Pietro Ingrao: Crisi e riforma del Parlamento, Ediesse
Risvolto
L’aspetto più impressionante dei saggi di Pietro Ingrao qui pubblicati –
risalenti tutti al biennio 1985-1986 – è la distanza abissale che essi
consentono di misurare tra l’Italia di allora e l’Italia di oggi e, al
tempo stesso, la loro straordinaria attualità. Distanza dall’Italia
odierna e attualità di questi scritti dipendono dal fatto che i fattori
di crisi delle istituzioni rappresentative in essi analizzati erano
infinitamente meno gravi di quelli che stanno oggi svuotando e demolendo
la nostra democrazia. E tuttavia essi sono tutti, in questi scritti di
trenta anni fa, lucidamente avvertiti e denunciati, con incredibile
lungimiranza.
Nel passaggio da un corpo legislativo all’altro gli interessi
corporativi hanno infiniti modi di far sentire la loro pressione.
Domando: ma perché tutto questo? Perché non andare a una delle riforme
«più decisioniste» che si possono dare oggi e cioè a una camera unica?
Ecco l’attualità della riforma.
Dialoghi Il filosofo e il leader della sinistra discutono di riforme, bicameralismo e partiti. Un confronto dell’85 ancora attuale
Quale democrazia per l’Italia?
Anticipiamo stralci di un carteggio tra Norberto Bobbio e Pietro Ingrao, svoltosi tra novembre ’85 e gennaio ’86, sulle riforme istituzionali e la democrazia. I testi fanno parte del volume «Crisi e riforma del Parlamento» (che raccoglie gli scritti di Ingrao) in libreria da domani per la Ediesse.
l’Unità 6.5.14
CARO INGRAO,
LAPROPOSTA, DA TE FATTA NEL
RECENTE CONVEGNO DEL CENTRO PER LA RIFORMA DELLO STATO DI «UN’ASSEMBLEA
costituente per la riforma della Costituzione», fondata su «un nuovo
compromesso istituzionale» (così leggo in «l’Unità » del 30 ottobre) ha
destato incredulità e sorpresa. Condivido la incredulità ma non la
sorpresa. Che oggi esistano le condizioni per una politica di alleanze
indirizzata principalmente alla riforma costituzionale, direi proprio di
no. Però è certo, e per questo non sono sorpreso, che se la riforma
della Costituzione si dovesse fare, non potrebbe farsi se non attraverso
un ampio e durevole compromesso politico. Su questo punto hai
perfettamente ragione. Ma proprio perché hai ragione la riforma non si
farà: la condizione che tu poni, la creazione di una sorta di nuova
Assemblea costituente, è una condizione impossibile, almeno per ora.
Non
sono sorpreso anche per un’altra ragione. In questa tua proposta
intravedo, lo dico un po’ provocatoriamente, una certa nostalgia per una
unità perduta, poi sempre di nuovo perseguita, quasi raggiunta, quindi
riperduta. Non sono mai riuscito a capire le precise ragioni di questa
corsa affannosa verso una non raggiunta e irraggiungibile unità, perché,
se è vero che la nostra Costituzione è nata da uno sforzo unitario
delle varie parti politiche che avevano combattuto il fascismo, la forma
di governo che ne è derivata è la democrazia parlamentare, e il governo
parlamentare si regge non sull’unità ma sulla distinzione, non su una
fittizia unanimità masulla regola della maggioranza, e sulla conseguente
contrapposizione tra maggioranza e minoranza. (...) Senza pluralismo
non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo
democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il
pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario. Pluralismo significa
non soltanto che vi sono (debbono esservi) molte forze in gioco, ma
anche che tra queste forze vi è (deve esserci) concorrenza e quindi
conflitto, e pertanto ogni compromesso è sempre parziale e provvisorio, e
l’unità non è facilmente perseguibile e nemmeno benefica. (...)
