È a partire da queste premesse che Zygmunt Bauman, tra i più autorevoli pensatori viventi, ci consegna un libro che è una dichiarazione appassionata, militante e cruciale dell’utilità delle scienze sociali.
Egli si fa portavoce di una sociologia che non si chiude nell’autoreferenzialità accademica e che non si dimentica di concepire l’essere umano, oggetto dei suoi studi, come un soggetto attivo, capace di compiere scelte autonome.
I sociologi, se vogliono essere all’altezza della propria missione, non devono limitarsi a condurre studi «oggettivi» e quantificabili come i fisici e i geologi, ma devono invece guardare al vissuto più intimo delle persone e, entrando in conversazione con loro, aiutarle a comprendere come le loro vicende umane vissute singolarmente si riflettano in contesti sociali più ampi e ne siano irrimediabilmente influenzate.
Perché a questo serve, in fondo, la sociologia, ad aumentare la consapevolezza delle persone e, in tal modo, la loro libertà.
Benedetto Vecchi, 1.7.2014
Non è però la sociologia la scienza della libertà, anche se in passato è stata così rappresentata. Tanto gli intervistatori che l’intervistato sono consapevoli che le cosiddette scienze sociali sono stati spesso uno strumento nelle mani del «potere costituito» per costruire il consenso a un ordine sociale. Eppure ritengono che la sociologia possa continuare a svolgere un ruolo rilevante nella comprensione delle relazioni sociali. A patto, però, che la sociologia sia consapevole che la necessaria dimensione quantitativa e le astrazioni su cui poggia sono un modo diverso di rappresentare la vita, gli affetti, le passioni di uomini e donne al pari della letteratura, della cinematografia. Con alcune affermazioni di Bauman che suscitano meraviglia negli intervistatori. Come quando il cartografo della modernità liquida sostiene che ci sono, storicamente, alcuni romanzi che hanno avuto la capacità di cogliere la realtà sociale più di un trattato sullo stato nazione o sulle classi sociali.
Questo libro-intervista può essere considerato in due maniere. La difesa, intelligente e sofisticata, di una disciplina accademica fortemente contestata negli anni passati proprio perché usata dal potere costituito. Oppure può essere letto come un testo che sottolinea l’ambivalenza che caratterizza la modernità liquida. È questa seconda caratteristica, presente in maniera rilevante nelle pagine del volume, che svela il carattere «aperto» della riflessione di Bauman. Aperta a essere smentita, certo, ma anche tesa a misurarsi con temi, argomenti considerati «minori» proprio dalla sociologia, come le relazioni amorose, i talk show, il cinismo di massa e i sentimenti che accompagnano la modernità liquida (il risentimento, l’opportunismo, il rifiuto di una etica pubblica). Rispetto a ciò, Bauman è consapevole che le fonti a cui attingere materiali non hanno nulla a che fare con l’ammasso di dati statistici o le «astrazioni» delle discipline accademiche, ma sono materiali grezzi, poco lavorativi, che restituiscono tutto ciò che la sociologia a sempre ritenuto inessenziali: i sentimenti. Da qui la centralità della loro ambivalenza.
Da questo punto di vista l’ambivalenza rivela il suo potere esplicativo delle relazioni sociali. L’esempio più ricorrente in Bauman è il consumo. L’acquisto dell’ultimo gadget tecnologico o il ricambio vorticoso del proprio guardaroba sono certi comprensibili all’interno dei meccanismi di riproduzione dell’ordine sociale economico, ma hanno anche a che fare con una tensione alla libertà che non può essere frettolosamente liquidata come una colonizzazione delle coscienza da parte del capitale. Il consumo è un atto ambivalente, perché prefigura dominio, ma anche ricerca della libertà. È questa ambivalenza dei fenomeni sociali e delle motivazioni personali che ha potere performativo.
«La scienza della libertà» risiede non tanto nella cancellazione dell’ambivalenza, ma nella sua forzatura in una direzione o nell’altra. Tra dominio e sottrazione dal potere, Bauman tuttavia non sceglie. Mantiene «aperta» la sua riflessione a esiti ancora non contemplati dal lessico politico. Ma è proprio in questa apertura che si possono accentuare i punti di rottura, di fuoriuscita dall’ordine sociale dominante. Una prospettiva che potrebbe essere accolta da Zygmunt Bauman con un sorriso venato da un amaro disincanto.
