vien meno il divieto di mandato imperativo? Vogliamo allora sostituire alla rappresentanza politica la rappresentanza degli interessi? Discutiamone pure ma non copriamo un problema di diritto costituzionale, tutt’altro che nuovo d’altronde, con un linguaggio che non lascia capire di che cosa esattamente stiamo parlando. Sia ben chiaro: queste mie osservazioni nei riguardi di un modo di parlare di democrazia in cui non mi riconosco, non debbono essere interpretate come un rifiuto di vedere i difetti della nostra convivenza democratica e i problemi non risolti. (...) Ritengo però che per cominciare un dialogo fruttuoso su questi errori e su queste colpe occorra prima di tutto sgombrare il campo dai falsi problemi, dai possibili malintesi, dalle risposte illusorie, e prendere la democrazia per quello che è e non per quello che abbiamo creduto che fosse da neofiti con molte speranze, fortissimi desideri e scarsa conoscenza del mondo. Con rispetto e con la più viva cordialità.

CARO BOBBIO, 
SEGUO L’ORDINE DELLA TUA LETTERA. E PARTO DALLA PROPOSTA DI UN GOVERNO COSTITUENTE (È CHIARO CHE ‘GOVERNO COSTITUENTE’ PRETENDE DI ESSERE SOLO un’immagine: non mi sogno mica di proporre che sia il governo a fare la Costituzione...). So che tu in proposito sei, più che incredulo, ‘miscredente’. Ma non mi è chiaro un punto: tu consideri la riforma desiderabile, ma non fattibile; oppure ritieni che si debbano lasciare le cose come stanno, perché così stanno bene (o almeno piuttosto bene), o perché - pur stando parecchio male - non vedi strada per cambiarle? Ti pongo questa domanda perché, ancora nel nostro dialogo pubblico a Torino, tu sollecitasti molto caldamente una riforma non piccola: il cambiamento del sistema elettorale, come problema di oggi, tema concreto ed attuale di questo momento. So bene che il sistema elettorale non sta nella Costituzione, e non ha bisogno perciò di procedure straordinarie per il suo cambiamento. Ma questo non toglie nulla al peso costitutivo che esso ha nel sistema politico generale. E nessuno potrebbe ragionare su quella riforma senza fare riferimento subito al tipo di Parlamento, o al rapporto tra Parlamento ed esecutivo, o al nesso (oppure no) con sistemi di democrazia diretta, o all’incidenza sul sistema dei partiti che il cambiamento proposto comporta. 
Ecco allora la mia domanda. Tu davvero pensi che sia possibile oggi scorporare questa delicatissima e così intrigante questione dall’insieme della riforma istituzionale? Ritieni che ci sia una forza politica oggi in Italia disponibile ad accettare di discutere una riforma elettorale così scorporata, e fuori dal contesto? Insomma a me sembra che tu stesso - sia pure da ‘miscredente’ - al momento in cui poni sul tappeto la questione della riforma elettorale, dai conferma dell’attualità di una riforma delle istituzioni. (...) Si è costituita, più di un anno e mezzo fa, una commissione bicamerale composta di quarantuno membri, designati da tutti i partiti rappresentati nel Parlamento nazionale. La commissione ha avuto come esplicito mandato non solo di studiare, ma di formulare proposte di revisione istituzionale. (...) Sono stati confrontati programmi. Sono state delineate soluzioni. E allora bisogna pensare che o quei quarantuno della commissione Bozzi erano impazziti e si divertivano ad un gioco senza senso; oppure è vero che la riforma istituzionale è entrata nell’agenda politica. Essa si è bloccata anche e proprio per la difficoltà di procedere per ‘tavoli separati’: con un governo che sul suo tavolo tendeva a procedere a una riforma di fatto, a mutare, per colpi di forza, almeno alcuni dei delicatissimi equilibri fra esecutivo ed assemblee. Ed allora ecco la questione: si può discutere e decidere di riforma istituzionale, mancando un quadro politico che crei le precondizioni della sua realizzabilità e dia alle diverse parti le garanzie politiche perché quel compito possa essere assolto? Io non lo credo. 
