domenica 15 giugno 2014

La guerra di posizione in Italia: ancora l'Epistolario di Palmiro Togliatti


La guerra di posizione in ItaliaLeggi anche qui per Serri


Il comunista che misurava i discorsi a chili Ovvero il vostro aff.mo Palmiro Togliatti

di Luciano Canfora Corriere La Lettura 15.6.14


Pensavamo di sapere quasi tutto sulla biografia e sulla documentazione relativa a Palmiro Togliatti di cui, tra qualche mese, ricorre il cinquantesimo anniversario della morte, avvenuta a Yalta il 21 agosto del 1964. In realtà l’editoria riguardante l’opera di Togliatti presenta luci e ombre. Proprio i vent’anni 1944-1964, da lui trascorsi ininterrottamente in Italia dopo il lungo esilio impostogli dal fascismo e dalla pesante condanna in contumacia inflittagli dal Tribunale speciale, sono documentati mediocremente nei due tomi finali, purtroppo selettivi, dell’edizione delle Opere pubblicati dagli Editori Riuniti. 
Su iniziativa di Nilde Jotti la Camera dei deputati pubblicò tutti i discorsi parlamentari di Togliatti. Raccolte antologiche di scritti occasionali furono edite negli anni successivi. Non si era ancora tentato uno sforzo in direzione dell’epistolario. Di grande rilievo, tanto più che molte delle lettere di un uomo politico di spicco — lo dimostra l’epistolario ciceroniano — costituiscono la prosecuzione dell’opera sua. 
Da qualche settimana, presso Einaudi, per cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi, è apparso un volume intitolato Palmiro Togliatti. Epistolario 1944-1964 , con brevissima introduzione di Giuseppe Vacca, il quale ha voluto dare al volume l’incipitaria definizione: La guerra di posizione in Italia . È un titolo che propone già di per sé una interpretazione del materiale offerto, nonché dell’azione politica di Togliatti nei vent’anni più importanti della sua militanza politica. Tale militanza viene interpretata come un programma di azione che non perde di vista un obiettivo che si allontana però via via nel tempo, quello della trasformazione dell’Italia in senso socialista, ma che ritiene di avvicinarvisi attraverso una molecolare, capillare «guerra di posizione» (formula gramsciana), nel corso della quale si produrrebbe per gradi, ma inesorabilmente, una sorta di «rivoluzione passiva». 
In attesa di una vera edizione critica dell’intero epistolario, questa prima edizione selettiva si lascia apprezzare per le molte novità, meno invece per le indicazioni non sempre esaurienti di carattere archivistico. Imploriamo i due curatori di introdurre prima o dopo il testo una tavola completa delle sigle e abbreviazioni che pullulano lungo il testo e galleggiano qua e là nella Nota dei curatori . 
La materia è talmente ricca che è difficile darne un quadro d’insieme. Ci limiteremo a qualche esempio. Di straordinaria efficacia lo scambio di lettere con Pietro Nenni a proposito della decadenza della prassi parlamentare (pp. 354-355). Si tratta di lettere del maggio 1964 che risalgono dunque ad un periodo nel quale Nenni è al governo e Togliatti all’opposizione. Giova trascrivere la icastica descrizione dello scadimento dello stile di lavoro dei parlamentari che Togliatti destina al suo interlocutore: «Il problema che pongo è quello della decadenza del dibattito e quindi anche dell’istituto parlamentare. Questi discorsi ad aula vuota, nell’assenza totale o quasi dei partiti governativi e dei dirigenti del governo, e i voti che intervengono poi, a corridoi affollati, su posizioni elaborate in altra sede, sono un fatto assai grave. Sono la conseguenza, in parte, del regime di vita parlamentare instaurato da Gronchi, e della discriminazione delle opposizioni di sinistra (“faccian pure discorsi, tanto non contano niente”!), ma ciò ne accresce la gravità. Sono una delle radici del qualunquismo antidemocratico, oggi così popolare». 
La risposta di Nenni è difensiva. Addebita tale decadenza a «voi più che a noi» e accusa il Partito comunista di «usare la tribuna parlamentare per fini esclusivi di propaganda [...] misurando i discorsi a ore e a chili». Ben singolare addebito da parte di un uomo che per tantissima parte della sua vita era stato consapevole della funzione del Parlamento come tribuna dell’opposizione. I suoi maestri socialisti ben lo sapevano. Ma era anche prassi del parlamentarismo britannico, del quale è pur rituale, da parte dei ben pensanti, tessere l’elogio. 
Non sfugge d’altro canto, seguendo il filo di queste lettere, il complesso di inferiorità che Nenni avverte nei confronti di Togliatti. Non sempre, s’intende, è Togliatti all’offensiva. In circostanze ardue la sua difesa della linea di partito è imbarazzata o addirittura sommaria ed elusiva: si veda a p. 226 la polemica contro Salvemini che «pone la questione dei fondi che il nostro partito riceverebbe da Stati stranieri». 
Apprendiamo infine da questa edizione che la ormai celebre lettera di Togliatti a Donini in difesa di Gramsci e sul concetto di «storiografia marxista» non era inedita quando fu pubblicata nel gennaio 1991: era già apparsa nel dicembre 1989 sul «Calendario del Popolo», con una flebile replica dello stesso Donini. Se i curatori avessero incluso la replica di Donini, avrebbero reso un buon servizio a Togliatti. 