Il mondo perduto dei follower secondo Bauman
L’ultimo «territorio» che Zygmunt Bauman ha cominciato ad esplorare è quello della Rete. Uno spazio dove tutte le componenti di quell’affresco sulla modernità liquida sono evidenti, ma sono assemblate in modo tale da assumere una «naturalità» che mal si accompagna con la riflessione dello studioso che considera, invece, la modernità liquida come una «produzione» dell’umano stare in società. La dissoluzione dei legami sociali (le istituzioni della socialità, scriverebbe Georg Simmel), la crisi dei confini nazionali non sono quindi un dato di natura, bensì l’esito delle relazioni sociali. Per Bauman, questi elementi hanno nella Rete una esemplificazione evidente, che getta tuttavia luce sulle ambivalenze dei sentimenti, i modi d’essere, gli stili di vita presenti nelle società contemporanee. In Italia, per ricevere il premio Hemingway, Bauman ha fatto il punto sulla sua esplorazione del cyberspazio. Ed è da qui che prende l’avvio l’intervista.
Due sono i temi affrontati nella «lectio magistralis» che ha tenuto in occasione del Premio Hemingway che le è stato conferito a Lignano Sabbiadoro: il primo riguarda le implicazioni vischiose della nuova «casetta» online che la maggior parte di uomini e donne, oltreché la quasi totalità dei nativi digitali, ormai abita. Partirei da qui, e dai rischi evidenziati dallo scrittore statunitense da Don DeLillo fin dagli anni Settanta di una tecnologia capace di sgusciare fra le dita di chi si illude di usarla. Sempre più quelle tecnologie si presentano come una forza cieca e invincibile che sta asservendo l’umanità, dettando l’agenda sociale, costringendo uomini e donne a correre per comprare l’ultima irrinunciabile novità.
Le ripercussioni della prevalenza dell’online sull’offline sono ben lungi dall’essere state colte dalla maggior parte della gente. Oggi vivere online è qualcosa che tende ad essere dato per scontato e apprezzato. Le nuove tecnologie sono utili, si sostiene, ci semplificano la vita, ci connettono con mondi che fino a poco tempo fa si potevano soltanto immaginare mentre oggi sono finalmente disponibili, a portata di click. Ampliano le nostre conoscenze, ci arricchiscono di informazioni e di esperienze, ci «aumentano» e migliorano indiscutibilmente la nostra vita. Chi vorrebbe un lento calesse invece di una potente automobile che può sfrecciare a duecento all’ora? Chi sarebbe disposto nelle relazioni a distanza ad attendere l’arrivo di una lettera di risposta quando l’interscambio grazie alla posta elettronica può essere istantaneo?
Se ci si ferma a questi aspetti superficiali, non vale la pena discuterne, i vantaggi dell’online sono autoevidenti. Se però ci si sofferma a riflettere sulle sette ore al giorno che i giovani passano in media a usare le nuove tecnologie, sulla radicale trasformazione delle relazioni che hanno totalmente bandito l’impegno – con gli oneri che comporta ma anche con lo spessore e la profondità che consente – e che hanno sostituito al dialogo un’infinità di casse di risonanza individuali che riecheggiano nei social network dove non ci sono più interlocutori ma follower, qualche domanda sorge inevitabilmente.
Jonathan Franzen ne ha parlato nel suo penultimo libro «Più lontano ancora» di queste casse di risonanza: «Diventare amico di una persona su Facebook significa semplicemente includerla nella nostra personale sala degli specchi adulatori». Nei suoi libri lei ha descritto la genesi di questa mutazione antropologica che ha incluso, nei suoi passaggi, anche il walkman di cui aveva scritto nelle «44 lettere dal mondo liquido»…
È abbastanza tipico sviluppare una dipendenza dalle innovazioni tecnologiche. Le mie figlie, da piccole, erano rimaste ipnotizzate dalla televisione allo stesso modo in cui oggi si subisce la fascinazione degli smartphone e degli iPhone. Ma la televisione una volta si guardava in compagnia. L’avvento del walkman, invece, ha già contrassegnato una sterzata verso il mondo individualizzato in cui viviamo, dove viene richiesto a ciascuno di trovare soluzioni individuali per i problemi globali di quest’era e dove, di conseguenza, si accentua la tendenza a rinchiudersi nel proprio bozzolo. Lo slogan con cui si promuovevano i walkman era: «Mai più soli!». I ragazzi, e via via sempre più adulti, da quel momento potevano andarsene in giro con le cuffie ad ascoltare la musica o un programma che facesse loro compagnia in modo permanente. Mail messaggio era doppiamente ingannevole perché già il fatto di affermare «Mai più soli!» presupponeva che fino ad allora fossero stati, appunto, soli, e soprattutto l’ascolto individuale diventava una sorta di guscio protettivo che li allontanava dalla possibilità di incontri con altre persone.
