martedì 2 settembre 2014

Togliatti e Berlinguer, Togliatti o Berlinguer?

La mia impressione è che Albeltaro colga nel segno, lasciandosi alle spalle le illusioni ottiche della nostalgia [SGA].

Perché Togliatti è più attuale di Berlinguer
Marco Albeltaro l'Unità, 25 luglio 2014

Film, libri, dibattiti hanno scandito questo trentesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer. Ancora nulla, o quasi, per ricordare un altro anniversario della «famiglia comunista», il cinquantesimo della morte di Palmiro Togliatti. Certo i due personaggi sono molto diversi: umanissimo Berlinguer, freddo Togliatti; l’uno cronologicamente più vicino, l’altro che sembra lontano anni-luce. Tutti hanno provato ad “attualizzare” il mitico Enrico: c’è chi l’ha fatto da sinistra, per così dire, come Guido Liguori, che in un suo recente volume (edito da Carocci) ha sostenuto la tesi, esplicitata anche nel titolo, di un «Berlinguer rivoluzionario» mentre altri lo hanno inserito fra i padri ideali delle posizioni del Partito Democratico e via discorrendo. Del resto l’incompiutezza della vita di Berlinguer, il non aver potuto portare a termine e nemmeno, in fondo, esplicitare del tutto il suo progetto politico hanno esposto la sua figura al rischio di essere un po’ strattonata da una parte e dall’altra nel dibattito pubblico.
Un Berlinguer attuale, dunque, o comunque attualizzato. Ma siamo davvero certi che sia così? Berlinguer diventa segretario del PCI nel marzo del 1972 quando l’Italia ha vissuto la sua fase di più acuto conflitto sociale, quando il Sessantotto ha impresso il suo segno alla politica, quando il Partito comunista italiano stava capitalizzando quell’onda lunga sebbene in un quadro politico in cui si avvertiva la presenza di tutti quei fattori che rischiavano di mettere fra parentesi, se non di archiviare, la convivenza democratica (strategia della tensione, terrorismo ecc). Berlinguer diventa segretario, quindi, in una fase in cui, dopo la raccolta dei frutti positivi prodotti dal conflitto è necessario ridefinire il ruolo politico del PCI per far fronte agli smottamenti che il terreno della democrazia sta subendo. È l’inizio di una fine che avrà nel 1980 il suo epilogo: un epilogo per nulla scontato e altrettanto per niente percepito nel suo valore periodizzante da chi lo stava vivendo.
Non è qui il caso di entrare nel merito delle scelte politiche di Berlinguer. Va però segnalato che esse sono il prodotto di una fase politica in cui dopo un’espansione degli spazi di democrazia si avverte la possibilità concreta di un arresto e di una regressione di questo processo. Ed è anche il momento in cui da più parti, nella sinistra, si contesta il diritto del PCI di presentarsi come il più efficace rappresentante delle classi subalterne. Berlinguer costruisce una proposta politica per far fronte a questa situazione.
Palmiro Togliatti è una figura che, come si è detto, sembra molto più lontana da noi, così come sembra molto più lontano il tempo in cui ha fatto politica. Se consideriamo la sua attività nell’Italia liberata dobbiamo notare che Togliatti ricostruisce un partito comunista in un paese che aveva vissuto per vent’anni la dittatura fascista. L’Italia in cui ritorna il segretario del PCI dopo il suo esilio moscovita è un luogo che per un ventennio ha subito la progressiva desertificazione morale messa in atto dal fascismo; in cui la politica era relegata alla rappresentazione di interessi particolari mediata dai corpi intermedi dello Stato totalitario; in cui un’intera generazione era nata, cresciuta e maturata nel mondo mussoliniano. Togliatti crea una proposta politica che, rimettendo in discussione alcuni dei capisaldi dell’identità comunista (per esempio la strategia di presa del potere), permette al PCI di intercettare il consenso delle masse mettendo in piedi un duplice meccanismo che, attraverso la costruzione di un partito di massa, attiva un processo virtuoso di rieducazione delle masse stesse, a vantaggio sia delle classi subalterne che dell’impianto democratico dello Stato. Mi pare che quella situazione sia molto più simile a quella di oggi di quanto si voglia credere. Anche qui non è il caso di entrare nel dettaglio dei singoli tasselli della politica togliattiana. È forse più la situazione in cui quella politica si produce che conta. Togliatti ha costruito una politica che del passato non voleva e poteva salvare nulla e in cui tutto era da ricostruire. Enrico Berlinguer invece ha dovuto fare il contrario: provare a salvare il salvabile. Per questo, guardare a Togliatti e alle sue scelte sembra più utile che guardare a Berlinguer. «Guardare» significa però osservare criticamente, nella consapevolezza che la politica di massa che ha caratterizzato il Novecento è molto lontana da noi e che quegli schemi non possono essere riprodotti meccanicamente. Proprio in ragione di questa consapevolezza il passato può aiutarci a pensare al futuro. Costruendolo.