Forzo
un po’ la mia argomentazione perché mi preme sapere, e penso prema
anche a te, se siamo d’accordo sul modo d’intendere la democrazia. Non
da oggi, sono convinto che una delle ‘peculiarità’ dei comunisti, sulle
quali abbiamo consumato montagne di carta stampata, sia proprio il modo
d’intendere la democrazia. Del resto è su questo tema che ci siamo
incontrati e scontrati altre volte. (...) La prima riflessione che
dovremmo fare riguarda quelli che io ho chiamato altrove i ‘vincoli’
della democrazia. Abbiamo creduto che con la democrazia si potesse fare
tutto. No, con la democrazia non si può fare tutto. È già accaduto che,
volendo tutto, non si è ottenuto niente, e per giunta si è perduta anche
la democrazia. Quali sono questi vincoli? Anzitutto ci sono alcuni
principi che vengono dalla tradizione del pensiero liberale, e che
abbiamo convenuto di considerare irreversibili, quali i diritti di
libertà, in generale i diritti civili: sono i principi senza i quali le
stesse regole del gioco non possono essere applicate. Poi ci sono
appunto le regole del gioco, le regole in base alle quali vengono prese
le decisioni collettive in un certo modo piuttosto che in un altro:
regole del gioco democratico sono quelle che presiedono alle trattative
che si concludono, quando si concludono, con un accordo, e quella che
stabilisce che quando l’accordo non è possibile (il che vuol dire che la
decisione non può essere presa all’unanimità) s’intende per decisione
collettiva quella presa a maggioranza. (...)
Il linguaggio politico è
pieno, come si sa, di parole al cui significato emotivo fortissimo
corrisponde un significato descrittivo debolissimo. A me pare che una di
queste parole sia massa. (...) Sempre restando entro l’ambito della
definizione procedurale di democrazia, sarei curioso di sapere che cosa
si possa mai intendere per democrazia di massa di diverso da quel che
s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale, in buona
sostanza che cosa si dica di più e di meglio quando si parla di
democrazia di massa rispetto a quel che si intende quando si parla di un
sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto
di voto. È vero che un’espressione che tu usi frequentemente come
«irruzione delle masse nello Stato» fa pensare a un fiume tumultuoso che
rompe gli argini e spazza e travolge tutto ciò che trova nel suo corso,
ma si tratta di un’espressione figurata con la quale non si vuol dire
altro, a mio vedere, se non che i cittadini, oltre al diritto di voto,
hanno anche quello di fare manifestazioni sulle pubbliche piazze. Ma che
cosa sono queste manifestazioni se non la naturale conseguenza del
diritto di riunione sancito da qualsiasi Costituzione liberal-
democratica e anche dalla nostra? Prima che fosse riconosciuto il
diritto di riunione una manifestazione di massa sarebbe stata condannata
come ‘tumulto’ e la folla ivi radunata sarebbe stata considerata una
‘turba’. (...) Il concetto di democrazia, nel suo senso storicamente più
corretto, ame pare sia incompatibile col concetto di massa che fa
pensare a un corpo collettivo insieme amorfo e indifferenziato, mentre
il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo che
nella sua essenza o sostanza personale si distingue da tutti gli altri.
(...)
In una democrazia non ci possono essere masse: ci sono, o
individui, oppure associazioni volontarie composte da individui come i
sindacati e i partiti. Mi domando, insomma, se il termine ‘massa’, oltre
il significato emotivo che, come ho detto, è ambiguo, possa avere anche
un significato descrittivo che serva a fare capire meglio che cosa sia
la democrazia, e a contraddistinguere un tipo di democrazia (la
democrazia di massa) dal tipo di democrazia tramandato dal pensiero
liberale e democratico che chiamerei semplicemente ‘democrazia dei
cittadini’. L’unico significato di democrazia di massa, che traspare
anche dai tuoi scritti, è quello di democrazia senza ‘delega’, una
parola che ha quasi sempre nel linguaggio della sinistra estrema un
significato peggiorativo. Ma che cosa è la democrazia senza delega se
non la democrazia diretta o la democrazia assembleare o quella in cui
tra elettori ed eletti vien meno il divieto di mandato imperativo?
Vogliamo allora sostituire alla rappresentanza politica la
rappresentanza degli interessi? Discutiamone pure ma non copriamo un
problema di diritto costituzionale, tutt’altro che nuovo d’altronde, con
un linguaggio che non lascia capire di che cosa esattamente stiamo
parlando. Sia ben chiaro: queste mie osservazioni nei riguardi di un
modo di parlare di democrazia in cui non mi riconosco, non debbono
essere interpretate come un rifiuto di vedere i difetti della nostra
convivenza democratica e i problemi non risolti. (...) Ritengo però che
per cominciare un dialogo fruttuoso su questi errori e su queste colpe
occorra prima di tutto sgombrare il campo dai falsi problemi, dai
possibili malintesi, dalle risposte illusorie, e prendere la democrazia
per quello che è e non per quello che abbiamo creduto che fosse da
neofiti con molte speranze, fortissimi desideri e scarsa conoscenza del
mondo. Con rispetto e con la più viva cordialità.
