martedì 10 giugno 2014

Luca Canali


Canali, una vita in latinoDocente, poeta e scrittore si è spento ieri a 89 anni
l’Unità 9.6.14


ERA ALLA SOGLIA DEI NOVANT’ANNI, LUCA CANALI, MORTO IERI A ROMA DOPO UNA MALATTIA. È STATO UNO DEI MAGGIORI LATINISTI ITALIANI, SCRITTORE E POETA. Allievo di Ettore Paratore, con cui si era laureato su Lucrezio e di cui è stato assistente, Canali ha insegnato a lungo letteratura latina all’università di Pisa. Lasciò la cattedra all’inizio degli anni Ottanta, prima del tempo, per poi dedicarsi alla scrittura saggistica e narrativa. La sua opera, per mole, è impressionante: decine e decine di volumi, attraverso i quali - accanto al lavoro più accademico - ha messo a fuoco in una chiave divulgativa ma rigorosa la storia romana, con predilezione per le tinte fosche, gli intrighi, i vizi, gli scandali, il potere, l’eros, la follia. Vita, sesso, morte nella letteratura latina (1980) prepara il terreno a testi a metà fra saggistica e narrativa, su Cesare, su Augusto, sui potenti di Roma antica, o all’autobiografia immaginaria di Lucrezio, di cui tradusse splendidamente il De rerum natura. Ha tradotto l’Eneide di Virgilio, la Farsaglia di Lucano, le Odi di Orazio, gli Epigrammi di Seneca, ha tradotto Catullo e Petronio. Ha attraversato, da autore, generi diversi con disinvoltura, affidandosi - per guardare più da vicino i grandi dell’antichità - di volta in volta all’intervista immaginaria, al «diario segreto», alla riscrittura, come nel caso del Satyricon di Petronio. Fellini, per il suo Fellini Satyricon, gli chiese una consulenza, e Canali parecchi anni dopo inseguì l’idea di un suo Canali Satyricon (Manni lo pubblicò nel 2008). 
La lunga vita di Canali è segnata da un’inquietudine senza posa, da un’attività quasi febbrile, che negli ultimi anni lo ha portato a pubblicare moltissimo anche da marchi editoriali minuscoli. Con Cavallo di Ferro ha pubblicato l’anno scorso un breve romanzo, Matchnullo, candidato allo Strega 2014 ma non incluso nella dozzina. Il protagonista, come l’autore, si chiama Luca, malinconico e burbero. In filigrana, dietro Luca c’è proprio Canali, la sua vita universitaria, la sua militanza politica nel comunismo. «La vita è una gara, e durissima, no? Tutto sta nell’imparare i metodi per vincerla ». Gli ultimi versi sono affidati alla plaquette Semplice cronaca (Ladolfi). Vi compaiono piccole figure solitarie, anzi ammalate di solitudine, come forse era pure l’autore, sempre più appartato e cupo, risentito. Canali era un nichilista? Forse sì, a un passo da lì, da quella posizione, da quel «senza scampo» che dà il titolo a una poesia su una pecora che arranca disperata sull’asfalto. Ma poi magari sapeva guardare gli oleandri nelle stazioni di servizio, «polverosi nell’ardore della canicola» e provare gratitudine «per quella floreale vocazione ad ornare luoghi disidratati». L’anno scorso era stato ripubblicato da Mondadori il suo romanzo maggiore, Autobiografia di un baro (1984), storia - anche questa molto vicina al vissuto - di un ragazzo che si butta a capofitto nella lotta politica e si trova infine a dover combattere con la propria stessa testa, con la nevrosi che la assedia, con la depressione. Così Canali è stato segnato da quest’ombra, da fobie e ossessioni che travasava nella cupezza del suo narrare. Ognuno soffre la sua ombra è un suo titolo bellissimo, che vale - quanto Autobiografia di un baro - da esergo a un’intera vita: Lucrezio, Catullo, Giovenale riletti narrativamente come «grandi nevrotici». 
Dopo esserne stato lo studioso e il traduttore, era diventato l’analista dei suoi amati poeti e di sé stesso. C’è un Catullo ventottenne che confessa il proprio disagio psicologico; l’interlocutore lo incalza, lui si apre: «Ricordo di avere attraversato un periodo di profondo smarrimento. E Lesbia allora non c’era. Non mangiavo, non dormivo, vivevo di incubi… Già a quel tempo ero pieno di contraddizioni. A volte mi percepivo molto più capace e intelligente dei miei coetanei, altre volte vivevo complessi di inferiorità abissali. Sin da bambino ho sempre avuto la sensazione che qualcuno alle spalle mi scrutasse, mi giudicasse… Questa sensazione non mi ha mai abbandonato del tutto ». 
La sua voce, nelle ultime telefonate, era stanca, ma ancora curiosa, sospesa tra la distanza dalle cose e dal mondo e una strana, ancora vitale voglia di partecipare, di esserci, di sapere, di scrivere, di sbraitare. Aveva collaborato a lungo con queste pagine. Il giorno in cui era uscita una recensione al suo ultimo libro di versi mi chiamò per ringraziare. Gli chiesi ingenuamente se fosse stato informato dall’editore. «L’Unità la leggo tutti i giorni» mi disse con quel tono secco e burbero, che era il suo, e non ammetteva repliche.