Togliatti-Berlinguer, una continuità nella diversità
Tempi presenti. Una polemica con un articolo di Marco Albeltaro apparso su «L’Unità». Togliatti e Berlinguer hanno visto nella Costituzione la carta che poteva innovare la democrazia Guido Liguori, 26.7.2014

 In un suo inter­vento apparso su «l’Unità» del 25 luglio Marco Albel­taro sostiene la tesi della neces­sità di ricor­dare Pal­miro Togliatti a sessant’anni dalla scom­parsa in misura molto mag­giore di quanto si stia facendo. Sono del tutto d’accordo. Sia «Futura uma­nità. Asso­cia­zione per la sto­ria della memo­ria del Pci», sia «Cri­tica mar­xi­sta», nelle quali sono impe­gnato, hanno dedi­cato o dedi­che­ranno a Togliatti con­tri­buti di cono­scenza e di ana­lisi e. E credo che anche «il mani­fe­sto» non man­cherà que­sto appun­ta­mento. In par­ti­co­lare «Futura uma­nità» ha aperto le cele­bra­zioni togliat­tiane con un con­ve­gno, svol­tosi a Roma nel novem­bre 2013, le cui rela­zioni sono state pub­bli­cate quest’anno (Paolo Ciofi, Gianni Fer­rara, Gian­pa­squale San­to­mas­simo, Togliatti il rivo­lu­zio­na­rio costi­tuente, Edi­tori Riu­niti) e pre­sen­tate di recente in una sede par­la­men­tare. Qual­cosa si è fatto, dun­que, e sicu­ra­mente nei pros­simi mesi altro si farà. E biso­gne­rebbe fare di più, ne con­vengo con l’autore.
Dove non posso essere d’accordo con Albel­taro è invece su ciò che emerge dalla sua argo­men­ta­zione, basata sulla con­trap­po­si­zione, che egli avanza espli­ci­ta­mente, tra la rifles­sione su Togliatti (segna­ta­mente il Togliatti degli anni 1944–1964) e il ricordo e la rifles­sione su Ber­lin­guer. Nel farlo, Albe­traro ricorda anche il mio recente Ber­lin­guer rivo­lu­zio­na­rio (Carocci), ma afferma che le diverse e oppo­ste let­ture di Ber­lin­guer emerse in que­sto tren­te­simo anni­ver­sa­rio della morte sono tutte non solo par­ziali, ma anche esa­ge­rate, poi­ché «guar­dare a Togliatti e alle sue scelte sem­bra più utile che guar­dare a Berlinguer».
La pecu­lia­rità del Pci
Non capi­sco per­ché si deb­bano con­trap­porre que­ste due figure della tra­di­zione del comu­ni­smo ita­liano: come Albel­taro stesso dice, hanno vis­suto in epo­che diverse e fron­teg­giato pro­blemi diversi. Entrambi sono state emi­nenti per­so­na­lità poli­ti­che che hanno con­tri­buito a creare, cia­scuno nella pro­pria epoca, quella pecu­lia­rità del comu­ni­smo ita­liano che in Gram­sci ha le sue radici.
