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Antoine Compagnon: Un’estate con Montaigne, Adelphi, pagg. 140 euro 12
Risvolto
Quando, nel 2012, il direttore di un’emittente radiofonica propone ad Antoine Compagnon di parlare dei Saggi
di Montaigne in una lunga serie di trasmissioni quotidiane della durata
di pochi minuti, all’illustre professore del Collège de France l’idea
appare subito quanto meno stravagante. Il periodo di programmazione
(dall’inizio di luglio alla fine di agosto) e l’orario (intorno a
mezzogiorno) sembrano decisamente più adatti ai bagni di mare che non
all’ascolto di lezioni su un grande classico della letteratura e del
pensiero. La sfida è così arrischiata, e allettante, che Compagnon non
osa tirarsi indietro. E il risultato è clamoroso: le trasmissioni
ottengono ascolti sbalorditivi, il libro che ne raccoglie i testi,
pubblicato un anno più tardi, risulta tra i più venduti dalla stagione, e
i corsi di Compagnon al Collège de France registrano un’affluenza
inusitata. Ma tanto successo ci apparirà tutt’altro che sorprendente non
appena ci inoltreremo nelle pagine di questo incantevole vademecum,
dove Compagnon, coniugando leggerezza e profondità, attraverso il
commento a quaranta brevi passi dei Saggi ci condurrà all’interno di un’opera senza tempo come i temi di cui discorre, le cose della vita: dall’amore all’amicizia, dalla morte alla vanità, dalla bellezza alla malattia.
“Vi racconto Montaigne nuova star della radio”
di Anais Ginori Repubblica 29.5.14
PARIGI. Antoine Compagnon attraversa una serie di porte blindate con
codici di accesso per arrivare nel suo ufficio. La ristrutturazione del
Collège de France ha trasformato il piano in cui lavorano i professori
in un luogo che assomiglia più a una banca che non a un tempio della
ricerca accademica. «L’edificio in apparenza è rimasto uguale, ma dentro
è irriconoscibile per chi, come me, lo frequentava da studente».
Compagnon, 64 anni, veniva qui a sentire Roland Barthes, di cui poi è
diventato amico, Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault. Oggi tanti
studenti, ma anche semplici curiosi, entrano nell’antica istituzione del
quartiere latino per ascoltare lui.
Il ciclo di lezioni intorno a
“Guerra e letteratura”, concluso a febbraio, ha riempito l’anfiteatro e
altre due sale in cui la lezione veniva trasmessa sul grande schermo; le
registrazioni sono state poi scaricate da centinaia di persone sul web.
Figlio di un generale, Compagnon ha studiato al Politecnico per
diventare ingegnere, prima di convertirsi alla storia della letteratura.
Timido e appassionato, insegna per metà dell’anno alla Columbia
University. È un accademico che sa sorprendere: in gioventù ha firmato
un romanzo erotico ambientato in Italia, Ferragosto , e ha dato voce
agli intellettuali conservatori nel saggio Les Antimodernes . Noto come
uno dei maggiori specialisti di Proust e Montaigne, ha conquistato
un’improvvisa popolarità con un libricino che ha scalato le classifiche
in Francia e che ora è pubblicato da Adelphi. Un’estate con Montaigne
(traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Lorenza Di Lella) all’inizio
era una trasmissione radiofonica in quaranta puntate sui Saggi, l’opera
monumentale del filosofo umanista.
Lei ha tentato di sfatare alcune leggende. La prima: Montaigne era un eremita?
«I
Saggi vengono scritti in un periodo in cui Montaigne ha deciso di
ritirarsi dalla vita pubblica. Ma è importante sapere che, prima e dopo,
ha partecipato a molti avvenimenti che hanno marcato la società. È
stato magistrato e mediatore tra Enrico III e Enrico di Navarra, futuro
Enrico IV, aprendo la strada per l’Editto di Nantes. Montaigne non
esprime solo un pensiero contemplativo, ma anche politico. È stato
sindaco di Bordeaux. Nella sua esistenza, cambia più volte il rapporto
tra l’ otium, l’ozio, allora qualità essenziale, e il negotium, la vita
attiva che dal Rinascimento in poi prevale nella scala sociale.
Montaigne si trova in uno snodo tra due civiltà».
