mercoledì 4 giugno 2014
Il Master di Ballantrae: l'avvento del capitalismo e del blocco aristocratico-borghese
L’eroe satanico di Stevenson
Il signore di Ballantrae è un nobile dall’animo oscuro Incarna in una figura sola le psicologie di Jekyll e Hyde
di Pietro Citati Corriere 2.6.14
Come tutte le intelligenze vaste, nitide e vertiginose, quella di Robert
Louis Stevenson era attratta dal male assoluto. «Mi sembra — scrisse
negli ultimi anni di vita — di essere nato col sentimento di qualcosa di
inquietante nascosto nel cuore delle cose, di un male e di un orrore
egualmente senza limiti». Con una violenza estrema, egli affrontò il
male soprattutto in due libri: scrivendo Lo strano caso del Dr. Jekyll e
di Mr. Hyde (1886) e Il signore di Ballantrae (1889). Nel primo caso
guardò la tenebra del male: quello che esso ha di deforme, abietto,
orribile, odioso, al punto da sottrarsi all’espressione e alla parola,
superando qualsiasi limite negativo. Hyde destava una «curiosità piena
di ripugnanza»: c’era, in lui, qualcosa di anormale e di contraffatto;
qualcosa che colpiva, sorprendeva e rivoltava.
Il caso del Signore di Ballantrae era opposto. Il grande aristocratico
scozzese emanava una specie di luce radiosa e abbacinante: emanava un
fascino senza limiti; affetto, amore, venerazione, adorazione. Era —
racconta l’onesto Mackellar, la voce narrante del libro — «un alto e
snello gentiluomo vestito di nero, con la spada al fianco, una mazza da
passeggio allacciata al polso. Agitò la mazza verso il capitano Crail in
segno di saluto, con un misto di grazia e di beffardaggine, che
impresse profondamente quel gesto nella mia memoria… Aveva il viso
olivastro, asciutto, ovale, con neri occhi, vigili e penetranti, da uomo
combattivo e avvezzo al comando. Un grosso diamante gli brillava
all’anulare… Le sue maniere erano di un’affabile garbatezza. Ogni suo
atto era così piacevole e di aspetto così nobile che io non riuscivo a
meravigliarmi vedendo suo padre e sua cognata sedere attorno alla tavola
insieme a lui, con facce radiose. Era un meraviglioso attore, che
parlava all’orecchio della signora, con una grazia diabolicamente
insinuante». Ed ecco il tocco definitivo. «Vi era in lui tutta la
gravità e qualcosa dello splendore di Satana nel Paradiso perduto di
Milton».
Questo fascino era soltanto una scintillante facciata. James, signore di
Ballantrae, pretendeva di essere un cavaliere, un eroe, il fiore
dell’aristocrazia europea del Settecento. Ma chi lo conosceva bene, chi
ne seguiva le azioni e ne vedeva il volto segreto, sapeva che egli era
avidissimo di denaro e di menzogne. Spargeva sangue attorno a sé con
cinica indifferenza: torturava; ed era così intimamente brutale e
volgare che rivelò la sua natura profonda quando venne nominato capitano
da una banda di corsari. Fingeva di essere un nobile protettore degli
afflitti e dei perseguitati: mentre era una spia, che per denaro
denunciava i suoi compagni di sventura.
James aveva un fratello minore: Henry, che sembrava modesto e mediocre,
quanto egli era demoniacamente accorto ed astuto. Henry aveva il senso
del dovere mentre egli ne era privo: leggeva poco, parlava poco, mentre
egli era un re della conversazione e della lettura: non aveva finezza:
era goffo, quasi brutto, inelegante; soprattutto incapace di ispirare
amore e dedizione. Tutti lo sfuggivano: le comari del villaggio lo
insultavano per strada: al massimo i buoni avevano pietà di lui, che al
contrario avrebbe voluto ricevere amore e tenerezza — la tenerezza
quotidiana, che rende lieta la vita.
James odiava ferocemente, selvaggiamente Henry: senza nessuna ragione,
perché il fratello lo adorava e venerava come gli altri; lo odiava
appunto perché non possedeva né eleganza né fascino; e lo considerava
colpevole di tutte le sue sventure, delle quali egli era invece il solo
responsabile. Lo scherniva, lo chiamava Giacobbe (mentre lui si
paragonava a Esaù): gli dava dell’avaro, dell’idiota, del goffo, del
contadino, del marinaio alla taverna, dello zotico, della mignatta; non
sopportava la sua ingenuità e la sua innocenza, e la sua bontà premurosa
e affettuosa.