Qui è la ragione, il senso del ‘governo costituente’. Tu vedi in esso l’ossessione dell’unità ad ogni costo. Al contrario. Io ho parlato di una iniziativa a termine, che ha il dichiarato obiettivo di superare il blocco della democrazia esistente oggi in Italia e di aprire la strada a un processo di alternanza e a strategie alternative. Si può soprassedere? (...) Spesso mi sono sentito dire: «Ma perché riforme istituzionali? Ci sono tante cose da fare». Io rovescio il ragionamento: come fare tante cose urgenti, senza riforme istituzionali? Come affrontare il tema del tutto inedito di una disoccupazione massiccia connessa all’innovazione e allo sviluppo, senza dare una dimensione sovranazionale a tutta una serie di funzioni, e al tempo stesso decentrarne con audacia tante altre all’interno degli Stati nazionali, riformando da due parti la macchina dello Stato? Come gestire la trasformazione dell’economia senza ripensare la struttura del governo? Rischiamo di stare fermi persino sulle questioni ultramature: perché raddoppiare inutilmente il tempo di elaborazione delle leggi (con i connessi giochi trasformistici), in un bicameralismo parlamentare che non sta più in piedi? (...) 
Tu stesso dici di individui che si raccolgono in associazioni volontarie quali i partiti e i sindacati. E perché allora mi chiedi spiegazioni circa la democrazia di massa? Questa è la moderna democrazia di massa, se poco poco mettiamo mente a ciò che è diventata, in un insieme sempre più vasto di paesi, la trama dei partiti, la rete dei sindacati, lo sviluppo di movimenti sociali nettamente diversi anche da partiti e sindacati: i ‘verdi’, le donne, i pacifisti, i movimenti giovanili. E si dà anche una rete di associazioni che non hanno un volto di rivendicazione generale, ma un proclamato carattere corporativo, o addirittura di lobby. Possiamo noi oggi ragionare sugli ‘individui’, senza vedere le loro connessioni con questa trama associativa che fa la storia politica moderna? E non so proprio vedere i partiti solo come una somma di individui: altrimenti sarebbero solo un elenco di elettori. E invece noi abbiamo conosciuto partiti che prevedono attività continue, che si strutturano organizzativamente, che si danno ideologie e progetti, e discutono di strategie politiche per realizzarli. Abbiamo visto gli stessi sindacati ambire a rivendicare il volto di ‘soggetto politico’. E la ragione di questo cammino - lo sai cento volte meglio di me - sta nel fatto che determinati individui hanno sentito che non bastava il certificato elettorale né la regola di maggioranza, e nemmeno il diritto di presentare insieme liste di candidati. Ed hanno pensato insieme al durare di un programma, di iniziative comuni, di vincoli reciproci, che si prolungavano prima e dopo il voto. Perché allora non dovremmo parlare di società di massa, al di là del significato valutativo che si voglia dare a questo termine? (...). 
Insomma, il problema di una espansività della democrazia mi sembra dominare il secolo, e non è riducibile alla questione del suffragio universale e del principio di maggioranza, ma va oltre di essi. Si tratta dei contenuti della democrazia e della storicità delle sue forme. Altrimenti perché sarebbe stato scritto l’articolo 3 della nostra Costituzione e quel capoverso sugli ostacoli all’accesso dei lavoratori alla direzione politica del paese? (...) E però lasciami dire che trovo un po’ forzata e deviante la tua imputazione ai comunisti di una ossessione unitaria. L’assillo unitario è una ragione dell’egemonia. Ma il quadro è conflittuale: anzi parte dalla convinzione di contraddizioni antagonistiche. Togliatti quando parla dell’unità lo fa in ragione di un conflitto, che a suo vedere spacca il mondo e le cose: è l’unità in funzione di una lotta. E il compromesso stesso, come accordo, è visto come parte di una lotta. Con l’antica stima.