CARO BOBBIO,
SEGUO
L’ORDINE DELLA TUA LETTERA. E PARTO DALLA PROPOSTA DI UN GOVERNO
COSTITUENTE (È CHIARO CHE ‘GOVERNO COSTITUENTE’ PRETENDE DI ESSERE SOLO
un’immagine: non mi sogno mica di proporre che sia il governo a fare la
Costituzione...). So che tu in proposito sei, più che incredulo,
‘miscredente’. Ma non mi è chiaro un punto: tu consideri la riforma
desiderabile, ma non fattibile; oppure ritieni che si debbano lasciare
le cose come stanno, perché così stanno bene (o almeno piuttosto bene), o
perché - pur stando parecchio male - non vedi strada per cambiarle? Ti
pongo questa domanda perché, ancora nel nostro dialogo pubblico a
Torino, tu sollecitasti molto caldamente una riforma non piccola: il
cambiamento del sistema elettorale, come problema di oggi, tema concreto
ed attuale di questo momento. So bene che il sistema elettorale non sta
nella Costituzione, e non ha bisogno perciò di procedure straordinarie
per il suo cambiamento. Ma questo non toglie nulla al peso costitutivo
che esso ha nel sistema politico generale. E nessuno potrebbe ragionare
su quella riforma senza fare riferimento subito al tipo di Parlamento, o
al rapporto tra Parlamento ed esecutivo, o al nesso (oppure no) con
sistemi di democrazia diretta, o all’incidenza sul sistema dei partiti
che il cambiamento proposto comporta.
Ecco allora la mia domanda. Tu
davvero pensi che sia possibile oggi scorporare questa delicatissima e
così intrigante questione dall’insieme della riforma istituzionale?
Ritieni che ci sia una forza politica oggi in Italia disponibile ad
accettare di discutere una riforma elettorale così scorporata, e fuori
dal contesto? Insomma a me sembra che tu stesso - sia pure da
‘miscredente’ - al momento in cui poni sul tappeto la questione della
riforma elettorale, dai conferma dell’attualità di una riforma delle
istituzioni. (...) Si è costituita, più di un anno e mezzo fa, una
commissione bicamerale composta di quarantuno membri, designati da tutti
i partiti rappresentati nel Parlamento nazionale. La commissione ha
avuto come esplicito mandato non solo di studiare, ma di formulare
proposte di revisione istituzionale. (...) Sono stati confrontati
programmi. Sono state delineate soluzioni. E allora bisogna pensare che o
quei quarantuno della commissione Bozzi erano impazziti e si
divertivano ad un gioco senza senso; oppure è vero che la riforma
istituzionale è entrata nell’agenda politica. Essa si è bloccata anche e
proprio per la difficoltà di procedere per ‘tavoli separati’: con un
governo che sul suo tavolo tendeva a procedere a una riforma di fatto, a
mutare, per colpi di forza, almeno alcuni dei delicatissimi equilibri
fra esecutivo ed assemblee. Ed allora ecco la questione: si può
discutere e decidere di riforma istituzionale, mancando un quadro
politico che crei le precondizioni della sua realizzabilità e dia alle
diverse parti le garanzie politiche perché quel compito possa essere
assolto? Io non lo credo.
Qui è la ragione, il senso del ‘governo
costituente’. Tu vedi in esso l’ossessione dell’unità ad ogni costo. Al
contrario. Io ho parlato di una iniziativa a termine, che ha il
dichiarato obiettivo di superare il blocco della democrazia esistente
oggi in Italia e di aprire la strada a un processo di alternanza e a
strategie alternative. Si può soprassedere? (...) Spesso mi sono sentito
dire: «Ma perché riforme istituzionali? Ci sono tante cose da fare». Io
rovescio il ragionamento: come fare tante cose urgenti, senza riforme
istituzionali? Come affrontare il tema del tutto inedito di una
disoccupazione massiccia connessa all’innovazione e allo sviluppo, senza
dare una dimensione sovranazionale a tutta una serie di funzioni, e al
tempo stesso decentrarne con audacia tante altre all’interno degli Stati
nazionali, riformando da due parti la macchina dello Stato? Come
gestire la trasformazione dell’economia senza ripensare la struttura del
governo? Rischiamo di stare fermi persino sulle questioni ultramature:
perché raddoppiare inutilmente il tempo di elaborazione delle leggi (con
i connessi giochi trasformistici), in un bicameralismo parlamentare che
non sta più in piedi? (...)