Nel torturare il fratello, James possedeva un’astuzia diabolica, sempre
più raffinata e sottile, che lo colpiva al cuore, e faceva affondare la
sua vita in una infelicità senza misura. Quando viveva insieme a lui con
il padre e la cognata, James si rivolgeva al fratello nel modo più
gentile e squisito se qualcuno lo ascoltava, ma crudelissimo quando lo
incontrava a quattr’occhi. Il vecchio Lord e la Signora erano
quotidianamente testimoni di ciò che avveniva: avrebbero potuto giurare
in corte di giustizia che Mr. James era un modello di tolleranza e di
bonomia, e che invece Mr. Henry era un esempio di gelosia e di
ingratitudine. Quando James venne dato per morto, nemmeno allora Mr.
Henry poté avere sollievo. Il padre e la moglie si riunivano insieme in
segreto, per compiangere lo scomparso, e tenevano lontano il malvagio,
l’insensibile Mr. Henry, come se fosse un crudele impostore.
Il grande romanzo precipita all’improvviso verso il suo culmine: la
notte del 27 febbraio 1757. È il cuore del freddo, al quale Stevenson si
avvicina con lievi tocchi successivi. «Al sopravvenire della notte la
caligine si rinchiuse nell’alto; il buio calò da un cielo senz’aria, in
un’atmosfera immobile e gelida: notte inclementissima e adatta a strani
casi». «Non tirava un alito: un gelo senza vento aveva fermato l’aria;
e, mentre avanzavamo al lume delle candele, la tenebra pendeva come una
volta sul nostro capo. Non proferimmo parola; né udimmo altro suono
tranne lo scricchiolio delle nostre scarpe sul viottolo ghiacciato. Il
fremito della notte mi si ghiacciò addosso come un secchio d’acqua,
accrescendo nelle mie vene il tremito provocato dal terrore».
Avvicinandosi al cuore del freddo, Henry si trasformò: dopo aver udito
una terribile offesa di James, diventò calmo, lucido, determinato,
sicuro. Si alzò in piedi lentamente, molto lentamente, avendo l’aria di
essere immerso in profondi pensieri. «Che vigliacco!» — disse piano come
parlando a sé stesso. Poi, senza fretta e senza speciale violenza,
diede un rovescio sulla bocca di James. Mr. James balzò in piedi, come
trasfigurato: «Non mi parve mai tanto bello», commentò Mackellar. «Le
mani addosso a me, esclamò. Non lo sopporterei da Dio onnipotente». Poi,
nel gelo, la rapidissima scena del duello. Henry, completamente
trasformato, incalzò il fratello con una furia contenuta e trionfante:
finché James, menando il colpo a vuoto, inciampò nel ginocchio del
fratello e, prima di potersi riprendere, venne trafitto dalla spada di
lui, guizzò per un momento come un verme calpestato e poi giacque
immobile al suolo. Mackellar e Henry lo credettero morto.
* * *
Questa scena è il meraviglioso culmine tragico del libro. Poi tutto
crolla, sebbene il racconto conservi la sua straordinaria bellezza.
Henry ha un lungo e terribile incubo, dal quale esce cambiato,
abbandonandosi all’odio per il fratello. Sopporta un «grave scadimento»:
subisce la pietà di se stesso, piagnucola, beve; la faccia appare
invecchiata, la bocca malinconica, la dentatura scoperta in un perpetuo
rictus, l’iride dilatata in un campo bianco iniettato di sangue.
Intanto Mackellar si avvicina al genio del male sconfitto: fa un viaggio
con lui attraverso l’Atlantico; talora prova nausea come davanti a un
essere immondo, talora ribrezzo, talora una strana ammirazione piena di
complicità e di odio. Anche la Geenna, conclude Mackellar, «può avere
nobili ardori».
Nell’ultima pagina del romanzo, due lapidi. La prima: «James Durie,/
erede di un titolo scozzese,/ signore delle arti e delle grazie,/
ammirato in Europa, in Asia, in America,/ in guerra e in pace,/ nelle
tende dei cacciatori selvaggi/ e nelle cittadelle dei re,/ nonostante i
grandi meriti,/ le molte imprese e le dure privazioni,/ qui giace
obliato». La seconda: «Henry Durie,/ fratello di lui,/ dopo una vita di
immeritati affanni/ coraggiosamente sopportati,/ morì quasi al tempo
stesso;/ e dorme nella stessa tomba/ del suo fraterno avversario./ La
pietà della moglie/ e di un vecchio servo/ pose questa memoria/ad
entrambi».
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