Palmiro Togliatti (1893 - 1964)

Il Migliore, un alieno
Le lettere del leader mostrano la distanza dal nostro tempo: non confondeva la qualità delle risposte con la loro velocità

di Sergio Luzzatto
 il Sole24ore domenica 15.6.14


È netta, in questo anno 2014, la vittoria postuma di Enrico Berlinguer su Palmiro Togliatti. Per il trentesimo anniversario della morte di Berlinguer, film, libri, pagine Facebook. Per il cinquantesimo anniversario della morte di Togliatti, poco o niente. E ci si chiede se ciò dipenda unicamente dai vent'anni di distanza – 1984, 1964 – nell'esercizio ideologico e psicologico dell'amarcord. Dal fatto che nel caso di Berlinguer la nostalgia di una certa politica e di se stessi sia la nostalgia dei cinquantenni, cioè di chi adesso (in un modo o nell'altro) fa opinione. Mentre nel caso di Togliatti sarebbe nostalgia di settantenni, cioè di chi (in un modo o nell'altro) ha ormai fatto il suo tempo.
Forse la differenza d'intensità nel l'amarcord dipende anche da qualcosa di più sostanziale e profondo: da un rassicurante luogo comune. Il luogo comune secondo cui Togliatti non ci parla più perché resta, irrimediabilmente, il «compagno Ercoli»: incarna un comunismo da Terza Internazionale, dunque condivide le colpe dello stalinismo. Mentre a «Enrico» tutti vogliamo bene perché incarna una concezione del comunismo diversa, quasi opposta: l'idea di una fuoriuscita dal modello della rivoluzione bolscevica, che aveva esaurito (come Berlinguer riconobbe nel 1981, con memorabile eufemismo) la sua «spinta propulsiva».
Ha qualcosa di vero, evidentemente, il luogo comune sulla lontananza storica di Berlinguer da Togliatti. Rischia però di nascondere l'appartenenza di entrambi i leader non soltanto a una medesima linea programmatica, la «via italiana al socialismo», ma a una medesima cultura politica: la cultura della «Repubblica dei partiti», e in particolare dei partiti di massa. D'altronde, l'interpretazione stessa che i due segretari generali del Pci vollero dare delle forme pratiche e simboliche della loro leadership testimonia di una continuità piuttosto che di una rottura. Così come si iscrivono in continuità, rispetto al vissuto del «popolo comunista», i cerimoniali funebri di Togliatti e di Berlinguer: a distanza di vent'anni, due luttuose spettacolari variazioni su un unico tema, quello del segretario del Partito come capo carismatico.
C'è voluto non uno storico ma uno scrittore – Francesco Piccolo, con Il desiderio di essere come tutti – per ragionare senza ipocrisie sulla nostalgia per Berlinguer come su una forma più o meno patetica di ricerca del tempo perduto. E c'è voluto Piccolo per sottolineare fino a che punto i funerali di Berlinguer chiudano un pezzo di storia dell'Italia repubblicana e ne inaugurino un altro (che è poi il pezzo di storia che stiamo vivendo a tutt'oggi, in una cosiddetta Seconda Repubblica segnata dalla parabola di Silvio Berlusconi e continuata forse, chissà, dalla parabola di Matteo Renzi). Qui, resta appunto da aggiungere che il tempo perduto di Berlinguer somiglia al tempo perduto di Togliatti molto più di quanto i nostalgici di «Enrico» siano disposti ad ammettere.
Il tempo perduto di Togliatti: fra le rare iniziative che accompagnano il cinquantesimo anniversario della sua morte va segnalata la pubblicazione, da Einaudi, di una scelta di lettere tratte dall'epistolario del «Migliore». Lettere che si leggono un po' come si salirebbe su una macchina del tempo. Scritte dal 1944 al 1964, nel ventennio compreso fra il rientro di Togliatti dall'esilio moscovita e la scomparsa in quel di Yalta, le missive indirizzate dal segretario del Pci a una varietà di destinatari – dirigenti di altri partiti comunisti, militanti di base, alleati o avversari politici, intellettuali vicini o lontani – valgono a sottolineare la distanza fra il suo mondo e il nostro. Al lettore odierno dell'epistolario, il Migliore fa l'effetto di un alieno.
