Curiosa e significativa la considerazione per cui " Lentezza e velocità devono così re-integrarsi, ma si tratta di una sfida irta di pericoli non sempre colti dalla riflessione di Maffei: in primo luogo, perché tutti i grandi sistemi ideologici del «secolo breve» hanno coltivato questo sogno, finendo in guerre e stermini di massa". Che vuol dire? al Manifesto se non ci mettono del loro, non sono contenti [SGA].
Lamberto Maffei: L'elogio della lentezza, Mulino
Risvolto
Siamo davvero programmati per la velocità?
Viviamo in un mondo veloce, dove il tempo sembra via via contrarsi:
continuamente connessi, chiamati a rispondere in tempi brevi a e-mail,
tweet e sms, iper-sollecitati dalle immagini, in una frenesia visiva e
cognitiva dai tratti patologici. Dimentichiamo così che il cervello è
una macchina lenta e, nel tentativo di imitare le macchine veloci,
andiamo incontro a frustrazioni e affanni. Queste pagine esplorano i
meccanismi cerebrali che guidano le reazioni rapide dell'organismo
umano, di origine sia genetica sia culturale, con un invito a scoprire i
vantaggi di una civiltà dedita alla riflessività e al pensiero lento.
Il cervello ama le tartarughe
Saggi. «L'elogio della lentezza», il libro del neuroscienziato Lamberto Maffei, pubblicato dal Mulino, che attacca la bulimia tecnologica per salvare la meditazione e le ragioni (non necessariamente veloci) del pensiero
Francesco Antonelli, il Manifesto 30.9.2014
Delle tante macchine che caratterizzano la contemporaneità, una è in grado di rappresentare meglio delle altre la nostra condizione sociale ed esistenziale: il tapis roulant. Si corre, si fatica, si suda, magari sorridendo, ma alla fine ci si trova sempre allo stesso punto. L’elogio della lentezza (Il Mulino, pp. 146, euro 12) di Lamberto Maffei, eminente neuroscienziato e presidente dell’Accademia dei Lincei, affronta in chiave critica e radicalmente umanista questo paradosso – uno dei più importanti della modernità – integrando in una prosa chiara e godibile, saperi scientifici, letterari e sociologici. La lentezza vuol dire sia vita buona che coltivazione del pensiero razionale, due valori del progetto e dell’utopia emancipativa del moderno oggi eclissati.
Tanto il poema di Goethe Faust (1808), nel quale l’omonimo scienziato, da anziano, dopo una vita di studio e sacrificio vende la propria anima a Mefistofele per avere in cambio «tutto e subito» (gioventù, sapienza e piacere), quanto il Manifesto del futurismo (1909), dove, un secolo dopo, leggiamo che ’la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo (…) è più bella della vittoria di Samotracia» rimandano, il primo intenzionalmente il secondo molto meno, alla tragedia della velocità – che la si chiami alienazione o sradicamento: l’inversione tra i mezzi e i fini, la tirannia del godimento e della tecnologia sulle donne e sugli uomini contemporanei. Da segno dell’emancipazione dalla miseria secolare, la velocità di una vita iper-tecnologizzata si rivela una gabbia di ferro: agiamo freneticamente con delle macchine che promettono di renderci felici, ritrovandoci invece ingranaggi spaesati di una macchina più vasta, quella del mondo globale.
Gli usi della tecnologia non sono però neutri: il potere economico e politico, oggi inscritti nelle dinamiche di sviluppo del capitalismo finanziario, li condizionano pesantemente. Nel suo libro Lamberto Maffei non utilizza argomentazioni moralistiche o nostalgiche per criticare tutto ciò: la sua base di partenza sono le acquisizioni delle neuroscienze e il modo in cui ci consentono di leggere il complicato intreccio tra natura e cultura. Con una sorprendente quanto illuminante denuncia: in un’epoca di vorace e retorico scientismo, la stessa scienza, con i tempi lunghi del metodo sperimentale e il valore centrale del progresso umano attraverso la conoscenza, rischia di essere soffocata dalla mercificazione della tecnologia, che passa per l’ansia di sfornare sempre nuovi prodotti per il mercato.