Tu stesso dici di individui che si
raccolgono in associazioni volontarie quali i partiti e i sindacati. E
perché allora mi chiedi spiegazioni circa la democrazia di massa? Questa
è la moderna democrazia di massa, se poco poco mettiamo mente a ciò che
è diventata, in un insieme sempre più vasto di paesi, la trama dei
partiti, la rete dei sindacati, lo sviluppo di movimenti sociali
nettamente diversi anche da partiti e sindacati: i ‘verdi’, le donne, i
pacifisti, i movimenti giovanili. E si dà anche una rete di associazioni
che non hanno un volto di rivendicazione generale, ma un proclamato
carattere corporativo, o addirittura di lobby. Possiamo noi oggi
ragionare sugli ‘individui’, senza vedere le loro connessioni con questa
trama associativa che fa la storia politica moderna? E non so proprio
vedere i partiti solo come una somma di individui: altrimenti sarebbero
solo un elenco di elettori. E invece noi abbiamo conosciuto partiti che
prevedono attività continue, che si strutturano organizzativamente, che
si danno ideologie e progetti, e discutono di strategie politiche per
realizzarli. Abbiamo visto gli stessi sindacati ambire a rivendicare il
volto di ‘soggetto politico’. E la ragione di questo cammino - lo sai
cento volte meglio di me - sta nel fatto che determinati individui hanno
sentito che non bastava il certificato elettorale né la regola di
maggioranza, e nemmeno il diritto di presentare insieme liste di
candidati. Ed hanno pensato insieme al durare di un programma, di
iniziative comuni, di vincoli reciproci, che si prolungavano prima e
dopo il voto. Perché allora non dovremmo parlare di società di massa, al
di là del significato valutativo che si voglia dare a questo termine?
(...).
Insomma, il problema di una espansività della democrazia mi
sembra dominare il secolo, e non è riducibile alla questione del
suffragio universale e del principio di maggioranza, ma va oltre di
essi. Si tratta dei contenuti della democrazia e della storicità delle
sue forme. Altrimenti perché sarebbe stato scritto l’articolo 3 della
nostra Costituzione e quel capoverso sugli ostacoli all’accesso dei
lavoratori alla direzione politica del paese? (...) E però lasciami dire
che trovo un po’ forzata e deviante la tua imputazione ai comunisti di
una ossessione unitaria. L’assillo unitario è una ragione dell’egemonia.
Ma il quadro è conflittuale: anzi parte dalla convinzione di
contraddizioni antagonistiche. Togliatti quando parla dell’unità lo fa
in ragione di un conflitto, che a suo vedere spacca il mondo e le cose: è
l’unità in funzione di una lotta. E il compromesso stesso, come
accordo, è visto come parte di una lotta. Con l’antica stima.
L’assillo inascoltato di Pietro Ingrao
Saggi. «Crisi e riforma del parlamento» di Pietro
Ingrao per Ediesse. Pubblicati i saggi del dirigente comunista scritti
nella metà degli anni Ottanta sulla necessaria innovazione del sistema
istituzionaleClaudio de Fiores, 17.7.2014 il Manifesto
Crisi e riforma del Parlamento è il titolo di un volume, curato da Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti (Ediesse, euro 14), che raccoglie alcuni contributi di Pietro Ingrao sullo stato delle istituzioni italiane. L’arco di tempo della produzione ingraiana che il volume prende in esame è il biennio 1985–1986. Un arco di tempo alquanto delimitato, ma tuttavia essenziale per comprendere gli sviluppi della questione istituzionale in Italia. Questione quanto mai difficile e tormentata, soprattutto se posta in termini ingraiani. Le riflessioni dell’esponente comunista sulle «nuove risorse del mutamento istituzionale» appaiono infatti permeate da un assillo insistente e grave che pervade, pagina dopo pagina, l’intero volume: come riaffermare la centralità del Parlamento e quindi della democrazia rappresentativa in una società di massa frammentata e in continua trasformazione.