Perché Montaigne non può essere considerato uno scrittore simbolo dell’epoca moderna, come lei suggerisce nel libro?
«La
sua soggettività, il suo Io narrante, è profondamente moderno. Ma dal
punto di vista della filosofia della Storia, Montaigne non crede nel
Progresso. È convinto che le conquiste tecniche e scientifiche non
portino miglioramenti per la società. Nel libro cito anche i suoi primi
commenti sulla scoperta dell’America. La decadenza, dice, sarà
accelerata sia per il Vecchio che per il Nuovo Mondo. Paradossalmente,
il pensiero di Montaigne è forse più in fase con la nostra epoca. Si
potrebbe dire che era già postmoderno».
Le guerre civili e di religione ne hanno segnato la riflessione?
«Montaigne
ha trascorso l’età adulta circondato da conflitti civili, in cui
scompare la differenza tra amici e nemici. Quello che scrive sulla
sincerità è provocato dal tradimento della parola data, in un conflitto
lacerante tra fede e fiducia. È in questo contesto che nasce anche
l’amicizia con Étienne de la Boétie, fondamentale per la sua
riflessione. Nei Saggi ci sono diversi capitoli sugli ostaggi, cosa
piuttosto rara perché si tratta di un testo per lo più astratto, con
pochi episodi reali».
L’aneddoto più famoso è il momento in cui Montaigne cade da cavallo. Cosa rende così importante questo racconto?
«Dopo
la caduta, è svenuto per qualche minuto. È un episodio in cui Montaigne
indaga già il legame tra anima e corpo, sogno e coscienza. Anticipa la
soggettività moderna, per come è stata poi indagata da Descartes e da
altri. L’aneddoto è anche uno spunto per parlarci della morte, tema che
accompagna i Saggi. Montaigne ha rischiato di morire, ma ha perso
conoscenza senza soffrire. La morte può essere dolce, spiega in un altro
passaggio, come un vecchio dente che finisce per cadere».
Non è riduttivo proporre in pillole un così grande autore?
«Quando
mi hanno proposto di parlare dei Saggi alla radio mi sono trovato di
fronte a una doppia difficoltà. Avevo il problema concreto di come
scegliere estratti rappresentativi del pensiero di Montaigne, avendo a
disposizione solo qualche minuto, e l’obbligo di rivolgermi a migliaia
di ascoltatori un po’ distratti, più occupati a prendere il sole in
spiaggia che a interrogarsi su questioni filosofiche».
La seconda difficoltà?
«Temevo
di cadere in una lettura moralista, dalla quale ho sempre cercato di
tenermi a distanza. Montaigne è spesso ridotto in aforismi o in una
sorta di breviario della felicità. Alla fine, questa doppia difficoltà
mi è sembrata sufficiente a raccogliere la doppia sfida. Offre una
lettura aperta a diverse interpretazioni. Ogni capitolo termina con una
domanda. C’è una dimensione interrogativa nei Saggi che è la più
convincente e attuale. I libri dovrebbero renderci perplessi, farci
dubitare, e non fornirci risposte già pronte ».
La sfida era anche leggere alla radio, e poi pubblicare, i Saggi nell’edizione originale: un francese arcaico.
«Insegno
Montaigne da quasi quarant’anni e sono convinto che sia preferibile
mantenere l’edizione originale senza le traduzioni moderne. La perdita
di senso è enorme, così come accade per la Divina Commedia. Montaigne
era di madrelingua latino. Ha scelto di scrivere i Saggi in francese
per rivolgersi a un vasto pubblico, soprattutto alle donne. Non voleva
avere solo lettori eruditi. E a giudicare dal successo del mio libro,
l’intenzione resta valida sei secoli dopo».
La sua attività accademica si divide principalmente tra Montaigne e Proust. Cos’hanno in comune?
«Sono
uomini di un solo libro, i Saggi per Montaigne, la Recherche per
Proust. Hanno lavorato alla loro opera omnia fino alla morte, senza
poter mai mettere un punto finale. Entrambi hanno creato un genere a sé.
Montaigne ha battezzato la saggistica, che si chiama così proprio per i
suoi Saggi.