Certo, vi sono anche delle diver­sità, dovute per lo più alle diver­sità di con­te­sto. Sul piano della poli­tica interna, l’unico che Albel­taro affronta, va notata que­sta dif­fe­renza: Ber­lin­guer si rese conto, sia pure in modo con­trad­dit­to­rio, dei limiti di una poli­tica chiusa in un livello istituzionale-parlamentare-partitico. Men­tre fu stre­nuo difen­sore della Costi­tu­zione e della cen­tra­lità del Par­la­mento (di entrambe, è appena il caso di notarlo, si sta facendo in que­sti anni e in que­sti giorni carne di porco), vide anche – e qui appare più vicino alla rifles­sione gram­sciana, anche a quella del car­cere – come que­sto tipo di demo­cra­zia, se non intrec­ciato con forme diverse e più par­te­ci­pate, e con l’apertura alla società e ai movi­menti, diviene ter­reno di con­qui­sta delle éli­tes, se non addi­rit­tura delle cama­rille, come aveva già ben foto­gra­fato a suo tempo Gae­tano Mosca. Già prima della sta­gione del com­pro­messo sto­rico, a ridosso del «secondo bien­nio rosso» (1968–1969), vi è in Ber­lin­guer que­sta sen­si­bi­lità e que­sta rifles­sione. Dopo la paren­tesi degli anni Set­tanta e la lezione appresa dagli errori fatti con la soli­da­rietà nazio­nale, Ber­lin­guer com­pie una corag­giosa auto­cri­tica, por­tando il suo par­tito a riflet­tere sul rin­no­va­mento pro­fondo neces­sa­rio per la sua cul­tura e per tutto un modo di inten­dere la poli­tica. Pur­troppo in pochi lo ascol­ta­rono e lo segui­rono, nel gruppo diri­gente del Pci. Ma la «con­nes­sione sen­ti­men­tale» rista­bi­lita col suo popolo ci fanno inten­dere come di quelle parole e di que­gli atti vi fosse biso­gno. Vale la pena ricor­dare una inter­vi­sta tele­vi­siva del 1980, al ritorno da un viag­gio in Cina, nella quale Ber­lin­guer afferma che quella par­la­men­tare non è l’unica forma pos­si­bile di rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica e che ciò che dav­vero con­trad­di­stin­gue una demo­cra­zia sono non le forme della rap­pre­sen­tanza, che mutano con le epo­che e i con­te­sti, ma le libertà fon­da­men­tali di pen­siero, parola, stampa, orga­niz­za­zione poli­tica e sindacale.
Per­so­na­lità complementari
Togliatti si mosse in una tem­pe­rie sto­rica diversa: si trat­tava non di allar­gare la demo­cra­zia, ma di restau­rarla dopo la paren­tesi fasci­sta, di con­so­li­darla, di lot­tare con­tro lo scel­bi­smo e con­tro la legge truffa dega­spe­riana (il mag­gio­ri­ta­rio, anche allora, era il gri­mal­dello per scas­sare la demo­cra­zia), di far entrare sta­bil­mente le masse nella sto­ria di que­sto paese, facen­done un pila­stro di demo­cra­zia. I par­titi sono la demo­cra­zia che si orga­nizza, come giu­sta­mente scrive Albe­traro. La rifles­sione ber­lin­gue­riana su come que­sti par­titi deb­bano intrec­ciarsi con la società riba­diva que­sta lezione e la appro­fon­diva, facendo tesoro dell’esperienza inter­corsa e cer­cando di con­tra­stare quella ridu­zione della poli­tica ad affare di pochi che, ieri come oggi, ha nel deci­sio­ni­smo il suo ves­sillo prin­ci­pale. La dire­zione di mar­cia di Ber­lin­guer e di Togliatti è la stessa, e appare oggi deci­sa­mente con­tro­cor­rente. E quindi da ripren­dere.
Infine, non può essere dimen­ti­cato in que­sto anno di anni­ver­sari (a quello di Togliatti e Ber­lin­guer aggiun­ge­rei anche il ricordo dei 110 anni dalla morte di Anto­nio Labriola, ancor più dimen­ti­cat) che la grande riso­nanza che viene data al decen­nale della morte di Ber­lin­guer costi­tui­sce una indub­bia novità, anche poli­tica. Come non ricor­dare che dieci o venti anni fa que­sto fio­rire di ini­zia­tive non vi fu? Come non ricor­dare che vi furono decen­nali in cui pre­valse il grido di «dimen­ti­care Ber­lin­guer»? Se quest’anno così non è anche per­ché si è capito che di Ber­lin­guer c’è biso­gno per com­bat­tere quel ten­ta­tivo di restrin­gi­mento della demo­cra­zia che è mani­fe­sto nella ope­ra­zione «rifor­mi­stica» in atto (ma ini­ziamo a chia­marla col suo nome, Con­tro­ri­forma, poi­ché la nostra Riforma fu la Costi­tu­zione repub­bli­cana nata dalla Resi­stenza), per difen­dere anche ciò che Togliatti ha saputo costruire. Per que­sto non vi è con­trap­po­si­zione reale tra Togliatti e Ber­lin­guer. Essi sono, si sarebbe detto un tempo, «uniti nella lotta».


