martedì 2 settembre 2014

Non pagare le tasse e criticare la modernità

Peter Slo­ter­dijk: Die schrec­kli­chen Kin­der der Neu­zeit, Suhr­kamp

Risvolto
Was treibt die Menschheit voran? Entwickelt sie sich von Niederem zu Höherem? Orientiert sich Fortschritt an Lehren aus der Geschichte? Ist Geschichte als Progression der und in der Freiheit zu begreifen? Solche überkommenen Fragen und die korrespondierenden unpassenden Antworten blenden den Übergang von einer Generation zur nächsten aus, der zu Beginn des 21. Jahrhunderts immer mehr gefährdet ist. Mit dem Gelingen oder Scheitern dieses Übergangsstadiums, in welchem teilweise kriegerische und mörderische, teilweise die Population ganzer Kontinente auslöschende Szenarien dominieren, steht der Fortbestand der uns bekannten Zivilisation auf dem Spiel. Deshalb ist das neue Buch von Peter Sloterdijk eines von der äußerst pessimistischen Sorte: ein Schwarzbuch über kommende Generationen. Denn da in der Moderne die Traditionsfäden chronisch reißen und immerfort neue Vektoren den Zug in Kommende bestimmen, wandeln sich die Individuen zu »Kindern ihrer Zeit«, Nachkommen »schlagen aus der Art«. Da moderne Elterngenerationen selbst meist schon zivilisatorisch labil antreten, gerät die Formung ihres Nachwuchses zu einem unbeendbaren Match zwischen potentiell schrecklichen Eltern und potentiell schrecklichen Kindern.

Peter Sloterdijk, il profeta disilluso dell’Ancien Régime
Tempi presenti. Il nuovo libro di Peter Sloterdijk ha scatenato furiose polemiche. Quello del filosofo tedesco è un atto di accusa contro la Modernità ed esprime una critica conservatrice al capitalismo che sta conquistando in Europa sempre più consensi
 Marco Bascetta, 12.7.2014

Scri­vere di un libro non letto può senz’altro con­si­de­rarsi una ope­ra­zione scor­retta. Non­di­meno, tal­volta e prov­vi­so­ria­mente, quando l’uscita di un’opera suscita pronte rea­zioni e vivaci pole­mi­che, o con­tri­bui­sce a illu­mi­nare qual­che ten­denza in atto, arri­schiarsi a par­larne può risul­tare utile. Con­fes­sato il pec­cato, dun­que, relata refero. Il libro in que­stione, cin­que­cento pagine pub­bli­cate qual­che set­ti­mana fa in Ger­ma­nia dalla pre­sti­giosa casa edi­trice Suhr­kamp si inti­tola Die schrec­kli­chen Kin­der der Neu­zeit, ossia gli orridi (o ter­ri­fi­canti) figli della Moder­nità. Ne è autore Peter Slo­ter­dijk, filosofo-scrittore assai noto, non nuovo ad aspre pole­mi­che e accese con­tro­ver­sie, poco amato dall’accademia. Affetto da una buona dose di nar­ci­si­smo il per­so­nag­gio non nasconde l’ambizione di con­se­guire un certo seguito popo­lare, e sovente lo con­se­gue.
Le bor­date, soprat­tutto da sini­stra, non si sono fatte atten­dere. Pesan­tis­sima la recen­sione di Georg Diez su Der Spie­gel, che defi­ni­sce il libro «man­gime per una bor­ghe­sia imbar­ba­rita», un’opera ultra­rea­zio­na­ria che gronda risen­ti­mento e nutre nostal­gia per le gerar­chie che hanno gover­nato la società prima della Rivo­lu­zione fran­cese e della frat­tura (lo «iato») che essa ha deter­mi­nato nella sto­ria dell’umanità. Dun­que una cri­tica com­ples­siva e senza sconti, dei diritti, delle forme e delle cate­go­rie poli­ti­che su cui pog­gia la Moder­nità, secondo la quale – così scrive Diez — «il grande cri­mine dell’Europa e della sua discen­denza cul­tu­rale ame­ri­cana, sarebbe stato quello di inven­tare l’individuo, l’uomo libero, per poi togliere ogni vin­colo a que­sto “mostro”, come lo bolla Slo­ter­dijk, desti­nato a recare al mondo milioni di morti e indi­ci­bile disgrazia».
 