Proust ha mischiato per la prima volta romanzo,
filosofia, saggio, creando un oggetto letterario unico. Le loro opere
sono la somma della cultura di un momento storico, lo specchio di
un’epoca. Volendo rintracciare degli elementi biografici, sia Montaigne
che Proust avevano una madre ebrea. Alla fine, ho passato la mia vita
tra due autori molto più simili di quel che si potrebbe credere».
Quanto è pop (e best-seller) un Montaigne in Francia
di Elisabetta Ambrosi il Fatto 30.5.14
Scena
n. 1: spiaggia dell’Adriatico, rumore di bambini selvaggi, radiolina
accesa su Juve-Milan, trofeo Berlusconi. Scena n. 2: Côte Azur, poetico
rumore di onde, radiolina che trasmette una voce pacata che, in francese
arcaico, parla di tristezza, crudeltà, codardia, educazione dei
fanciulli, morte e persino cannibalismo. Sta tutta in un’immagine la
differenza tra noi e la Francia. Perché se in Italia può succedere
persino che il Pd vinca, non potrà di sicuro mai accadere quanto
avvenuto oltralpe, nel paese delle biblioteche e dell’educazione alla
lettura (e dove gli intellettuali sono portati in palmo di mano). E cioè
che un professore della Columbia University, Antoine Compagnon,
intrattenga per un’estate intera i radioascoltatori su una delle
maggiori radio pubbliche francesi, France Inter, commentando ogni giorno
qualche pagina degli Essais di Montaigne. E che la trasmissione – Une
été avec Montaigne – diventi non solo popolare, ma si traduca in un
omonimo libro che ha scalato le vette della classifiche vendendo oltre
centomila copie e che ora esce anche in Italia per Adelphi (che per un
decimo delle copie probabilmente farebbe carte false).
SE VI
IMMAGINATE una trasmissione pop, tutta frizzi e lazzi, oppure qualcosa
di scabroso, magari con la lettura dei passi in cui Montaigne si lamenta
del suo pene piccolissimo, rimarrete delusi. Il guaio, si fa per dire, è
che le quaranta puntate della trasmissione sono come minuscole lezioni
universitarie. A tratti persino un po’ noiose. Come quando, ad esempio,
commentando le riflessioni del filosofo francese sul cannibalismo,
Compagnon spiega: “Gli indios sono selvaggi non nel senso che sono
crudeli, ma perché vicini allo stato di natura”. Oppure quando,
chiosando il capitoletto Des monstres et prodiges – dove Montaigne
racconta il suo incontro con Marie, un ermafrodito che avrebbe scoperto
di avere anche un membro virile dopo un intenso sforzo fisico –
l’accademico nota, provocando qualche sbadiglio (ma non sopra le Alpi),
che “non c’è migliore esempio di questo per descrivere i complessi
rapporti che intercorrono tra mente e corpo”.
Come si spiega allora
il successo di una trasmissione, e di un libro, su un filosofo
cinquecentesco? “Forse, ipotizzo, perché Compagnon è un intellettuale
atipico, estraneo al conformismo culturale di certa sinistra”, commenta
lo scrittore Giuseppe Scaraffia, che ha scritto e condotto programmi
culturali per la Rai. “Tra l’altro è l’autore di due cose che da noi lo
farebbero subito sminuire: un romanzo erotico e un saggio sui grandi
reazionari. In breve, da noi Dante continua a leggerlo Benigni, in
Francia Montaigne lo legge e lo spiega un intellettuale fuori da schemi e
schieramenti”.
“In Francia c’è molta più attenzione e rispetto per i
prodotti culturali ed essere minoritari non significa essere privi di
valore”, spiega a sua volta Marino Sinibaldi, ideatore e conduttore di
Fahrenheit su Radio Tre. “Al contrario qui c’è una fondamentale
ambiguità nella nostra divulgazione culturale. Abbiamo paura di fare una
cosa alta perché i media italiani sono molto più restii ad accettarla.
Così si paga volentieri il prezzo di apparire divulgativi, perché non
farlo equivale a consegnarsi all’irrilevanza”.
INSOMMA Un’estate con
Montaigne da noi sarebbe davvero un esperimento impensabile? “Noi
stiamo provando a fare un esperimento non dissimile, attraverso Wiki
Radio”, continua Sinibaldi. “Una puntata giornaliera che all’ora di
pranzo, le due, racconta in modo narrativo un evento accaduto proprio
nel giorno in cui si va in onda, dal colpo di stato in Cile alla nascita
di Amnesty International”.