Un «assillo» che Ingrao declina con straordinaria abilità, tenendo ben presente il contesto, le sedi, gli interlocutori. Una poliedricità di accenti e di sfumature che spinge il lettore a misurarsi con le diverse dimensioni dell’agire pubblico ingraiano: l’Ingrao giurista (autore della relazione su «potere e poteri nell’esperienza giuridica italiana» all’Istituto di diritto pubblico de «La Sapienza»); il teorico della politica (protagonista con Norberto Bobbio di un suggestivo confronto epistolare su democrazia, egemonia e masse); il Presidente del Crs (con la sua relazione programmatica al convegno annuale dell’associazione del 1986); il leader di partito (artefice della discussa mozione «per un governo costituente» al XVII Congresso del Pci).
Lo stato della Repubblica
Punto di snodo della riflessione di Ingrao è la centralità del Parlamento così come voluta e delineata dalla Carta repubblicana. Una costruzione complessa e articolata, destinata a intrecciarsi intimamente con le sorti della Costituzione e protesa a fare del Parlamento «il luogo centrale, la sede dirigente e di equilibrio, in cui possono ricomporsi i fili dell’opera nuova da compiere». Una vera e propria opzione «costituente» che traeva la sua legittimazione non dalle seduzioni dell’ingegneria costituzionale (oggi così di moda), ma dalla storia del paese, dai processi di trasformazione dello Stato, dalla forza politica assunta dai partiti di massa durante la Resistenza. Solo il Parlamento avrebbe potuto, in altre parole, offrire una trama compiuta alla Repubblica operando quale imprescindibile asse di «collegamento diretto fra Stato, istituzioni e i partiti politici che erano stati i protagonisti della Resistenza».
Ecco perché Ingrao diffida di che vede «nella caratterizzazione parlamentare della forma di governo (italiana) una pura proiezione di modelli di altri paesi occidentali». Ed ecco perché critica quelle componenti del pensiero liberale che non hanno mai compreso che la centralità del parlamento, più che un vezzo «ideologico» della sinistra, era la risposta a «interessi quanto mai corposi e specifici della situazione italiana» così come storicamente determinatasi.
Il Parlamento non costituisce insomma per Ingrao una delle tante articolazioni della democrazia costituzionale (al pari di Governo, Capo dello Stato, Corte costituzionale). Ai suoi occhi il Parlamento è la democrazia costituzionale. E finanche le loro sorti sono intimamente legate.
È da qui che prende avvio la sua originale ricostruzione della storia costituzionale repubblicana (che altro non è, per Ingrao, che la storia del Parlamento): dall’ostruzionismo della maggioranza (culminato nella stesura della legge elettorale maggioritaria del 1953) alle lotte per l’attuazione della Costituzione (sviluppatesi a ridosso delle mobilitazioni politiche e sociali del biennio 1968–69). E poi ancora: dallo Statuto dei lavoratori del 1970 all’affermazione delle politiche conservatrici nei primi anni Ottanta.
Con la vittoria della Thatcher e di Reagan la reazione capitalista torna nuovamente in campo in tutto l’Occidente. E Ingrao ne evidenzia anzitempo la dimensione «globale»: «manipolazione mondiale dell’informazione e della cultura; scelte tecnologiche che incidono nel rapporto millenario tra uomo e ambiente…; manovre finanziarie che ridistribuiscono risorse e condiziono economie su scale mondiale; redistribuzione di potere: fra aree del mondo, all’interno stesso dell’area occidentale, fra nazioni e all’interno delle diverse nazioni».
Tutto ciò avrebbe avuto le sue ricadute anche sul piano costituzionale. Sono questi gli anni in cui il sistema politico e istituzionale inizia (sempre più visibilmente) a dare segni di cedimento: le dinamiche dei poteri subiscono un’alterazione patologica senza precedenti e a fronte di una istituzione parlamentare destinata divenire sempre più esecutiva («ridotta solo a mettere timbri») il governo, di converso, tenderà sempre più ad assumere i connotati di un legislatore (abusivo). I fenomeni degenerativi denunciati da Ingrao sono gli stessi fenomeni che pervadono oggi le istituzioni parlamentari: dall’utilizzo smodato della «decretazione d’urgenza, all’uso del voto di fiducia … alla messa in mora dell’iniziativa legislativa parlamentare».