Illu­mi­ni­smo alla sbarra
L’autore si col­lo­che­rebbe così como­da­mente in quella tra­di­zione rea­zio­na­ria del pen­siero tede­sco che imputa all’illuminismo, non l’eterogenesi di una nuova effi­ciente e spie­tata ver­sione del domi­nio sotto il segno del capi­tale (come met­teva in guar­dia la teo­ria cri­tica), ma l’aver minato la sta­bi­lità di un Ordine che garan­tiva l’equilibrio del mondo e la tra­smis­sione, senza rot­ture, dei suoi valori e delle sue gerar­chie. Sono posi­zioni clas­si­che del pen­siero con­ser­va­tore, ma non è indif­fe­rente, come vedremo, il tempo e il con­te­sto nei quali ven­gono ripro­po­ste. Sulla Tageszei­tung, Rudolf Wal­ther imputa al testo una serie infi­nita di con­trad­di­zioni interne, una reci­ta­zione in stile guru e l’aver spac­ciato per grande affre­sco storico-teologico un discu­ti­bile col­lage di epi­sodi, aned­doti, dice­rie e leg­gende.
C’è però una for­mu­la­zione che tutti i recen­sori, senza ecce­zione, ripren­dono in posi­zione cen­trale, con­si­de­ran­dola in qual­che modo il cuore dell’argomentazione di Slo­ter­dijk: «nel pro­cesso mon­diale, dopo lo iato (la rot­tura rivo­lu­zio­na­ria della tra­di­zione), ven­gono costan­te­mente libe­rate più ener­gie di quante pos­sano essere rac­chiuse nelle forme di una civi­liz­za­zione tra­smis­si­bile». La Moder­nità è dun­que informe, sle­gata dal pas­sato e dun­que sem­pre sul punto di pre­ci­pi­tare verso un futuro privo di ogni senso. Senza la tra­smis­sione con­trol­lata di quella tra­di­zione che dai padri ai figli garan­ti­rebbe la con­ti­nuità del mondo civile non reste­rebbe che un arbi­trio votato al caos. Ma non si tratta di un pro­blema di kate­chon, del «trat­te­ni­mento» e dell’indirizzo di ener­gie pro­rom­penti, né di etica della respon­sa­bi­lità o di governo del cam­bia­mento. Si trat­te­rebbe invece di resti­tuire legit­ti­mità all’antico regime, alle sue genea­lo­gie, alle sue gerar­chie ina­mo­vi­bili. L’uscita illu­mi­ni­sta dallo «stato di mino­rità» si con­fi­gu­re­rebbe, nella visione di Slo­ter­dijk, come lo strappo desti­nato a inau­gu­rare una con­di­zione di perenne esi­lio. Il man­cato rispetto del padre, dei suoi inse­gna­menti e delle sue «dispo­si­zioni testa­men­ta­rie» si rispec­chia nella per­dita di quella patria, e dun­que di quella appar­te­nenza a un sistema con­so­li­dato di valori, di cui non saremmo più degni.
 