L’assillo inascoltato di Pietro Ingrao
Saggi. «Crisi e riforma del parlamento» di Pietro Ingrao per Ediesse. Pubblicati i saggi del dirigente comunista scritti nella metà degli anni Ottanta sulla necessaria innovazione del sistema istituzionaleClaudio de Fiores, 17.7.2014 il Manifesto

Crisi e riforma del Par­la­mento è il titolo di un volume, curato da Maria Luisa Boc­cia e Alberto Oli­vetti (Ediesse, euro 14), che rac­co­glie alcuni con­tri­buti di Pie­tro Ingrao sullo stato delle isti­tu­zioni ita­liane. L’arco di tempo della pro­du­zione ingra­iana che il volume prende in esame è il bien­nio 1985–1986. Un arco di tempo alquanto deli­mi­tato, ma tut­ta­via essen­ziale per com­pren­dere gli svi­luppi della que­stione isti­tu­zio­nale in Ita­lia. Que­stione quanto mai dif­fi­cile e tor­men­tata, soprat­tutto se posta in ter­mini ingra­iani. Le rifles­sioni dell’esponente comu­ni­sta sulle «nuove risorse del muta­mento isti­tu­zio­nale» appa­iono infatti per­meate da un assillo insi­stente e grave che per­vade, pagina dopo pagina, l’intero volume: come riaf­fer­mare la cen­tra­lità del Par­la­mento e quindi della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in una società di massa fram­men­tata e in con­ti­nua tra­sfor­ma­zione.
Un «assillo» che Ingrao declina con straor­di­na­ria abi­lità, tenendo ben pre­sente il con­te­sto, le sedi, gli inter­lo­cu­tori. Una polie­dri­cità di accenti e di sfu­ma­ture che spinge il let­tore a misu­rarsi con le diverse dimen­sioni dell’agire pub­blico ingra­iano: l’Ingrao giu­ri­sta (autore della rela­zione su «potere e poteri nell’esperienza giu­ri­dica ita­liana» all’Istituto di diritto pub­blico de «La Sapienza»); il teo­rico della poli­tica (pro­ta­go­ni­sta con Nor­berto Bob­bio di un sug­ge­stivo con­fronto epi­sto­lare su demo­cra­zia, ege­mo­nia e masse); il Pre­si­dente del Crs (con la sua rela­zione pro­gram­ma­tica al con­ve­gno annuale dell’associazione del 1986); il lea­der di par­tito (arte­fice della discussa mozione «per un governo costi­tuente» al XVII Con­gresso del Pci).

Lo stato della Repubblica
Punto di snodo della rifles­sione di Ingrao è la cen­tra­lità del Par­la­mento così come voluta e deli­neata dalla Carta repub­bli­cana. Una costru­zione com­plessa e arti­co­lata, desti­nata a intrec­ciarsi inti­ma­mente con le sorti della Costi­tu­zione e pro­tesa a fare del Par­la­mento «il luogo cen­trale, la sede diri­gente e di equi­li­brio, in cui pos­sono ricom­porsi i fili dell’opera nuova da com­piere». Una vera e pro­pria opzione «costi­tuente» che traeva la sua legit­ti­ma­zione non dalle sedu­zioni dell’ingegneria costi­tu­zio­nale (oggi così di moda), ma dalla sto­ria del paese, dai pro­cessi di tra­sfor­ma­zione dello Stato, dalla forza poli­tica assunta dai par­titi di massa durante la Resi­stenza. Solo il Par­la­mento avrebbe potuto, in altre parole, offrire una trama com­piuta alla Repub­blica ope­rando quale impre­scin­di­bile asse di «col­le­ga­mento diretto fra Stato, isti­tu­zioni e i par­titi poli­tici che erano stati i pro­ta­go­ni­sti della Resistenza».
Ecco per­ché Ingrao dif­fida di che vede «nella carat­te­riz­za­zione par­la­men­tare della forma di governo (ita­liana) una pura pro­ie­zione di modelli di altri paesi occi­den­tali». Ed ecco per­ché cri­tica quelle com­po­nenti del pen­siero libe­rale che non hanno mai com­preso che la cen­tra­lità del par­la­mento, più che un vezzo «ideo­lo­gico» della sini­stra, era la rispo­sta a «inte­ressi quanto mai cor­posi e spe­ci­fici della situa­zione ita­liana» così come sto­ri­ca­mente deter­mi­na­tasi.