In sostanza, non è che non si fosse più soli: ci si sentiva non più soli. L’arrivo trionfale degli iPhone e dei social network ha ristabilito i contatti con gli altri, centuplicandoli, soltanto in apparenza, giacché questa modalità di relazione esalta il proprio narcisismo e non consente affatto di imbastire veri dialoghi. In fondo che cos’è un dialogo se non un confronto con qualcuno che la pensa diversamente da noi? Un esempio autentico di dialogo è quello tenuto da papa Francesco con Eugenio Scalfari. Diventato papa, Francesco è andato a parlare, nella sede di un giornale laico come Repubblica, con un giornalista dichiaratamente ateo. Ne sono usciti entrambi arricchiti, come avviene quando si discute con qualcuno che la pensa diversamente da noi. Su Facebook si coltiva solo il proprio narcisismo.
Il secondo argomento su cui si è focalizzato è la pregnanza della letteratura per la consapevolezza delle persone e i suoi rapporti, piuttosto stretti, con la sociologia. Nel suo ultimo libro, «La scienza della libertà», vi è menzionato un sociologo, Charles Wright Mills, di cui è appena stata ristampata dal Saggiatore la sua opera più importante, «L’immaginazione sociologica», che porta benissimo i suoi 55 anni di età, e poi troviamo due romanzieri: Milan Kundera, che una decina di anni fa, ne «Il sipario», aveva invocato la necessità di strappare il sipario delle preinterpretazioni, e Michel Houellebecq, che ne «La possibilità di un’isola» ha scritto una distopia potentissima paragonabile a quelle di George Orwell, «1984», e Aldous Huxley, «Il mondo nuovo». Può spiegare perché la letteratura e il cinema d’autore come quello di Michael Haneke sono apparentabili alla sociologia?
Mills aveva compreso i pericoli che correva la sociologia nel suo tentativo di costruirsi un’immagine di scienza «a tutto tondo», quella per intenderci preconizzata da Max Weber, dimenticando la sua vocazione di scienza della conversazione con gli esseri umani al servizio degli esseri umani. Senza l’immaginazione, senza soffermarsi a guardare quel che succede là fuori, è impossibile comprendere come le problematiche personali siano legate a doppio filo a questioni pubbliche. L’immaginazione sociologica rende ciò che è personale politico. Il rischio a cui ancora oggi è esposta la sociologia è quello di limitarsi all’autoreferenzialità, a trincerarsi nel gergo iniziatico degli addetti ai lavori che si parlano, prevalentemente di questioni astratte e quantitative, dimenticando che i loro veri interlocutori sono le persone e che il dialogo va imbastito e coltivato con loro, non nell’acquario dei sociologi.
Un sociologo degno di questo nome parla con la «gente», legge romanzi, guarda la televisione e non si limita a teorizzare insieme ai suoi colleghi. Mostra come la vita personale e la biografia individuale siano intimamente connesse agli eventi storici e ai processi strutturali e induce le donne e gli uomini a interrogarsi sul quesito fondamentale formulato da John Maxwell Coetzee nel suo Diario di un anno difficile: «di certo il mercato non l’ha fatto Dio – Dio o lo Spirito della Storia. E se lo abbiamo fatto noi, esseri umani, non dovrebbe essere possibile disfarlo e rifarlo in forma più accettabile?». È per questo che è necessario strappare il «sipario magico» di Kundera, come aveva fatto Cervantes con il Don Chisciotte, per sgombrare il campo dai pre-giudizi, dalle presunte verità che ci vengono ammannite quotidianamente dagli imbonitori che ci rendono sempre più ciechi e più schiavi, per recuperare nuove potenzialità umane dall’oscurità in cui erano sprofondate e allargare in questo modo il regno della libertà umana.
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