Le innovazioni di sistema fino a oggi sperimentate più che risolvere hanno ulteriormente aggravato le patologie dell’ordinamento istituzionale italiano: verticalizzazione del consenso, personalizzazione della politica, incremento del tasso di corruzione nelle amministrazioni pubbliche, crescente esasperazione dei rigurgiti «partitocratici» (senza più partiti).
Tutto ciò poteva essere evitato? Per Ingrao i processi di trasformazione della società, venutisi consolidando nel corso degli anni Ottanta, inducevano certamente a un ripensamento degli assetti politici e costituzionali. Ma la direzione, i contenuti, gli sbocchi di tali istanze riformatrici avrebbero dovuto però essere diversi. Per il dirigente comunista era cioè possibile immaginare e praticare altre riforme del sistema politico e costituzionale. Ad assumere l’iniziativa avrebbe dovuto essere la sinistra. Una sinistra moderna, in grado di interpretare i processi sociali e in ragione di ciò disposta a giocare d’anticipo sul terreno delle riforme.
Le cose sono andate un po’ diversamente. E a fronte del progressivo disfacimento del cosiddetto ordine della mediazione (parlamento, partiti, sindacati), la sinistra prima ha preferito affondare la testa nella sabbia e poi assecondare i miti e le ideologie della modernizzazione liberista. Di male in peggio. La sinistra non ha compreso Ingrao. E soprattutto non ha compreso che l’alternativa che il Paese aveva, già in quegli anni di fronte a sé, non era tra conservazione e innovazione, ma tra innovazione e innovazione.
Il governo dell’innovazione
Nel suo intervento al XVII congresso del partito comunista Ingrao su questo punto è quanto mai netto: «Non possiamo nascondercelo: stavolta l’obiettivo è più avanzato» e ci pone di fronte alla «domanda chi governerà l’innovazione». E cioè chi si farà carico di modificare gli assetti istituzionali, riformando un sistema politico invecchiato e sempre più paralizzato da «un governo poggiato su strutture ministeriali vecchie di un secolo, con un Parlamento bloccato e soffocato da un inutile, sistematico doppio lavoro su un mare di leggi e decreti, con una pubblica amministrazione arcaica». Di qui il ricco ventaglio di ipotesi di riforma elaborate in quegli anni da Ingrao: rinnovamento degli apparati di governo, monocameralismo, modernizzazione della pubblica amministrazione, introduzione del referendum propositivo.
Era questa la piattaforma «riformatrice» con la quale tutta la sinistra avrebbe dovuto misurarsi. E avrebbe dovuto farlo e farlo immediatamente. «Purché non ci si muova quando ormai è tardi»: è con queste enigmatiche parole che Ingrao conclude la sua intervista a L’Espresso del 23 febbraio 1986.
Ma a cosa si riferisce Ingrao? Tardi rispetto a cosa? La risposta non ce la fornisce direttamente l’autore, ma è possibile comunque desumerla da quella che è stata, in questi decenni, la natura del cosiddetto revisionismo costituzionale. Tardi allora rispetto al pericolo che, a fronte di un atteggiamento sempre più inerte e rinunciatario della sinistra, potesse prevalere nel senso comune una diversa idea di innovazione, di Parlamento, di democrazia. Tardi rispetto al rischio che il bisogno di riforme se lasciato inappagato potesse, a lungo andare, degenerare in soluzioni di carattere autoritario. Tardi rispetto all’incognita che, se non si fosse tempestivamente intervenuto sulle degenerazioni del sistema dei partiti, anche la riforma del Parlamento avrebbe potuto essere in futuro impiegata per disarticolare la rappresentanza politica, trasformando la democrazia rappresentativa in una democrazia di investitura.
Oggi, dopo trent’anni di esperimenti maggioritari, di capi del governo tutti (più o meno) «unti dal Signore», di progressivo deperimento delle assemblee politiche (a ogni livello di governo), è più facile comprendere «l’assillo» di Pietro Ingrao. Ma anche più amaro.
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