Dopo il diluvio
Del resto, se la Rivo­lu­zione fran­cese e i movi­menti di eman­ci­pa­zione che ne sono seguiti hanno fatto il grosso del lavoro, ci aveva già pen­sato Gesù di Naza­reth – ricorda Slo­ter­dijk – a sobil­lare i figli con­tro i padri spar­gendo il seme di quella discor­dia di cui noi saremmo gli «uti­liz­za­tori finali». Tut­ta­via l’autorità della Chiesa e della corona è riu­scita per secoli, a dire il vero con mezzi tutt’altro che uma­ni­tari, a tenere cia­scuno al pro­prio posto. Fin­ché, a un certo punto, Madame de Pom­pa­dour, la potente amante di Luigi XV, che l’autore col­loca in una posi­zione d’onore nel suo apo­ca­lit­tico affre­sco, avverte tutti, secondo il cele­bre aned­doto, che «dopo di noi il dilu­vio»: si sente nell’aria che i pri­vi­legi di un mondo immo­bile vol­gono defi­ni­ti­va­mente al tra­monto. Magni­fi­ca­zione del pas­sato, demo­niz­za­zione del futuro.
Volendo descri­vere il disa­gio della moder­nità e la vacuità del pro­cesso di accu­mu­la­zione che la carat­te­rizza, tenen­dosi però al riparo da ogni nostal­gia rea­zio­na­ria, si sareb­bero dovuti sce­gliere piut­to­sto i versi amari di uno dei suoi più «ter­ri­bili figli», Ber­thold Bre­cht: «Sap­piamo di essere effimeri/ E dopo di noi verrà/ Nulla degno di nota». Ma non è que­sto lo scopo di Slo­ter­dijk intento a sal­va­guar­dare la «stra­te­gia genea­lo­gica» e quella supe­riore qua­lità morale dei migliori che, come ha spie­gato in un recente pam­phlet, esen­tati dalla pres­sione fiscale dello stato, elar­gi­reb­bero spon­ta­nea­mente e di buon grado in cam­bio del «pre­sti­gio» e della «gra­ti­tu­dine sociale» (La mano che prende e la mano che da, Raf­faello Cor­tina). Fatto sta che il dilu­vio è arri­vato senza che nes­suno potesse impe­dir­gli di irri­gare i campi, non­ché di tra­vol­gerli con deva­stanti inon­da­zioni.
Un romanzo, uscito in Ger­ma­nia una decina di anni fa, descrive, nello svol­gersi di una trama fitta e appas­sio­nante, un ten­ta­tivo poli­tico per­fet­ta­mente in linea con le posi­zioni di Slo­ter­dijk. E il suo fia­sco. Mi accingo a com­piere la seconda scor­ret­tezza rive­lan­done il finale a sor­presa. Il libro di Wol­fram Flei­sch­hauer si inti­tola nella edi­zione ita­liana (Lon­ga­nesi) Il libro che cam­biò il mondo, ma la tra­du­zione più cor­retta del titolo ori­gi­nale sarebbe stata Il libro in cui sparì il mondo. Nella Ger­ma­nia del 1780 un medico è alle prese con miste­riosi omi­cidi che seguono uno schema epi­de­mico, men­tre ripe­tu­ta­mente le car­rozze postali ven­gono assa­lite e date alle fiamme senza appa­rente ragione. Que­sti eventi sem­brano privi di senso e di dise­gno. Ma, alla fine, in quel di Koe­nig­sberg, si svela la chiave del mistero. Una setta di ante­si­gnani del nostro Slo­ter­dijk cerca di impe­dire con ogni mezzo che il mano­scritto della Cri­tica della ragion pura per­venga all’editore, non­ché di met­terne a tacere l’incauto autore. Come non capirli? Come non vedere il ter­rore indotto da un simile tur­ba­mento dell’Ordine immu­ta­bile? Da una così radi­cale demo­li­zione delle cer­tezze e dei fon­da­menti? Dallo spri­gio­na­mento di forze incon­trol­la­bili? Qual­cuno pre­tende addi­rit­tura di far scom­pa­rire il mondo reale! E i difen­sori della sua sta­bi­lità cer­cano, ieri come oggi, di impe­dir­glielo.
Dal 1780 ad oggi molte cose «degne di nota» sono acca­dute. Com­preso lo «iato» che avrebbe con­dotto al «disa­stro della Moder­nità». L’impresa di Slo­ter­dijk dovrebbe allora appa­rire ancora più ardua, eroica e con­tro­cor­rente, per­fino dispe­rata. Ma le cose non stanno affatto così. La crisi di que­sti ultimi anni ha ali­men­tato gran­de­mente il filone della cri­tica rea­zio­na­ria della con­tem­po­ra­neità. Il patriot­ti­smo gode di ottima salute (chie­de­telo pure a Le Pen e Farage) e la dif­fi­denza nei con­fronti della demo­cra­zia, in ter­mini di apa­tia e disin­canto, o nei ter­mini del suo depo­ten­zia­mento a favore di un governo senza impe­di­menti, ha ormai inve­stito pie­na­mente le società avan­zate. Tanto che dell’accoppiata di libertà ed esi­lio, stig­ma­tiz­zata da Slo­ter­dijk, con­ve­rebbe farne una nostra ban­diera. L’idea di un ordine immu­ta­bile, tanto solido da con­te­nere ed esau­rire ogni dina­mica di cam­bia­mento, è tor­nata ad affer­marsi deci­sa­mente dopo il 1989 (che forse potremmo con­si­de­rare un altro «iato»). La «fine della sto­ria» e il «non ci sono alter­na­tive» si impon­gono con altret­tanta indi­scu­ti­bile e uni­ver­sale auto­rità del «diritto divino». Il capi­ta­li­smo di ini­zio mil­len­nio, a dispetto di crisi e oscil­la­zioni, si pre­tende più eterno e con­vin­cente del sistema tole­maico. Ed è dav­vero sin­go­lare pren­der­sela con le idee di libertà ed egua­glianza nel tempo in cui sono state ridotte a poco più di un orpello reto­rico o un pre­te­sto. Quanto alla genea­lo­gia, alla tra­smis­sione del potere e delle sue forme, (la que­stione stuc­che­vole e fuor­viante dei padri e dei figli infe­sta il dibat­tito poli­tico anche dalle nostre parti) non è dato vedere che cosa le minacci. La rior­ga­niz­za­zione in senso oli­gar­chico delle società avan­zate ha ripri­sti­nato la pira­mide sociale in tutta la sua gra­ni­tica invio­la­bi­lità. Le regole ci sono e i con­torni della «civi­liz­za­zione ammis­si­bile» sono trac­ciati con una net­tezza che non pre­vede dero­ghe. Risa­lire alle spalle delle norme per vagliarne l’equità è seve­ra­mente proibito.
 