Più scettico, invece, Scaraffia. “Si
potrebbe fare, in teoria, se non si pensasse subito solo agli ascolti,
un accorgimento che si usa soltanto per i membri della parrocchietta e
non per i poveri classici che, non facendo parte di nessuna lobby,
sembrano non avere niente da dare in cambio. In pratica, mi permetto di
dubitarne, almeno per il momento. Mentre vedo all’orizzonte qualche
stridula imitazione di Compagnon fatta da qualche intellettuale molto
impegnato a restare in riga”.
La sapienza (un po’ zen) di Montaignedi Alessandro Piperno Corriere La Lettura 1.6.14
Montaigne è il santo patrono degli scrittori confidenziali. Avete
presente i cantanti confidenziali: Sinatra, Bennet, Sammy Davis Jr.?
Straordinari entertainer che cantano, recitano, dicono battute e, nel
frattempo, trovano anche il tempo di confessarsi. Ebbene, gli scrittori
confidenziali si comportano allo stesso modo. Sto pensando a Sterne, a
Diderot, al Baudelaire dei Salons , a Sainte-Beuve e, per venire ai
nostri tempi, a Bellow e Kundera.
Chi tra essi non si è ispirato, più o meno esplicitamente, a Montaigne?
La sua storia è esemplare. Impegnato in politica in anni di pestilenze e
guerre di religione, a un certo punto della sua vita si seppellisce
nella biblioteca del suo castello per dedicarsi unicamente alla
meditazione e alla lettura. È da questa vertiginosa immersione in se
stesso che vengono fuori i Saggi .
Montaigne è il primo grande moralista che non conosce la sentenziosità
dei suoi epigoni. Per questo lo sentiamo così affettuosamente vicino. Ci
piace il tono disinvolto, lo stile blasé che lui stesso definisce
«indisciplinato, scucito, audace». Non sorprende che l’anno scorso un
libro di Antoine Compagnon, che raccoglieva alcune lezioni su Montaigne
scritte per la radio France Inter, sia diventato un bestseller in
Francia. Una quarantina di brani commentati con maestria. Prelibati
assaggi (è proprio il caso di dirlo) che pongono una serie di questioni
più o meno capitali.
Antoine Compagnon è uno dei massimi critici francesi contemporanei. I
suoi scritti proustiani hanno nutrito un’intera generazione di studiosi.
A suo tempo, Il Demone della teoria mise ordine nel mare magnum della
critica francese. I parigini sfidano le intemperie per seguire le sue
lezioni al Collège de France su argomenti dotti come l’uso della
preposizione «chez» nella Recherche proustiana.
I divulgatori sono pericolosi (così come, per ragioni inverse, lo sono
gli ermetici oracolari); ma se c’è un autore che, a dispetto di certe
schifiltosità accademiche, si presta alla diffusione parcellizzata — «in
pillole», si direbbe oggi —, quello è Montaigne. E se c’è un critico
che può permettersi un’operazione tanto arbitraria, beh, quello è
Compagnon. Non a caso, dunque, Un’estate con Montaigne risulta un libro
così felice.
Compagnon usa Montaigne in un modo non troppo diverso da quello in cui
Montaigne usa i classici. Sebbene talvolta possa sembrarlo, Montaigne
non è un erudito, tanto meno un pedante. Lui non chiede ai classici di
essere istruito, più che altro, se ne lascia ispirare. L’uso dei
classici non è passivo. È personale e arbitrario. Non sono i classici a
cambiarci, siamo noi a cambiare i classici. O quanto meno, a renderli
conformi alle nostre esigenze. Il libro di Compagnon ha il pregio di non
attualizzare Montaigne. Dopotutto, parliamo di uno scrittore del
Rinascimento. Un gentiluomo scettico e conservatore. Tuttavia Compagnon
mostra come la sapienza universale di Montaigne si esprima nella
capacità di sospendere il giudizio e di sospettare qualsiasi verità
acquisita e classificata.
È autentica la modestia di Montaigne? Bah, ne conoscete di autentiche?