Il Par­la­mento non costi­tui­sce insomma per Ingrao una delle tante arti­co­la­zioni della demo­cra­zia costi­tu­zio­nale (al pari di Governo, Capo dello Stato, Corte costi­tu­zio­nale). Ai suoi occhi il Par­la­mento è la demo­cra­zia costi­tu­zio­nale. E finan­che le loro sorti sono inti­ma­mente legate.
È da qui che prende avvio la sua ori­gi­nale rico­stru­zione della sto­ria costi­tu­zio­nale repub­bli­cana (che altro non è, per Ingrao, che la sto­ria del Par­la­mento): dall’ostruzionismo della mag­gio­ranza (cul­mi­nato nella ste­sura della legge elet­to­rale mag­gio­ri­ta­ria del 1953) alle lotte per l’attuazione della Costi­tu­zione (svi­lup­pa­tesi a ridosso delle mobi­li­ta­zioni poli­ti­che e sociali del bien­nio 1968–69). E poi ancora: dallo Sta­tuto dei lavo­ra­tori del 1970 all’affermazione delle poli­ti­che con­ser­va­trici nei primi anni Ottanta.
Con la vit­to­ria della That­cher e di Rea­gan la rea­zione capi­ta­li­sta torna nuo­va­mente in campo in tutto l’Occidente. E Ingrao ne evi­den­zia anzi­tempo la dimen­sione «glo­bale»: «mani­po­la­zione mon­diale dell’informazione e della cul­tura; scelte tec­no­lo­gi­che che inci­dono nel rap­porto mil­le­na­rio tra uomo e ambiente…; mano­vre finan­zia­rie che ridi­stri­bui­scono risorse e con­di­ziono eco­no­mie su scale mon­diale; redi­stri­bu­zione di potere: fra aree del mondo, all’interno stesso dell’area occi­den­tale, fra nazioni e all’interno delle diverse nazioni».
Tutto ciò avrebbe avuto le sue rica­dute anche sul piano costi­tu­zio­nale. Sono que­sti gli anni in cui il sistema poli­tico e isti­tu­zio­nale ini­zia (sem­pre più visi­bil­mente) a dare segni di cedi­mento: le dina­mi­che dei poteri subi­scono un’alterazione pato­lo­gica senza pre­ce­denti e a fronte di una isti­tu­zione par­la­men­tare desti­nata dive­nire sem­pre più ese­cu­tiva («ridotta solo a met­tere tim­bri») il governo, di con­verso, ten­derà sem­pre più ad assu­mere i con­no­tati di un legi­sla­tore (abu­sivo). I feno­meni dege­ne­ra­tivi denun­ciati da Ingrao sono gli stessi feno­meni che per­va­dono oggi le isti­tu­zioni par­la­men­tari: dall’utilizzo smo­dato della «decre­ta­zione d’urgenza, all’uso del voto di fidu­cia … alla messa in mora dell’iniziativa legi­sla­tiva par­la­men­tare».
Le inno­va­zioni di sistema fino a oggi spe­ri­men­tate più che risol­vere hanno ulte­rior­mente aggra­vato le pato­lo­gie dell’ordinamento isti­tu­zio­nale ita­liano: ver­ti­ca­liz­za­zione del con­senso, per­so­na­liz­za­zione della poli­tica, incre­mento del tasso di cor­ru­zione nelle ammi­ni­stra­zioni pub­bli­che, cre­scente esa­spe­ra­zione dei rigur­giti «par­ti­to­cra­tici» (senza più par­titi).
Tutto ciò poteva essere evi­tato? Per Ingrao i pro­cessi di tra­sfor­ma­zione della società, venu­tisi con­so­li­dando nel corso degli anni Ottanta, indu­ce­vano cer­ta­mente a un ripen­sa­mento degli assetti poli­tici e costi­tu­zio­nali. Ma la dire­zione, i con­te­nuti, gli sboc­chi di tali istanze rifor­ma­trici avreb­bero dovuto però essere diversi. Per il diri­gente comu­ni­sta era cioè pos­si­bile imma­gi­nare e pra­ti­care altre riforme del sistema poli­tico e costi­tu­zio­nale. Ad assu­mere l’iniziativa avrebbe dovuto essere la sini­stra. Una sini­stra moderna, in grado di inter­pre­tare i pro­cessi sociali e in ragione di ciò dispo­sta a gio­care d’anticipo sul ter­reno delle riforme.