Sovra­nità della buona finanza
The Wolf of Wall street, il barocco film di Mar­tin Scor­sese ci ricorda che anche la pira­te­ria anar­chica, nei suoi eccessi e nelle sue dero­ghe grot­te­sche dai più rico­no­sciuti prin­cipi di «civiltà», non può che essere una breve paren­tesi, una raz­zia dispe­rata in corsa con il tempo. Poi, il sistema di «valori» e di potere della finanza sovrana torna a rista­bi­lire la sua «legge» e il suo Ordine. I padri in dop­pio­petto tirano le orec­chie ai figli discoli. La sta­bi­lità del mondo, il prin­ci­pio di auto­rità e la sua tra­smis­sione si affer­mano indi­stur­bati, nono­stante le lamen­ta­zioni e le nostal­gie dei con­ser­va­tori inca­paci di rico­no­scerne il volto con­tem­po­ra­neo, nell’improbo sforzo di sepa­rare le «qua­lità morali» dell’antico regime dalla sua intrin­seca fero­cia.
Ma in fondo tutto era già scritto da sem­pre. Parec­chi secoli prima della pre­di­ca­zione sov­ver­siva di Gesù, stando al gio­vane Nie­tzsche della Nascita della tra­ge­dia, ci aveva già pen­sato Euri­pide a minare le forme apo­li­nee della civiltà por­tando il pub­blico, il demos, sulla scena. La civiltà, insomma, muore prima ancora di comin­ciare e tanto var­rebbe lasciar per­dere. L’autorità patriar­cale ovvia­mente soprav­vive anche nelle forme tec­ni­ciz­zate e tran­sgen­der del capi­ta­li­smo finan­zia­riz­zato e i figli, cioè i gover­nati, restano a testa bassa anche quando capita che a qual­che ram­pollo più bril­lante sia con­sen­tito di dime­narsi sul pro­sce­nio. La crisi e il suo governo ci ricor­dano ogni giorno che non viviamo in un car­ne­vale sca­pe­strato, ma in una per­ma­nente qua­re­sima atten­ta­mente sor­ve­gliata dal clero e dal credo del libe­ri­smo. Non penso si tratti della «seco­la­riz­za­zione del pec­cato ori­gi­nale» di cui scrive Slo­ter­dijk, ma di un noto pro­dotto della «civiltà»: il domi­nio di classe. L’antico regime e il suo potere di cor­rom­pere sono ancora qui.

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