domenica 15 giugno 2014

Voglia di lavorare saltami addosso, fatica tu per me che io non posso: arte e divisione capitalistica del lavoro


Bisognerà occuparsi prima o poi dell'ideologia del Manifesto nella sua storia [SGA].

Maurizio Lazzarato: Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, Temporale

Risvolto
Nella storia dell'umanità nessuna generazione ha sacrificato più tempo al lavoro quanto quelle che hanno avuto la sfortuna di nascere sotto il capitale. Ogni invenzione tecnica, sociale e scientifica, anziché liberare del tempo, non fa che estendere l'impresa del capitale sulle nostre temporalità. L'arte è dentro la divisione sociale del lavoro come ogni altra attività. Da questo punto di vista essere artista è una professione o una specializzazione come un'altra, ed è proprio questa ingiunzione a occupare, con il corpo e con l'anima, una posizione, un ruolo, un'identità, l'oggetto del rifiuto categorico e permanente di Marcel Duchamp. 


Il mio corpo non è una merce
Scaffale. «Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro». Riflessioni intorno al libro di Maurizio Lazzarato

 Marco Bascetta, 14.6.2014


Quello dell’arte è un ter­reno imper­vio. Dap­prima sem­bra offrirci un segno forte, indi­care con imme­dia­tezza il suo ber­sa­glio, con­fe­rire espres­sione vivida all’idea, mostrare nella sua pra­tica il cuore del pro­blema. E però, poi, si ritrae, non asse­conda fino in fondo ciò che vi si vor­rebbe leg­gere, afferma le pro­prie pre­ro­ga­tive, ci ricorda, alla fine, che «è sem­pre un’altra cosa». Eppure, quale esem­pio migliore di quello della pra­tica arti­stica per misu­rare il rap­porto tra mer­cato e crea­ti­vità? Non più un seg­mento ai mar­gini della grande indu­stria, una «sovra­strut­tura», o una pro­vin­cia del cosid­detto «con­sumo impro­dut­tivo», ma un rap­porto inse­diato al cen­tro stesso di quella pro­du­zione imma­te­riale che si estende, ormai, lungo tutto l’orizzonte della valo­riz­za­zione capi­ta­li­stica. E che quindi ripro­pone in ter­mini nuovi un antico pro­blema. Come sot­trarre il pro­prio agire allo sfrut­ta­mento. Come ces­sare di lavo­rare ala­cre­mente con­tro la pro­pria libertà?
Que­sto il tema che Mau­ri­zio Laz­za­rato affronta nel breve scritto dedi­cato a Mar­cel Duchamp e al suo corpo a corpo con il mer­cato dell’arte, i suoi valori, la sua tem­po­ra­lità. Nell’«agire ozioso» dell’artista, nella auto­ne­ga­zione stessa di que­sta figura, l’autore ricerca, se non pro­prio un modello, almeno una trac­cia da seguire per met­tere a fuoco il «rifiuto del lavoro» nel mondo del capi­ta­li­smo cogni­tivo.
Quello ope­raio, con­te­nuto non solo come arma ma anche come pro­fe­tico desi­de­rio di libertà nella pra­tica dello scio­pero, lo abbiamo visto esplo­dere a livello di massa e arti­co­larsi nelle forme più diverse e astute, durante tutta l’espansione dell’economia for­di­sta, fino alla sua crisi. Quello ancora più antico, fan­ta­sioso e imma­gi­ni­fico, lo tro­viamo sedi­men­tato nelle innu­me­re­voli nar­ra­zioni (pre­senti fin dal Medioevo in quasi tutti i paesi d’Europa), del Paese di Cuc­ca­gna nel quale la messa al bando del lavoro è il primo «prin­ci­pio costi­tu­zio­nale» e l’abbondanza senza sforzo l’immagine stessa del mondo libe­rato. Nes­suno, in fondo, ha mai dimen­ti­cato che il lavoro nasce espli­ci­ta­mente da una male­di­zione biblica.
Scom­parsi, almeno per il momento, i con­ta­dini affa­mati e allu­ci­nati della vec­chia Europa e in via di rapida ridu­zione gli ope­rai alie­nati inchio­dati alla catena di mon­tag­gio, il lavoro cogni­tivo, e l’«intellettualità di massa», come anche è stata desi­gnata que­sta forma emer­gente di sog­get­ti­vità, occu­pano sem­pre più dif­fu­sa­mente la scena sociale. Con il comando sapien­te­mente celato die­tro una non meno tiran­nica «com­mit­tenza» ognuno è chia­mato a «inven­tarsi» la pro­pria vita messa al lavoro, a «crearsi» un’identità pro­dut­tiva, a inno­vare se stesso come pro­dut­tore e come pro­dotto. Tutti «arti­sti», insomma, e tutti sfrut­tati. Che anche quella di arran­giarsi è pur sem­pre un’arte.
Dagli anni ’80 in poi il mito e la reto­rica della crea­ti­vità dila­gano. Qual­cuno ci vede addi­rit­tura una «classe». La «crea­ti­vità» diventa infine «capi­tale umano» e impresa. Ogni vel­leità libe­ra­to­ria è sacri­fi­cata al cal­colo costi\benefici. Il rifiuto del lavoro si fa allora pro­ble­ma­tico nel momento stesso in cui quest’ultimo si rende indi­stin­gui­bile dalla pro­pria «rea­liz­za­zione» e dalla stessa vita del sin­golo.
Ecco allora che la figura dell’artista in rivolta con­tro il pro­prio ruolo sacra­liz­zato e con­tro la sua valo­riz­za­zione sul mer­cato sem­bra mostrare in con­tro­luce un para­digma. Una stra­te­gia di ricon­qui­sta della pro­pria tem­po­ra­lità, un prin­ci­pio di auto­go­verno della vita, il recu­pero di quello spes­sore antico dell’otium, che aveva affa­sci­nato Lafar­gue. Trarre ispi­ra­zione da tutto que­sto e assu­mere la dif­fi­denza di Duchamp nei con­fronti dell’idea stessa di «crea­zione» come stru­mento di auto­di­fesa diventa a que­sto punto del tutto legit­timo e pro­met­tente. Ma la sto­ria dell’artista, con tutte le sue con­trad­di­zioni, il suo attrito con il tempo e la stessa presa di com­miato dalla pro­pria iden­tità, resta col­le­gata a una vicenda indi­vi­duale. Non­di­meno lascia il segno, apre a un pos­si­bile, sma­schera l’assenza di alter­na­tive. Allude a un gene­rale rove­scia­mento dei valori.
La sto­ria del lavoro cogni­tivo è una sto­ria col­let­tiva, sep­pure impen­sa­bile pre­scin­dendo dalle sin­go­la­rità irri­du­ci­bili che la hanno vis­suta, la vivono e le impon­gono la dimen­sione del mol­te­plice. Non sarà dun­que una pen­sie­rosa presa di coscienza, un soli­ta­rio azzardo esi­sten­ziale, a decre­tarne l’implosione, ma la ban­ca­rotta del «capi­tale crea­tivo» sul mer­cato, il suo bru­tale deprez­za­mento, la sua insu­pe­ra­bile ricat­ta­bi­lità. E qui, per il rifiuto del lavoro, comin­cia una nuova sto­ria, ancor più radi­cale di quella che la ha preceduta.

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