Non si tratta soltanto, prevedibilmente, dell'alienità di un uomo temprato alla vita politica dalla doppia esperienza dei totalitarismi, di destra e di sinistra: un uomo giunto all'appuntamento della lotta democratica, nell'Italia postbellica, con un bagaglio di cinismo che puntualmente si ritrova nelle sue lettere dell'epoca. Il cinismo che già nell'aprile del 1946, prima ancora delle elezioni per l'Assemblea costituente, spingeva Togliatti a rassicurare il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, sul fatto che mai e poi mai il Pci avrebbe disturbato la Dc sul terreno del Concordato con il Vaticano, né su qualsivoglia altra faccenda «che riguardasse anche lontanamente la religione».
Nell'autunno del 1949, era obbedendo allo stesso cinismo che Togliatti riduceva a perversione privata la denuncia pubblica del comunismo contenuta nel libro più discusso di quella stagione, Il dio che è fallito di Silone, Koestler, Gide e altri ex «compagni di strada». Scrivendo alla «Fiera Letteraria», il segretario del Pci spiegava la disillusione di André Gide rispetto all'Unione Sovietica con l'insoddisfazione di un pederasta reso famelico dal superamento comunista dei vizietti borghesi: «Vedete, mi son detto, se, quando costui ha visitato la Russia, gli avessero messo accanto un energico e poco schizzinoso bestione che gli avesse dato le metafisiche soddisfazioni ch'egli cerca, quanto bene avrebbe detto, al ritorno, di quel Paese. Gli è che laggiù di quei bestioni non ce ne sono più!».
Quale emerge dall'epistolario, l'alienità di Togliatti rispetto al nostro tempo è anche quella di un leader di partito che coltivava la sua propria leadership secondo una maniera sideralmente diversa da come la coltivano i leader di oggi. Ecco – per esempio – il Palmiro Togliatti che nel febbraio del 1953 si appresta a compiere sessant'anni e che respinge con sdegno, scrivendone a Luigi Longo, la sola idea che un'artista amica potesse festeggiare il genetliaco scolpendogli un busto: «Questo si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridicola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distruggere il già fatto».
Difficile da credere, in questi nostri tempi dove il rapporto del leader politico con il militante vero o potenziale ha la forma moltiplicata di un selfie che il leader di turno si guarda bene dal trovare ridicolo. Così pure, sommersi dai tweets dei leader nostrani, fatichiamo oggi a credere che Togliatti rimproverasse ai compagni di trattarlo come qualcuno con la battuta sempre pronta, sempre disponibile ad andare in giro per distribuire a ritta e a manca chissà quali pillole di saggezza. Da una lettera del 23 marzo 1961 alla Federazione comunista di Bologna: «Voi mi considerate come quegli apparecchi automatici che ti servono a tua scelta, solo che tocchi un bottone, un pollo arrosto, o un bicchiere di birra o una caramella al miele».
In generale, l'alienità di Togliatti rispetto al nostro tempo è quella di un leader che non confondeva la qualità delle risposte con la loro velocità. Al contrario, il Migliore insisteva sul carattere obbligato del nesso fra la lentezza di un approfondimento intellettuale e la correttezza di una scelta politica. Le sue lettere ai compagni ripicchiavano il tasto di un impegno fondato sulla «ricerca attenta, paziente, larga, dei materiali di fatto». «Questo è vero studio, e studio che rende, anche per comprendere meglio le posizioni generali. Ma richiede attenzione, applicazione, pazienza, sforzo, disciplina – e ore e ore di lavoro». Slow Politics. 

2 commenti:

massimo z ha detto...

Le segnalo, se già non lo sapesse, l'ultimo numero di nuova storia contemporanea interamente dedicato al "migliore". Saluti mz

materialismostorico ha detto...

Grazie per la segnalazione. SGA