Le cose sono andate un po’ diver­sa­mente. E a fronte del pro­gres­sivo disfa­ci­mento del cosid­detto ordine della media­zione (par­la­mento, par­titi, sin­da­cati), la sini­stra prima ha pre­fe­rito affon­dare la testa nella sab­bia e poi asse­con­dare i miti e le ideo­lo­gie della moder­niz­za­zione libe­ri­sta. Di male in peg­gio. La sini­stra non ha com­preso Ingrao. E soprat­tutto non ha com­preso che l’alternativa che il Paese aveva, già in que­gli anni di fronte a sé, non era tra con­ser­va­zione e inno­va­zione, ma tra inno­va­zione e innovazione.

Il governo dell’innovazione
Nel suo inter­vento al XVII con­gresso del par­tito comu­ni­sta Ingrao su que­sto punto è quanto mai netto: «Non pos­siamo nascon­der­celo: sta­volta l’obiettivo è più avan­zato» e ci pone di fronte alla «domanda chi gover­nerà l’innovazione». E cioè chi si farà carico di modi­fi­care gli assetti isti­tu­zio­nali, rifor­mando un sistema poli­tico invec­chiato e sem­pre più para­liz­zato da «un governo pog­giato su strut­ture mini­ste­riali vec­chie di un secolo, con un Par­la­mento bloc­cato e sof­fo­cato da un inu­tile, siste­ma­tico dop­pio lavoro su un mare di leggi e decreti, con una pub­blica ammi­ni­stra­zione arcaica». Di qui il ricco ven­ta­glio di ipo­tesi di riforma ela­bo­rate in que­gli anni da Ingrao: rin­no­va­mento degli appa­rati di governo, mono­ca­me­ra­li­smo, moder­niz­za­zione della pub­blica ammi­ni­stra­zione, intro­du­zione del refe­ren­dum pro­po­si­tivo.
Era que­sta la piat­ta­forma «rifor­ma­trice» con la quale tutta la sini­stra avrebbe dovuto misu­rarsi. E avrebbe dovuto farlo e farlo imme­dia­ta­mente. «Pur­ché non ci si muova quando ormai è tardi»: è con que­ste enig­ma­ti­che parole che Ingrao con­clude la sua inter­vi­sta a L’Espresso del 23 feb­braio 1986.
Ma a cosa si rife­ri­sce Ingrao? Tardi rispetto a cosa? La rispo­sta non ce la for­ni­sce diret­ta­mente l’autore, ma è pos­si­bile comun­que desu­merla da quella che è stata, in que­sti decenni, la natura del cosid­detto revi­sio­ni­smo costi­tu­zio­nale. Tardi allora rispetto al peri­colo che, a fronte di un atteg­gia­mento sem­pre più inerte e rinun­cia­ta­rio della sini­stra, potesse pre­va­lere nel senso comune una diversa idea di inno­va­zione, di Par­la­mento, di demo­cra­zia. Tardi rispetto al rischio che il biso­gno di riforme se lasciato inap­pa­gato potesse, a lungo andare, dege­ne­rare in solu­zioni di carat­tere auto­ri­ta­rio. Tardi rispetto all’incognita che, se non si fosse tem­pe­sti­va­mente inter­ve­nuto sulle dege­ne­ra­zioni del sistema dei par­titi, anche la riforma del Par­la­mento avrebbe potuto essere in futuro impie­gata per disar­ti­co­lare la rap­pre­sen­tanza poli­tica, tra­sfor­mando la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in una demo­cra­zia di inve­sti­tura.
Oggi, dopo trent’anni di espe­ri­menti mag­gio­ri­tari, di capi del governo tutti (più o meno) «unti dal Signore», di pro­gres­sivo depe­ri­mento delle assem­blee poli­ti­che (a ogni livello di governo), è più facile com­pren­dere «l’assillo» di Pie­tro Ingrao. Ma anche più amaro.

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