Berlinguer, il leader sconfitto ma non disilluso
Tempi presenti. Trent’anni fa la morte del segretario del Pci coincide con un punto di svolta della storia repubblicana. Come d’altronde emerge dalla biografia del dirigente comunista a firma di Chiara Valentini

Norma Rangeri, 9.7.2014 il Manifesto

Il nuovo gruppo ren­ziano avrebbe il com­pito di gui­dare il «Par­tito della Nazione» (copy­w­rit di Alfredo Rei­chlin) verso il pro­gresso e il benes­sere del nostro mal­con­cio paese. Di fronte a que­sto par­tito final­mente mag­gio­ri­ta­rio (anche se per effetto di defor­manti premi di mag­gio­ranza e se di massa per il momento c’è solo l’astensionismo) è dun­que lecito chie­dersi se il suo padre nobile vada ricer­cato nel com­pro­messo sto­rico ber­lin­gue­riano o se, vice­versa, quel ten­ta­tivo di governo della mal­certa demo­cra­zia ita­liana non gli sia nep­pure parente per­ché, come diceva Enrico Ber­lin­guer, «non c’è fan­ta­sia, inven­zione o rin­no­va­mento se si sman­tella quello che vi è alle spalle». La neces­sa­ria distanza tem­po­rale tra quella tra­iet­to­ria ber­lin­gue­riana e i nostri tempi potrebbe favo­rire final­mente un’analisi sto­rica su quella sta­gione cru­ciale. E il libro di Chiara Valen­tini Enrico Ber­lin­guer (Fel­tri­neli, pp. 342, euro 14) è un ponte verso un auspi­ca­bile approdo sto­rico per la note­vole mole di docu­men­ta­zione rela­tiva ai ver­bali delle dire­zioni del Pci, diven­tati pub­blici in que­sti anni («una miniera di infor­ma­zioni sui fatti poli­tici anche inter­na­zio­nali, sulle deci­sioni e sugli scon­tri al ver­tice, per esem­pio negli anni ’80 Ber­lin­guer si era tro­vato più di una volta in minoranza)».
 

Un mosaico da decifrare
Il punto di par­tenza, l’immagine che avvia il flash-back sul Pci di Ber­lin­guer è sem­pre la stessa: per­ché quei fune­rali immensi, appas­sio­nati, pieni di gente in lacrime per un uomo riser­vato, per un lea­der distac­cato e poco incline alla reto­rica del con­senso. Scrive l’autrice alla fine del volume: «Quelle selve di pugni chiusi che Enrico non amava e che si alter­nano ai segni di croce, que­gli uomini del potere che di colpo sem­brano aver perso ogni anta­go­ni­smo per il capo dell’opposizione, sono imma­gini di un mosaico mai deci­frato del tutto».
A piazza San Gio­vanni insieme al dolore, quel 13 di giu­gno di trent’anni fa si respira anche una grande inquie­tu­dine, una sen­sa­zione insieme di tri­stezza e di affanno, come già vent’anni prima durante un altro cele­bre fune­rale, quello di Pal­miro Togliatti. Nella pre­fa­zione al suo Quando c’era Ber­lin­guer (la rac­colta dei testi delle inter­vi­ste apparse nel bel film omo­nimo), Wal­ter Vel­troni cita la con­clu­sione di Sto­ria degli ita­liani, dello sto­rico Giu­liano Pro­cacci, su quei fune­rali del 1964: «Nella tri­stezza che lo accom­pa­gnava per l’ultima volta, vi era la con­sa­pe­vo­lezza di un tra­guardo che non era stato rag­giunto e il pre­sen­ti­mento di un lungo e fati­coso cam­mino».