Come nota Giacomo Debenedetti, l’understatement di Montaigne è,
anzitutto, una scelta stilistica. Compagnon, d’altra parte, rincara la
dose: la modestia è un modo di alzare le mani di fronte
all’inaffidabilità di qualsiasi cosa. È patetico pensare di poter
esercitare un qualche controllo sulle nostre vite. E, del resto, ci è
impossibile dominare le passioni. In un curioso paradosso, questa
consapevolezza drammatica nelle mani esperte di Montaigne può diventare
rasserenante. «I mali dell’anima, consolidandosi, tendono a occultarsi:
più si è malati e meno li si avverte. Ecco perché occorre portarli
spesso alla luce e, con mano impietosa, metterli a nudo e sradicarli dal
nostro petto».
Sono parecchi gli inquieti, i nichilisti, i disperati che hanno cercato
nei Saggi , se non proprio consolazione, almeno un’oasi di pace: da
Flaubert che, in una lettera a un’amica, consiglia di leggere Montaigne
come terapia, a Zweig che, durante l’esilio, elegge Montaigne a
inseparabile fratello. Per non dire di Gide, per cui Montaigne è una
vera ossessione. Montaigne è utile soprattutto ai tormentati, i quali
forse vedono in lui il fratello maggiore che ce l’ha fatta. Uno che è
riuscito a esorcizzare la morte, a farsi carico dell’insensatezza del
tutto, a dare gusto all’istante in fuga. Guai a scambiare tale savoir
vivre per dabbenaggine o per insipienza. Montaigne conosce i suoi
nemici. Con chi ce l’ha? Compagnon non ha dubbi: «Il bersaglio polemico
di Montaigne sono gli agitatori, tutti quegli apprendisti stregoni che
promettono alla gente un domani migliore». Per questo «è meglio che i
potenti non si prendano troppo sul serio, che non aderiscano interamente
alla propria funzione, che sappiano conservare un certo senso
dell’umorismo e dell’ironia». Montaigne t’invita al distacco, ma non nel
modo ottuso e radicale degli stoici. Il suo distacco non esclude
intimità, comprensione, edonismo, ricerca di felicità. Montaigne
comprende ciò che qualsiasi nevrotico ossessivo conosce bene: che la
salute spirituale sta nella parzialità, nell’assenza di completezza,
nella fuga dall’assoluto. «Coloro che pretendono di arrivare al fondo
delle cose — scrive Compagnon sulla scorta di Montaigne — ci ingannano,
perché all’uomo non è dato di conoscere il fondo delle cose. E la
varietà del mondo è tale che ogni sapere è fragile e necessariamente
opinabile».
Tempo fa, in un bel corsivo su «Il Foglio», Anna Maria Carpi si chiedeva
come mai lei, a dispetto di tanti altri, non traesse alcuna
consolazione dalla lettura di Montaigne. Un bellissimo articolo, nel
quale Carpi nota giustamente come nei Saggi la disperazione sia stata
semplicemente abolita, al pari di ogni slancio romantico. Per tutta
risposta, sarei tentato di chiamare in causa certi passi in cui
Montaigne lascia intravedere gli abissi in cui si dibatte. Ma sarebbe
disonesto e fuorviante. Perché Anna Maria Carpi ha ragione: non c’è
niente di più lontano da Montaigne dello slancio romantico, del
perseguimento di ideali irrealizzabili. La sua coscienza è tutto fuorché
infelice. Compagnon stesso scrive: «L’etica del vivere che Montaigne si
prefigge è al tempo stesso un’estetica, un’arte di vivere nella
bellezza. Saper cogliere il momento presente diventa un modo di stare al
mondo, modesto, naturale, semplicemente e pienamente umano». Una delle
sentenze più famose di Montaigne recita: «Quando io ballo io ballo,
quando io dormo io dormo». Come a dire, io sono qui. Dentro la cosa che
faccio. Non scrivo per pubblicare. Scrivo per scrivere. Non penso per
avere risposte. Penso per pensare. La nostalgia è pericolosa,
l’ambizione è pericolosa. Qualcuno potrebbe prenderla come una massima
zen. Ma il punto è un altro: Montaigne, a differenza degli scrittori
disperati che lo veneravano, sapeva come non prendere troppo seriamente
la propria disperazione.
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