Nell’Elogio della lentezza viene innanzitutto mostrato come l’evoluzione della specie umana si leghi allo sviluppo del cervello, un organo caratterizzato da un’elevata plasticità: nei suoi limiti biologici, il cervello umano è in grado di plasmare se stesso in funzione degli stimoli ambientali, ove ambiente è sia la natura sia, e soprattutto, società e cultura. Partendo da ciò, e lontani anni luce dalle prospettive deterministiche del XIX secolo, le neuroscienze hanno trovato il fondamento della nostra individualità: ciascuno di noi è un singolo, risultato dell’interazione complessa della socializzazione e delle nostre «predisposizioni» genetiche. Ne deriva che siamo letteralmente plasmati da ciò che ci circonda e da questo insieme, a nostra volta, ci distinguiamo.
In questo processo evolutivo, alle risposte iperveloci, quelle dei riflessi e dell’azione «istintuale», propria anche delle altre specie animali, l’umanità ha gradualmente aggiunto lo sviluppo del pensiero e del linguaggio, tra loro strettamente connesse, e aventi principalmente sede nell’emisfero sinistro del cervello. Alla potenza di questa acquisizione evolutiva, cui si deve la stessa civiltà umana nel senso etico del termine, corrispondono i tempi lunghi dei suoi processi: il ragionare, l’argomentare, lo sperimentare su cui poggiano tutti i saperi e le scienze, richiedono uno sviluppo che sia nell’individuo che nella società, non può esaurirsi nell’istante della risposta istintuale.
Il mondo contemporaneo, sotto l’azione principale della tecnologia mercificata, incentiva comportamenti e moltiplica stimoli caratterizzati dalla crescente velocità di risposta che inverte il rapporto tra pensiero e azione. Data la plasticità del cervello, semplificando, le nostre menti si ristrutturano e le parti più evolute di essa tendono a retrocedere: come recita l’efficace titolo di uno dei capitoli del libro, alla bulimia dei consumi – che ci richiedono compulsività e poca meditazione razionale – corrisponde l’anoressia dei valori – cioè l’eclissi del pensiero razionale e della stessa scienza.
Tuttavia, non è tanto la possibilità, pur inquietante per quanto lontana, che ciò avvenga, quanto il fatto che – parafrasando Michel Maffesoli – questa nuova tribalizzazione del mondo e delle menti si stia verificando qui ed ora. Allontanandoci da ciò che ci rende più umani: l’elogio della lentezza è un appello al recupero dell’umanesimo, del mettere al servizio della realizzazione di una vita buona la conoscenza e la tecnica. Nel paradosso di Zenone, infatti, in una stessa pista la tartaruga (pensiero e meditazione) non potrà mai essere raggiunta da Achille (desiderio e forza). Lentezza e velocità devono così re-integrarsi, ma si tratta di una sfida irta di pericoli non sempre colti dalla riflessione di Maffei: in primo luogo, perché tutti i grandi sistemi ideologici del «secolo breve» hanno coltivato questo sogno, finendo in guerre e stermini di massa. In secondo luogo, perché il valore della lentezza rimanda inevitabilmente al suo essere contro-immagine del moderno stesso: il neo-tradizionalismo – anche come effetto perverso della cultura della nuova sinistra degli anni Sessanta e Settanta – con le sue inseparabili gerarchie ed autoritarismi, è dunque sempre in agguato. Coltivare il valore della lentezza vuol dire perciò prendere consapevolezza di questi rischi e agganciare saldamente questo valore ad un razionalismo scettico e non settario, in grado di dubitare anche di se stesso.
La lentezza fa vivere meglio Ma soltanto se hai tanti soldi
Il francese Carl Honoré elogia i ritmi ritardati, dalla tavola al sesso tantrico e alla medicina omeopatica. Tanto da far desiderare di tornare al futurismo4 dic 2014 Libero TOMMASO LABRANCA
Raramente ho letto un libro così irritante come Elogio della lentezza. Rallentare per vivere meglio di Carl Honoré ( Bur, pp. 366, euro 10). Serviva forse un occhio distaccato, una visione globale. È scattato invece un coinvolgimento personale e a ogni capoverso mormoravo: «Bugiardo. Menzognero. Millantatore».
Honoré ci racconta com’è nata la sua passione per la lentezza. Stava facendo il suo «viaggio adolescenziale attraverso l’Europa». A Roma, in «un torrido pomeriggio estivo del 1985», l’autobus non arriva e lui, invece di imbufalirsi, si stende su una panchina e ascolta «Simon & Garfunkel che cantano quanto sia bello rallentare e far durare il momento». Capisce così che la vera felicità consiste nell’essere lenti.