Se il film di Vel­troni ci ha emo­zio­nato con la forza delle imma­gini, Valen­tini ci intro­duce al die­tro le quinte del «potere rosso», ci con­sente di par­te­ci­pare alla for­ma­zione di un lea­der, di seguirlo passo passo nella sua cre­scita umana e poli­tica.
In que­sto revi­val ber­lin­gue­riano (biso­gna dirlo: ricco di grandi bana­liz­za­zioni che, come ha scritto sul mani­fe­sto Luciana Castel­lina rife­ren­dosi al pre­mio Strega, Fran­ce­sco Pic­colo, spesso dipin­gono Ber­lin­guer come «la figura un po’ pate­tica del vec­chio nonno»), la discus­sione poli­tica si accende nel giu­di­zio sulla linea poli­tica degli anni ’70-’80. Tut­ta­via, e come sem­pre, vicenda pri­vata e dimen­sione poli­tica sono inscin­di­bili. Si com­prende Ber­lin­guer se si è cono­sciuto Enrico, la sua casa, la sua fami­glia, la sua città. E la tra­ge­dia che lo col­pi­sce ancora ragaz­zino, inter­rom­pendo le belle estati di Stin­tino a gio­care alla Rivo­lu­zione fran­cese (ovvia­mente pren­dendo per sé la parte di Robe­spierre). Una tra­ge­dia che ne cam­bierà per sem­pre il carat­tere estro­verso, vivace, di figlio felice di una fami­glia dell’alta bor­ghe­sia sas­sa­rese. La madre si ammala di ence­fa­lite ende­mica, il male pro­cede len­ta­mente, poi la prende fino a defor­marle il volto. Al punto che i com­pa­gni di gio­chi non fre­quen­tano più la casa di quel ragaz­zino che perde la madre quando fre­quenta il quarto gin­na­sio. Il pro­fes­sore che gli fa ripe­ti­zione parla di «un ragazzo dispe­rato».
Le uni­che occa­sioni in cui si sot­trae alla soli­tu­dine sono le discus­sioni di poli­tica nella grande casa di Sas­sari, con il padre bril­lante avvo­cato, bor­ghese illu­mi­nato. «Avevo letto Baku­nin — dice Ber­lin­guer — mi sen­tivo un anar­chico». Let­ture clan­de­stine (Marx), let­ture libere (gli amati filo­sofi). A farne le spese gli studi liceali. Ber­lin­guer pre­fe­ri­sce di gran lunga il poker (dove invece è bra­vis­simo). E con la scusa delle carte fre­quenta i luo­ghi di ritrovo dei comu­ni­sti dei quar­tieri poveri, dove ini­zia il suo per­corso di «comu­ni­sta auto­di­datta, un po’ estre­mi­sta». Che finirà in car­cere per aver orga­niz­zato i «moti del pane» a Sas­sari nel ’44. Senza il poker e le «cat­tive com­pa­gnie» chissà… forse non avremmo avuto il più impor­tante segre­ta­rio del Pci.
Il gio­vane Enrico all’università e alla vita pro­fes­sio­nale che la fami­glia indi­cava, pre­fe­ri­sce il par­tito, la mili­tanza nelle orga­niz­za­zioni gio­va­nili. Un per­corso lineare, soli­ta­rio, di mas­sima appli­ca­zione e devo­zione alle regole, ma sem­pre lon­tano dal fana­ti­smo ideo­lo­gico come è pos­si­bile leg­gere in un pas­sag­gio impor­tante che Valen­tini mette a sigillo della prima parte del libro. Il XII con­gresso, nel ’69, e la suc­ces­siva radia­zione del gruppo del «Mani­fe­sto». Pagine intense, con le testi­mo­nianze di Ros­sana Ros­sanda e Luigi Pin­tor.