Luca Canali il baro amante del latino

Lo scrittore è morto ieri a Roma a 89 anni. Studioso dell’antichità, fu nel Pci e raccontò la Resistenza

di Paolo Mauri Repubblica 9.6.14





Ettore Paratore faceva lezione, alla Facoltà di Lettere di Roma, nell’aula prima, affollatissima, anche perché la frequenza era in quegli anni obbligatoria. Montava materialmente in cattedra, una cattedra molto alta, non prima d’aver controllato che attorno al tavolo che stava proprio sotto la cattedra sedessero i suoi assistenti, di cui era maestro e anche un po’ tiranno. Luca Canali, scomparso ieri a Roma quasi novantenne, era tra loro, latinista, ma non solo. All’epoca trovavo bellissimo il suo ritratto di Cesare, che non ho più riletto e bellissime erano anche le sue traduzioni.

Intanto, nel ‘65 era uscito un suo libro di riflessioni più o meno storico- filosofiche, con una lettera di Montale che il Corriere della sera aveva pubblicato come elzeviro: “La Resistenza impura”. Canali, allora quarantenne, era un uomo molto bello (le ragazze di Lettere non avevano dubbi) e in più era comunista. Un comunista alla corte del rigido conservatore Paratore che avrebbe presto proposto ai suoi studenti “rivoluzionari” per la traduzione in latino un brano di Mao, suggerendo di volgere «comunisti » con «omnia qui communia censent». Canali ne avrebbe comunque conservato un buon ricordo: il suo mestiere lo sapeva ed era coltissimo, aveva solo il torto di scrivere terribili romanzi, come raccontò nella recente e lucidissima intervista a tutto campo di Antonio Gnoli ( Repubblica, 29 settembre 2013), dove rivelava di avere una figlia segreta e concludeva un ragionamento durato, credo, una vita intera: «La storia insegna che il mondo è un incubo senza risveglio». “La Resistenza impura” insinuava molti dubbi sui risultati raggiunti da una generazione che aveva conosciuto l’azione diretta contro i nazifascisti (Canali era entrato nelle formazioni di Giustizia e Libertà e solo in seguito aveva aderito al Pci) ed ora assisteva alla caduta di tanti ideali. Nel ‘58, dopo i fatti d’Ungheria, il compagno Canali che aveva diretto diverse sezioni del Pci, ma aveva manifestato dei dubbi su quanto andava accadendo era stato buttato fuori dal Partito con diversi altri e vi sarebbe rientrato solo molto più tardi. La sua storia si incamminava ad essere quella di uno studioso di letteratura latina che presto avrebbe avuto i suoi successi lavorando su Lucrezio, Virgilio, Giovenale (divenne anche consulente per il Satyricon di Federico Fellini) e che avrebbe continuato a suo modo nella militanza politica. Nel ‘77 pubblicò Quel punto di luce (Vangelista editore), un libro sulla Resistenza a Roma, con i ritratti di alcuni partigiani torturati e uccisi dove ribatteva ad una affermazione di De Felice che dichiarava di non credere alle rivoluzioni tradite, alle resistenze tradite. «Io invece ci credo», scriveva Canali, «per dirla con la stessa rozzezza, e penso anzi sia una legge storica che tutte le rivoluzioni siano tradite». In qualche modo il tradimento diventa più propriamente un assestamento e poco oltre Canali ritorna sul concetto di Resistenza impura: «tutte le rivoluzioni coinvolgono in sé l’“impuro”, il reale imperfetto, il tornaconto personale, il casuale, e perfino la viltà e la delazione ».

In realtà Canali pensava molto anche a se stesso, alla sua storia personale, alla famiglia da cui proveniva, al suo modo di stare al mondo. Il padre faceva il carbonaio e con lui non c’era stata praticamente mai una vera confidenza. Da un certo punto in poi Canali diventa dunque un acuto narratore di se stesso e delle vicende che lo riguardano sul piano personale e persino su quello sessuale che dopo l’apprendistato nelle case chiuse si rivela problematico o semplicemente predatorio (molto poco invece racconta sul piano professionale che sembra appartenere ad un’altra persona). Nel 1980 esce Il sorriso di Giulia , (Editori Riuniti). Giulia è la figlia di Luca. Alla fine del romanzo c’è un capitolo intitolato «Come vorrei essere ricordato». Parla di una fotografia scattata nel ‘73: «È forse l’unica foto della mia vita in cui sembro soddisfatto di me, padre correttamente seduto sul divano con la figlia treenne». La normalità era già un rimpianto. Nel frattempo Canali aveva vinto una cattedra a Pisa e faceva su e giù da Roma con la sua velocissima Porsche. È più o meno in questo periodo che matura ed esplode una fortissima depressione accompagnata da una psiconevrosi piuttosto grave. Canali si guarda ora soffrire, ancora una volta con spietata acutezza e scrive l’ Autobiografia di un baro (Bompiani, 1983). Mi capitò di leggerla proprio su un treno che mi portava a Pisa. Mi turbò. Non ne volevo scrivere. Poi invece pensai che scriverne era doveroso e dichiarai subito che la mia non era una recensione nel senso classico del termine. Si può recensire la sconfitta, la sofferenza? Canali, che resta comunque un eccellente scrittore, comunica al lettore il dolore per una vita distrutta, nella quale (a torto) pensa di avere avuto la parte di un baro. Ma un baro, obiettavo, può perdere sempre? Non sono l’unico a pensare che questo suo libro, ristampato anche in anni recenti (negli Oscar Mondadori), sia quello che meglio lo rappresenta, anche se su se stesso sarebbe tornato molte volte e citiamo almeno Spezzare l’assedio (Bompiani, 1984) dove però i fatti sono in qualche modo romanzati.
Autobiografia di un baro si chiude con un capitolo scritto da Maria, la ragazza spagnola che era venuta in Italia e che sarebbe diventata sua moglie. È un’altra pagina di delusione e di dolore dove si vede Luca indifferente conquistatore, poco incline al sentimento. «Ho conosciuto un giovane uomo pieno di dubbi e di ragioni, bello come una statua greca…». Così comincia il capitolo firmato da Maria ora da tempo scomparsa. Invecchiando in solitudine Canali era diventato l’ombra di se stesso. La sua bibliografia, tra saggi, traduzioni, narrativa e poesia, è infinita (Giunti ha pubblicato proprio in questi giorni Pax alla romana. Gli eterni vizi del potere , scritto a quattro mani con Lorenzo Perilli), ma lui stesso ammise che spesso scriveva per terapia. Se nella scrittura e nella letteratura cerchiamo qualcosa che ci faccia conoscere meglio gli uomini e la loro sorte, Canali resta un autore di singolare e (posso dirlo?) perverso fascino. Suo malgrado, un testimone protagonista del nostro recente passato.





Luca Canali ha spezzato l’assedio

L’esistenza in ostaggio del male di vivere: scrivere non lo consolò

di Alessandro Piperno Corriere 9.6.14



Anni fa, imbattendomi in Qualcosa è cambiato — uno spassoso film in cui Jack Nicholson veste i panni di uno scrittore recluso che cerca di esorcizzare coazioni nevrotiche di ogni sorta attraverso la pratica non meno compulsiva della scrittura — pensai a Luca Canali. Per me un caro amico, appena scomparso, una specie di mentore, a suo modo un impareggiabile maestro di stile. Ricordo che gliene parlai, e gli dissi anche che il vecchio Jack alla fine del film se la cavava piuttosto bene: Hollywood sa come chiudere in bellezza le sue fiabe e ricompensare i suoi eroi. «Qualcosa è cambiato? — disse lui contrariato — beh, mi sa che per me non cambierà un bel niente». Era piuttosto irritato che paragonassi una commedia sentimentale alla sua vita. 

Non ne parlerei in modo così impudico — del disagio psichico, intendo — se esso non fosse il tema dominante di tutta la narrativa e dell’intera esistenza di Luca Canali. Una volta mi disse che, a dispetto di quello che pensano certi romantici ciarlatani, nulla è meno creativo del disagio psichico. E parlava (come al solito) con cognizione di causa. A quarant’anni Luca Canali era un uomo bellissimo, un disincantato libertino, alle spalle la Resistenza e una militanza tosta nel Pci (quando essere comunisti era roba seria) finita con un’abiura dopo i fatti di Ungheria. Allievo riottoso e dissidente di Paratore, era da poco diventato ordinario di Letteratura latina. Frattanto aveva già iniziato la sua formidabile carriera di traduttore (Cesare, Catullo, Lucrezio...). Un suo libro bizzarro, La resistenza impura , era stato pubblicamente elogiato da Montale. Inoltre, Canali aveva prestato la sua consulenza a Fellini che stava girando il Satyricon . 
Poi il crollo, i ricoveri, la lunga clausura nelle tenebre dello spirito. 
Quando lo conobbi questa era già storia. Alla quale aveva dedicato tre libri spudorati: Autobiografia di un baro , Amate ombre e Spezzare l’assedio . Tre titoli, converrete con me, bellissimi. Che dicono tutto di Canali. Il suo desiderio di auto-calunniarsi, la sua nostalgia straziante per chi non c’è più e la lotta per liberarsi dall’assedio della malattia. Il modo attraverso il quale Canali teneva a bada tutto questo caos era la sintassi. Deliberatamente ispirata a quella latina, la sintassi di Canali conferiva alla prosa una specie di solennità baudelairiana. Un assaggio? All’inizio di un racconto si sta rivolgendo direttamente a un amico morto, di nome Pietro: «Pietro, tu eri Pietro, ma sulla tua pietra nessuno edificherà la sua chiesa. All’amico venuto in città dal suo regno di provincia per indiscutibili impegni familiari e industriali, oltre che come sempre ognuno per chi sa quale oscuro eterodosso miraggio, e certo per rintracciare passi e amici perduti, mi sono dimenticato di dire di te, che non eri più sulla terra, ma sotto, parallelo a tanti altri, orizzontale, a decomporti con il lombrico, la buccia di patata, il seme d’orzo, l’orina del randagio». 
Eccolo qui, Canali allo stato puro. C’è tutto il suo materialismo, c’è l’orrore per la decomposizione. C’è l’involuzione sintattica al servizio di un pensiero disperato. Il lessico preciso e brutale. C’è l’immaginazione macabra smussata dalla pietà e dalla tenerezza. C’è, anche se dietro le quinte, la sua Roma. Una specie di sintesi tra la Roma di Augusto e quella degli artisti di via Margutta. Il cinismo, la violenza, il sesso. Tutto mescolato. 
Nella mia vita non ho mai incontrato un uomo più consapevolmente (vorrei dire virilmente, se non suonasse sessista) disperato di Luca Canali. La vita non ha senso. E neppure la morte ce l’ha. Dio non esiste. Il Diavolo fa ridere i polli. La sola verità è il corpo e la materia. È tutto lì. Non c’è altro. Non a caso Canali venerava Lucrezio, Leopardi e Joyce. Non che avessero qualcosa in comune (o forse sì), ma certo tutti e tre, e ciascuno in modo diverso, coltivavano un’idea non proprio idilliaca della condizione umana. 

È un vero peccato che Canali abbia scritto così tanto. Che non sia riuscito a disciplinarsi. E che con il tempo la sua vena si sia così opacizzata. Del resto, era lui a dirlo: la malattia, la clausura non insegnano niente, neppure a uno scrittore. Se si fosse meglio amministrato, se non avesse usato la scrittura per colmare quel gigantesco buco, forse oggi i suoi scritti migliori sarebbero inseriti nelle più selettive antologie del Secondo Dopoguerra. Ma dopotutto chi se ne frega delle antologie?



Una disperazione lucreziana
Ritratti. Un ricordo del grande latinista Luca Canali, traduttore raffinato, ma anche romanziere e poeta dolente
Alessandro Fo, il Manifesto 10.6.2014

In un suo romanzo, Luca Canali si effi­gia come il gio­vane affa­sci­nante pro­fes­sore che si com­piace di «fare colpo» arri­vando in facoltà con la sua spi­der. E così lo ritrae Mau­ri­zio Bet­tini, sui pro­pri ricordi di stu­dente a Pisa: non gli era sfug­gito quello «strano lati­ni­sta», che era un intel­let­tuale impe­gnato, ma al con­tempo un uomo di mondo, e un affer­mato scrit­tore, non ancora fal­ciato dalla depres­sione. È que­sto solo uno dei molti Luca che si sono inse­guiti in una vita ricca tanto di suc­cessi quanto di infe­li­cità.
Canali è stato un impor­tante divul­ga­tore della cul­tura latina, sia come tra­dut­tore (Lucre­zio, Catullo, Vir­gi­lio, gli ele­giaci, Lucano e molti altri), sia come autore di romanzi che «riscri­vono» l’avventura bio­gra­fica di alcuni grandi scrit­tori da lui sem­pre amati (si pensi a Lucre­zio e Giu­lio Cesare). Ha avuto anche un’apprezzabile for­tuna come roman­ziere, soprat­tutto con Auto­bio­gra­fia di un baro (1983), il libro che accom­pa­gnò le sue dimis­sioni dall’università con una pub­blica con­fes­sione di tutti que­gli aspetti del carat­tere (e della soc­com­bente con­di­zione di malato) con i quali, pur in costante lotta inte­riore, si tro­vava costretto a con­vi­vere.
Ma è stato soprat­tutto un poeta, e credo che di tutta la sua pro­du­zione, così ricca e diva­ri­cata dalla sag­gi­stica alla prosa d’arte, pro­prio la poe­sia sia l’ambito in cui si è espresso ai livelli più alti. Lati­ni­sta in erba, sen­tii il mio mae­stro Bruno Lui­selli espri­mersi in modo toc­cante sulla rac­colta La deriva (1979). Com­prai quel libro e lo sco­prii dolente, pro­fondo e memo­ra­bile. Come quasi sem­pre le poe­sie di Canali: è spe­cial­mente nei versi che egli sa cogliere, della vita e delle sue com­pli­cate sinuo­sità, ciò che risulta essen­ziale e rile­vante.
Più tardi ho avuto la for­tuna di cono­scerlo per­so­nal­mente e col­la­bo­rare con lui all’Anto­lo­gia della poe­sia latina dei «Meri­diani», di acce­dere alla sua casa tutta libri e felini, di cogliere in lui (da un vetu­sto divano) un Camões in disarmo che, esau­ri­tasi la can­dela, con­ti­nua a scri­vere al lume degli occhi del gatto. Il play-boy della spi­der era dive­nuto un anziano ferito, schivo, intro­verso. Ma era stato e rima­neva un uomo nobile e gene­roso. La melo­dia del Quin­tetto op. 115 di Brahms, die­tro fat­tezze severe, degne del Velá­z­quez che immor­talò l’acquaiolo di Sivi­glia.
Da stu­dioso, ho talora riper­corso il ruolo dei suoi scritti nella rice­zione dei clas­sici, e in que­sto ambito ho asse­gnato molte tesi su di lui. L’ultima, di Ste­fa­nia Gar­gano (il cui capi­tolo bio­gra­fico è da ieri dispo­ni­bile su Face­book), chia­ri­sce come, secondo una frase di Ripel­lino «ogni discorso sugli altri è un dia­rio truc­cato» (pro­prio da Il trucco e l’anima). Nelle sue molte «riscrit­ture» del per­so­nag­gio di Catullo, Canali ha dipinto le pro­prie dif­fi­coltà nella sfera degli amori. Avver­tiva in modo quasi inva­sivo e lace­rante l’ineluttabile sedu­zione della bel­lezza fem­mi­nile. E tanto più ne sof­friva in quanto si sen­tiva ina­datto a ono­rarla come amante plau­si­bile, come atten­di­bile marito.
Meno risa­puto è che una parte della sua poe­sia si è rivolta, da lon­tano, al divino. Pur dall’osservatorio di un deso­lato mate­ria­li­smo, Canali ha guar­dato spesso con dispe­rata nostal­gia a quella forse illu­so­ria, ma pos­si­bile, pace. Una ricerca che, a quanto pare, lo ha accom­pa­gnato fino alle ultime ore. È Il vuoto cui s’intitola una poe­sia di Sti­lemi (Milano 1982): «Tuona d’aprile. Pasqua è già lontana/ con due visite in chiesa per amore/ di figlia e sposa. Non sem­brò blasfema/ tra i misteri euca­ri­stici la visita/ d’un uomo senza pace e senza fede./ Scro­sci di piog­gia seguono quel tuono./ Non siamo andati in chiesa stamattina/ e sento un vuoto oscuro den­tro il cuore,/ che non è fede riac­qui­stata, o voglia/ di riac­qui­starla con scarsa moneta,/ è una forma indi­retta, con­tro il vuoto,/ di ricon­durre il sacro nella vita».
Nell’affollarsi delle voci, nell’usa-e-getta che con­nota molto dell’attuale rap­porto fra let­tere e pub­blico, c’è da temere che in breve pos­sano non essere più in molti gli «addetti ai lavori», o i sem­plici let­tori, capaci di ricor­darsi di lui. Sogno spesso una col­lana di Paral­leli desti­nata a voci poe­ti­che di prima qua­lità, come Enzo Mazza o Angelo Maria Ripel­lino, che paiono aver biso­gno di alfieri con­vinti e tenaci per difen­dersi da «canoni sbri­ga­tivi’ e con­danne all’oblio. Vi figura ideal­mente anche Luca Canali, in attesa di un auspi­ca­bile Meri­diano che la sua voce austera e dispe­ra­ta­mente lucre­ziana – della stessa «solenne tri­stezza» che Anto­nio La Penna segnala in Lucre­zio – si è meri­tata.
Come è stato spesso ricor­dato, di fronte alla malat­tia Canali ha cer­cato, se non un’arma per «spez­zare l’assedio» (è il titolo di uno dei suoi romanzi), almeno una sua difesa nell’affetto della figlia e nella costante pra­tica della scrit­tura, quasi un per­pe­tuo esor­ci­smo. Così mi sem­bra che il migliore con­gedo sia tor­nare a quei suoi versi di Interno fami­gliare (ancora da Sti­lemi), in cui Canali ferma un dia­logo con la pic­cola Giu­lia. Ci sono i clas­sici, la sor­presa e l’incanto della natura e della poe­sia, la tene­rezza del padre: «(…) Ha voluto per com­mento al suo pasto che le nar­rassi una sto­ria di Ulisse,/ e più tardi, entrando fra le coperte, mi ha chie­sto noti­zie delle meduse:/ non sapeva che fos­sero ani­mali, ho aggiunto che ustionano/ con il velo lat­ti­gi­noso la mano pro­tesa a ghermirle;/ allora ha chio­sato con un errore che l’assembrava a un fra­ti­cello dei Fioretti:/ ’Gesù ha dato ad ognuno la sua difensione’».

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