Più o meno negli stessi giorni del 1985, dopo un anno frustrante passato a spedire curricula, inizio finalmente a collaborare con alcune agenzie di traduzione. Non ci sono cellulari, solo telefoni fissi. Capita che squilli mentre sei in bagno. Parte la segreteria telefonica. Ti precipiti sulla cornetta, richiami, ma: «Troppo tardi, abbiamo assegnato il lavoro a un altro. Alla prossima». Capisco così che il mondo va affrontato da gazzella non benestante e non da bradipo nato bene. Sono 30 anni che vado veloce perché o muovo il fondoschiena oppure su queste pagine leggete la firma di un altro arrivato prima. Sono 30 anni che lavoro per individui che ancora credono di fare gli spiritosi quando, alla domanda «Per quando serve?», rispondono «Praticamente per ieri». Fossero così rapidi quando si tratta di saldare le fatture, lasciate maturare come grappe pregiate...
Cose che Honoré ignora, benché siano diversi i suoi riferimenti all’Italia, visto che ha Carl studiato la nostra lingua e la nostra cultura. Per questo conosce ed esalta quanto fatto in Piemonte, a Bra, Città Slow che «ha bandito le catene dei supermercati e le livide insegne al neon» dal centro storico, dando la precedenza «a piccole attività a conduzione familiare... che vendono carni pregiate e stoffe tessute a mano». Fantastico, se non si dimenticasse una cosa: che da ormai dieci anni il mondo reale, quello fuori dai cartoni di Peppa Pig in cui vive Honoré, trova spesso difficile affrontare l’acquisto persino di carni agli estrogeni e pessimi tessuti made in China.
Le citazioni che Honoré pone a difesa della sua teoria sono comiche. Per esempio, la corsa fa male, meglio attività più rilassate. «Il golfista americano Tiger Woods pratica il Pilates e la meditazione». Provi a correre per prendere tutti i giorni il regionale delle 7.35 insieme a centinaia di altri pendolari e poi vediamo se il milionario Woods ha voglia di meditare. Perché è inconfutabile: il mondo slow è un mondo per ricchi. Il Solone Slow coincide con l’industrialotto che fa video-riprendere gli operai della propria fabbrica per studiarne i movimenti durante il lavoro. Se un pezzo viene passato con il pollice chiuso piuttosto che disteso si risparmiano due decimi di secondo.
Il Solone Slow è quello che, se al semaforo non riparti all’apparire del verde, ti stordisce di insulti e clacsonate. Il Solone Slow è lo stesso che in autostrada quasi ti travolge, filando a 190 km all’ora, per raggungere quel delizioso agriturismo dove il tempo pare sospeso e si può gustare un prosciutto «maturato nel rispetto dei tempi naturali».
Ovviamente Honoré non può che venerare il principe dei Soloni Slow. L’uomo che ha reso la permanenza prolungata a tavola un’abitudine chic e non un vizio degli statali romani. L’uomo che farebbe chiudere i McDonald’s sostituendoli con raffinate larderie e pazienza per chi non per non può permetterselo. Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, presenza mediatica più persistente e noiosa del segnale orario, è ispiratore del capitolo dedicato a «Il cibo: la lentezza a tavola».
Pur non raggiungendo vertici di ilarità come il capitolo sulla medicina lenta o sul sesso tantrico, questo è il cuore del libro. Si legge della ristoratrice genovese che manda via i clienti perché «gli antipasti non sono ancora pronti», del commensale che arriva con 25 minuti di ritardo (ma lui non è un cafone, è Slow Food!) o la descrizione, simile a uno spot pubblicitario allusivo e scadente, in cui un uomo a un altro tavolo «infila quello che sembra un gamberetto nella bocca della donna. Lei lo mangia piano, con aria estasiata, quindi gli posa la mano sulla guancia».
Leggo baggianate simili e mi viene voglia di reincarnarmi in Filippo Tommaso Marinetti, nemico delle grasse e lente pastasciutte italiche. Mi viene voglia di prendere Honoré, legarlo a una sedia e constringerlo a guardarmi mentre divoro i «Quattro Salti In Padella», direttamente dalla busta, ancora semisurgelati, in 15 secondi netti.
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