Si capi­sce che Ber­lin­guer è con­tra­rio alla radia­zione. Il segre­ta­rio del Pci chiede e ottiene che la pub­bli­ca­zione della Rivi­sta «Il Mani­fe­sto» venga rin­viata di qual­che mese, ma quando final­mente va in edi­cola su quelle pagine c’è scritto chiaro e tondo che biso­gna tagliare il cor­done ombe­li­cale con l’Unione sovie­tica. Tanto basta per met­tere in moto il pro­cesso della radia­zione. Al quinto numero («Praga è sola») scatta l’aut-aut: o chiu­dete la rivi­sta o siete fuori. Non che den­tro il par­tito non si discuta in ter­mini forti, ma il dis­senso non può essere così espli­cito e così pub­blico. A Belin­guer viene rico­no­sciuto di aver cer­cato in ogni modo di evi­tare il distacco. Il giorno della sua morte Pin­tor e Ros­sanda scri­vono sul nostro gior­nale il loro saluto. «La radia­zione fu una brutta pagina che Ber­lin­guer non con­tri­buì a scri­vere… forse avrei dovuto par­larci più a fondo, prima della rot­tura… il nostro difetto mag­giore è stata l’impazienza, il grande limite del Pci, all’opposto, l’essere lento e in ritardo», scrive Pin­tor. «È il segre­ta­rio del Pci con cui si è con­su­mata la nostra rot­tura. Noi abbiamo guer­reg­giato con il padre senza mai male­dirlo», scrive Ros­sanda sulla stessa prima pagina. Sospeso tra tra­di­zione e inno­va­zione, tra con­ser­va­zione e rivo­lu­zio­na­mento, Ber­lin­guer fa un passo avanti e poi torna al cen­tro. Il par­tito innan­zi­tutto.
Del resto Belin­guer aveva dimo­strato la sua aller­gia alle basto­na­ture sta­li­niane, anche in un’altra occa­sione, acca­duta molto tempo prima della radia­zione del gruppo del «Mani­fe­sto». L’episodio è rac­con­tato in una pagina molto pre­ziosa. Dai ver­bali della dire­zione del Pci del 30 otto­bre del ’56, sui fatti d’Ungheria, emerge il «pro­cesso» al segre­ta­rio della Cgil Giu­seppe Di Vit­to­rio. Il lea­der sin­da­cale si sfoga con l’amico Anto­nio Gio­litti («L’armata rossa che spara sui lavo­ra­tori di un paese socia­li­sta è inac­cet­ta­bile»), rin­ca­rando poi la dose con una sua pub­blica dichia­ra­zione: «L’intervento sovie­tico viola il prin­ci­pio dell’autodeterminazione dei popoli». Togliatti, e sia pure con toni diversi, scrive Valen­tini, «tutti gli uomini della dire­zione, da Amen­dola a Ingrao, da Longo a Ter­ra­cini, si erano schie­rati con il segre­ta­rio cri­ti­cando dura­mente il capo della Cgil. L’unica voce con­tra­ria era arri­vata dal mem­bro più gio­vane, dal poco più che tren­tenne Enrico Ber­lin­guer: ’In Unghe­ria c’è stata un’esplosione di mal­con­tento popo­lare e ciò esige di spie­garne le cause… se ci sono due posi­zioni tra i com­pa­gni della Cgil e il par­tito si sosten­gano aper­ta­mente». È l’inizio di una lunga mar­cia che lo allon­ta­nerà pro­gres­si­va­mente dal regime sovie­tico per avvi­ci­narlo al valore uni­ver­sale della demo­cra­zia, anche a costo di rischi per­so­nali (l’ormai accer­tato atten­tato in Bul­ga­ria nei primi anni ’70).
Così come è una lunga mar­cia quella che lo por­terà dalla dif­fi­denza verso il refe­ren­dum sul divor­zio all’adesione al movi­mento fem­mi­ni­sta. Un aspetto della «rivo­lu­zione cul­tu­rale» ber­lin­gue­riana che oppor­tu­na­mente Valen­tini sot­to­li­nea. Nel ’74 noi del Mani­fe­sto par­liamo di occa­sione straor­di­na­ria per la tra­sfor­ma­zione dei rap­porti ses­suali e sociali, in sin­to­nia con il sen­ti­mento pro­fondo del paese. Ber­lin­guer è «togliat­tiano». Pre­oc­cu­pato degli equi­li­bri poli­tici con la Dc, riduce la que­stione cat­to­lica a que­stione demo­cri­stiana. Il libro insi­ste, e giu­sta­mente, sull’evoluzione del segre­ta­rio che appro­derà alla «teo­ria dif­fe­renza», con­vin­cen­dosi del nuovo approc­cio teo­rico: «Se non ci sarà anche la rivo­lu­zione fem­mi­nile non ci sarà alcuna reale rivo­lu­zione in Occi­dente».
E tut­ta­via sotto la sua guida si esprime la linea più di destra del par­tito, pur non essendo Ber­lin­guer un uomo della destra comu­ni­sta, anzi, come scrisse Ros­sanda alla sua morte, essendo «più un uomo dei Fronti popo­lari che parente di Turati».
E per poli­ti­che di destra si devono inten­dere i due grandi abba­gli stra­te­gici: il com­pro­messo sto­rico (dopo il golpe cileno del 1973), un grave errore di pro­spet­tiva per­chè in quel momento l’Europa sta andando a sini­stra non a destra; per­ché la Dc non è Moro ma Andreotti. E la suc­ces­siva, coe­rente scelta dell’unità nazio­nale, nel ’76, quando il Pci lascia soli i movi­menti del ’77, con tutto il ter­ri­bile far­dello che ne con­se­guirà, fino all’assassinio di Aldo Moro. No, è la tesi del libro, pro­prio l’«affaire Moro» dimo­stra che Ber­lin­guer aveva visto giu­sto sulle ten­sioni auto­ri­ta­rie, aveva ragione a per­se­guire lo sto­rico compromesso.
 

La seconda svolta di Salerno
Furono comun­que bru­cianti scon­fitte poli­ti­che, appun­ta­menti man­cati, ricco con­cime per l’anomalia ita­liana. Sot­to­li­neare i punti di un dis­senso stra­te­gico con quel par­tito comu­ni­sta è impor­tante anche per rico­no­scere la suc­ces­siva rot­tura di con­ti­nuità che nel 1980 prende corpo con la cosid­detta «seconda svolta di Salerno», dopo il ter­re­moto dell’Irpinia, quando tra lo «strappo» in poli­tica inter­na­zio­nale, la vicenda ope­raia della Fiat e l’esplodere della que­stione morale, i ragio­na­menti di Ber­lin­guer si diri­gono verso quell’alternativa di sini­stra che la pre­ma­tura fine non gli con­sen­tirà di met­tere in atto. Que­sto lea­der, scon­fitto ma non disil­luso, torna all’intesa con la sini­stra, chiama i qua­dri del Pdup a entrare nel par­tito, dà nuova spinta al movi­mento paci­fi­sta. Non farà in tempo a per­cor­rere le sue nuove fron­tiere, muore pro­prio quando urge una rifon­da­zione della sini­stra in un paese che vive l’onda di piena del cra­xi­smo, pre­lu­dio di un ber­lu­sco­ni­smo che scorre ancora invi­si­bile sotto la pelle. Intanto il mondo tele­vi­sivo di Arcore esi­biva una neu­tra­lità tutta appa­rente ege­mo­niz­zato dalle future teste d’uovo della sini­stra post-moderna.
Oggi vediamo tra­mon­tare quel mondo ma soprav­vi­ver­gli l’egemonia sot­to­cul­tu­rale, e quella que­stione morale che il «pen­siero lungo» di Ber­lin­guer aveva decli­nato come que­stione demo­cra­tica, né più né meno. Il segre­ta­rio del Pci fu per­sino vili­peso, den­tro e fuori il par­tito, in una vio­lenta pole­mica ingag­giata in nome di una pax cra­xiana dalla destra comu­ni­sta di Gior­gio Napo­li­tano. Solo Fabri­zio Barca ha ripreso la discus­sione nei ter­mini ber­lin­gue­riani, di una fame­lica inva­sione delle affa­ri­sti­che nomen­kla­ture di par­tito nelle isti­tu­zioni. Ina­scol­tato. Si fa prima a dire «pren­dia­moli a calci nel sedere que­sti cor­rotti», oppure «man­diamo un super­com­mis­sa­rio», che a ripen­sare quelli che ancora ci osti­niamo a chia­mare par­titi men­tre in realtà sono comi­tati, cor­date, elet­to­rali, pre­lu­dio al pre­si­den­zia­li­smo che verrà.

Nessun commento: