martedì 28 ottobre 2014

Al peggio non c'è mai fine: Renzi fa sembrare di sinistra persino Cacciari





E' sempre più chiaro - ma chi aveva dubbi? - che la vecchia guardia ex piccista punta sul logoramento per una improbabile controscalata. Questo condizionerà il potenziale dei vendolian-civatian-grassiani e ne vincolerà anche la linea politica [SGA].

Massimo Cacciari Non c’è nulla di casuale, nulla di improvvisato, nell’attacco di Renzi al posto fisso e all’articolo 18

“Matteo abbatte i simboli della socialdemocrazia per sedurre il centrodestra con il Partito della Nazione” “Il premier agita bandiere ideologiche e di fatto allontana le due anime del Pd. Una scissione? Non la teme e forse, sotto sotto, la desidera”
intervista di Sebastiano Messina  Repubblica 28.10.14
ROMA «Non c’è nulla di casuale, nulla di improvvisato, nell’attacco di Matteo Renzi al posto fisso e all’articolo 18. Lui sta abbattendo i simboli della sinistra socialdemocratica per penetrare nel centrodestra con il progetto del Partito della Nazione. E’ un piano lucidissimo». Non è per niente stupito, Massimo Cacciari, della durezza dello scontro che si è acceso nel Pd.

Professor Cacciari, non è la prima volta che un presidente del Consiglio di sinistra dice che è finita l’epoca del posto fisso (lo disse D’Alema 15 anni fa). Eppure stavolta sembra diventato lo spartiacque tra le due anime del Pd, quella che si è radunata alla Leopolda e quella che è scesa in piazza con la Cgil. Perché?
«A volte il tono è tutto. Mentre gli altri dicevano queste cose con un tono di analisi, anche spietata, Renzi mi presenta un destino come se fosse un suo successo personale: ah che bello, finalmente è finita l’epoca del posto a tempo indeterminato! Ma come si fa a non comprendere il carico di ansia, di frustrazioni che una situazione di questo genere può determinare? Un politico non può fermarsi all’analisi: deve dirmi quali sono i rimedi. Deve dirmi quali ammortizzatori sociali ha previsto, e quali garanzie avranno i lavoratori senza più posto fisso per la loro pensione».
Il segretario del Partito democratico, dice lei, non dovrebbe parlare così.
«Neanche il più feroce dei conservatori ha mai presentato queste trasformazioni sociali che possono generare ansie ed angosce come se fossero delle pensate geniali».
Il vero centro della polemica sembra però l’abolizione dell’articolo 18. Difenderlo oggi, ha detto Renzi, è come cercare di mettere il gettone nell’Iphone. E’ così?
«Ma è evidente che l’abolizione dell’articolo 18 è una bandiera ideologica, una banderuola rossa che Renzi sventola sotto il naso dei suoi oppositori e dei suoi sostenitori. L’ha detto lui stesso».
E perché, secondo lei, ha scelto questo tema, in questo momento e in questo modo?
«Perché è il tema che gli dà più spazio nel costruire il Partito della Nazione. E’ un tema ideologico molto forte, che gli permette di penetrare nell’ambito dell’elettorato di centrodestra. E l’articolo 18 è una formidabile arma ideologica per costruire questo consenso trasversale, infinitamente al di là dei confini tradizionali del centrosinistra. Siamo di fronte a un politico puro, e di razza secondo me. Il suo è un calcolo tutto politico, non c’entra nulla il ragionamento economico».
Ma il partito della Leopolda e quello di piazza San Giovanni possono convivere?
«Queste due anime sono sempre meno avvicinabili, ma Renzi il problema di tenerle insieme non se lo pone neanche. Lui pensa: se io do l’impressione di entrare in un gioco di compromessi e di mediazioni tra personaggi che la pubblica opinione ritiene assolutamente sorpassati, io divento uno di loro, e perdo».
Ormai il tema della scissione è sul tavolo. Non la temo, dice Renzi. Sarà inevitabile, secondo lei?
«Io credo che lui non solo non la tema ma sia sul punto di desiderarla. Fino a qualche tempo fa no, ma ora forse comincia a pensare che la scissione gli convenga».
Cioè crede che tagliare le radici, e perdere un pezzo del partito, gli porti più voti?
«Se c’è una scissione, è chiaro che senza i Bersani e i D’Alema eccetera non potrà mai rifare il 41 per cento. Ma il taglio delle radici potrebbe convenirgli, per realizzare il suo progetto. E forse avrà fatto questo ragionamento: se escono da qui, cosa fanno? Si rimettono con Vendola? Fanno un’altra Rifondazione? Se ci fosse qualcuno che ha un’idea oltre Renzi, beh allora francamente sarei il primo io a iscrivermi al partito di questo qualcuno. Ma qui hanno tutti facce, e idee, pre Renzi. Eccetto Civati. Se togli lui, gli altri sono i reduci, come li chiama Renzi. Hanno fatto il Partito democratico senza uno straccio di idea nuova: l’unico che ce l’aveva era Veltroni, che infatti oggi appoggia Renzi. A parte Veltroni, conservatorismo puro, su tutto: dalle riforme istituzionali al lavoro. Cosa vuole che possano combinare, se escono dal Pd? Niente. Il vero problema è: ma a noi piace, il Partito della Nazione?».
Già. A lei, per esempio, piace?
«Mi piace? Ma io lo detesto! E’ una boutade populistica per arraffare voti e conquistare un’egemonia attorno alla figura di un leader. Ogni decisione favorisce una parte e sfavorisce un’altra. Perciò sono nati i partiti politici, nella democrazia. Partiti: da “parte”. Un Partito della Nazione è una contraddizione logica. Da analfabeti della politica. Ma questo non inficia minimamente la strategia di Renzi e la sua coerenza. Lui oggi si fa un partito suo e se lo fa grosso, rappresentativo, tendenzialmente egemone, chiamandolo Partito della Nazione. Approfittando dello sfascio della tradizione socialdemocratica e cattolico-democratica e anche dello sfascio del berlusconismo. E’ un’occasione unica, irripetibile. E lui la sta cogliendo».
Così finisce l’era della concertazione 
“Piazza e scissione non fanno paura” 
Il premier sterilizza il fuoco amico: “A sinistra non c’è più spazio”
di Fabio Martini La Stampa 28.10.14
La piazza della Cgil era grande, polemica e meno «pensionata» del solito, ma a Renzi non fa paura. Due settimane fa aveva detto a Susanna Camusso, «ci vediamo dopo la vostra manifestazione», ma ieri pomeriggio il premier non si è presentato al tavolo con i sindacati. Pier Carlo Padoan ha aperto le danze, illustrando per circa dieci minuti, la Legge di Stabilità e alla fine il sottosegretario Graziano Delrio ha tirato le conclusioni: «Mandateci delle note di merito, poi valuteremo se incontrarci di nuovo». Questo è il «new deal» di Matteo Renzi nei rapporti con i sindacati e lui stesso ha spiegato la nuova filosofia con una chiarezza senza precedenti a Lilli Gruber nel suo «Otto e mezzo»: il governo non chiede permessi ai sindacati, il cui compito è trattare ma con gli imprenditori, per salvare i posti di lavoro. 
Una svolta, una sorta di manifesto programmatico nei rapporti col sindacato, che arriva 72 ore dopo la imponente manifestazione della Cgil. Il presidente del Consiglio di fatto ha dichiarato finita non solo la concertazione, ma soprattutto la stagione della consociazione, quella nella quale le parti sociali erano chiamate dai governi per discutere in via preliminare delle principali misure economiche, disponendo di fatto di un diritto di veto. E a chi gli chiedeva se ora il potere di veto si sia esaurito, Renzi ha risposto senza sfumature: «Per me sì». In questo modo Renzi ha ridefinito il rapporto con la Cgil, dimostrando di non temere l’escalation conflittuale annunciata dal principale sindacato italiano. 
La Cgil nei prossimi giorni sarà impegnata in mobilitazione unitarie degli statali e dei pensionati, ma nelle prossime settimane dovrà decidere se fare il passo ulteriore e proclamare, da sola, lo sciopero generale. Una prospettiva alla quale - ecco la vera novità - Renzi ha già tolto ogni sbocco rivendicativo, annunciando che non si riaprirà alcuna trattativa con la Cgil. Semmai, rispondendo alla Gruber, ha lasciato capire che potrà consentire, sua sponte, qualche concessione ad alcune delle istanze sindacali che ritenesse condivisibili. Un Renzi apparso a La7 molto sicuro di sé, poco «reattivo» alle domande meno compiacenti, anche perché nelle ultime ore il presidente-segretario del Pd si è convinto che non esiste il pericolo-scissione dentro il suo partito. Non tanto perché Maurizio Landini ha ripetuto ciò che Renzi conosce a memoria - il leader della Fiom non è interessato ad operazioni politiche come federatore della sinistra radicale - ma perché ha capito che la minoranza è intenzionatissima a restare e dunque pronta ad organizzarsi in corrente. Gianni Cuperlo lo dice in modo chiaro: «Il Pd rischia di diventare una confederazione e in un modello simile le diverse culture hanno il dovere, non il diritto, di organizzarsi».
In altre parole la minoranza post-comunista del Pd intende replicare il modello messo in campo da Massimo D’Alema nel 2007 per contrastare la leadership di Walter Veltroni. Allora nacque un’associazione (Red) e persino una Tv. Ma su questi argomenti le parole di Renzi sono quelle di chi non teme una scissione e neppure la auspica: sabato in piazza «c’era una parte che immagina un raggruppamento molto più di sinistra radicale, ma esiste già qualcosa a sinistra», «non credo alla scissione, sarebbe il colmo, abbiamo aperto le porte per arrivare al 41%.». Ultime ore per la scelta del ministro degli Esteri: boatos e nulla più per Lia Quartapelle, 32 anni, deputata Pd molto competente in politica estera ma considerata troppo giovane. La scelta di Renzi (e Napolitano) andrà su una personalità esperta.

Repubblica 28.10.14
Il piano di Renzi per sterilizzare la Cgil
“Niente spazi a chi vuole solo lo sciopero”
di Francesco Bei

ROMA Al di là dell’antipatia personale tra Renzi e Camusso, che sicuramente non aiuta. Al di là dei singoli punti della manovra — sui quali sia Poletti che Delrio hanno confermato la disponibilità ad ascoltare le proposte dei sindacati — ad aprire una voragine tra il corso attuale di palazzo Chigi e la Cgil è il proposito politico del premier. Elaborato da tempo e messo in pratica in maniera scientifica in questi giorni: «Rendere questo sindacato ininfluente rispetto al governo». Non tutti i sindacati, ma «questo». Ossia la Cgil di Camusso, il sindacato che «fa politica», l’unico giacimento culturale ed elettorale a cui potrebbe attingere domani un nuovo soggetto di sinistra-sinistra. Un sindacato che deve tornare a «fare il proprio mestiere», lasciando la scrittura delle leggi a chi è stato eletto.
L’ostilità del resto è reciproca. Ieri pomeriggio, quando il ministro Poletti si è lamentato con i leader sindacali perché sulle agenzie di stampa stavano uscendo «in diretta» le frasi appena pronunciate da Padoan sulla legge di stabilità, Camusso l’ha fulminato con una battuta perfida: «Ministro non siamo noi a mandare sms ai giornalisti. Renzi non gliel’ha detto che al sindacato abbiamo ancora il telefono a gettoni?». Dettagli di un dialogo mai iniziato. Per volontà reciproca, a sentire i renziani. «Camusso — riferisce uno dei ministri presenti alla riunione — non era interessata, a differenza degli altri, a migliorare la legge di Stabilità. Voleva solo lo scontro. La Cgil pensa ormai allo sciopero generale e le sue critiche sono state tutte politiche. Ma la Finanziaria la facciamo noi, non il sindacato».
Un dialogo tra sordi. Come quello andato in scena ieri attorno al lungo tavolo rettangolare del ministero del Lavoro. «Abbiamo impostato una manovra anticiclica — ha spiegato Padoan — per la prima volta senza seguire i rigidi criteri dell’austerity. I nostri obiettivi sono anche i vostri: crescita e occupazione». Ma se gli altri sindacalisti, da Barbagallo della Uil a Furlan della Cisl, hanno avanzato proposte concrete di modifica della manovra, la massima tensione c’è stata quando la parola è passata alla numero uno di Corso d’Italia. Che ha chiesto una Finanziaria molto più forte, ben oltre i 36 miliardi impostati dal governo. Una Finanziaria «di svolta», da riscrivere daccapo a partire dal nodo delle risorse. Dove trovare i soldi? «Con una tassa patrimoniale» è stata la risposta di Camusso. I ministri in sala si sono guardati esterrefatti. Una visione più lontana da quella del governo non poteva esserci. Poletti comunque non ha chiuso la porta a modifiche: «Ora inizia l’iter parlamentare, la manovra potrà cambiare a patto che i saldi restino invariati. Mandateci i vostri contributi e li esamineremo. Siamo aperti a valutarli». Quasi una provocazione per la leader Cgil: «Allora, se volete una mail, che siamo venuti a fare? Ci state dicendo che non avete intenzione di aprire alcuna contrattazione?». Esatto, nessuna trattativa. «Non so chi poteva pensare di uscire di qui con una manovra stravolta a due giorni dalla sua pubblicazione», è sbottato il sottosegretario Delrio. Del resto era stato questo il caveat che Renzi aveva consegnato a Padoan e agli altri prima dell’incontro: ascoltateli e basta, nessun impegno.
Camusso a parte, con gli altri leader confederali la distanza è stata meno grande. Anzi, su alcuni punti specifici — dai servizi sociali offerti dai patronati alla tassazione del Tfr — ai piani alti del governo sono disposti ad ammettere che «le questioni poste non sono prive di fondamento». È l’atteggiamento complessivo ad essere cambiato. Nessun ministro ha infatti abbassato la testa. Anche la “mite” Marianna Madia si è fatta sentire quando Barbagallo protestava per il fat- to che solo 800 mila lavoratori del pubblico impiego avessero beneficiato degli 80 euro. «Ottocentomila sono uno su quattro e avranno 960 euro netti all’anno: più di qualsiasi aumento contrattuale», gli ha fatto notare il ministro della P. A. A un altro che si lamentava per il blocco dei contratti, sempre Madia ha replicato: «Cottarelli prevedeva 80 mila esuberi e invece noi, nonostante la crisi, non licenziamo nessuno. Non mi sembra che lo Stato sia un cattivo datore di lavoro». Rispetto e ascolto, ma nessuna sudditanza. Questa la linea comune dettata da palazzo Chigi. Non era scontato dopo il successo della manifestazione di piazza San Giovanni, nel bene e nel male una grande prova di forza del sindacato. Eppure, anche su questo, Renzi non accetta di farsi condizionare. «Quei 200 mila che hanno sfilato in corteo — l’hanno sentito dire domenica — pensano già a un altro partito». Vale a dire, sono già un mondo che guarda oltre il Pd. Chi è sceso in piazza non vota già più dem, forse ha votato Tsipras alle ultime elezioni e forse voterà un nuovo partito guidato da Landini. In ogni caso Renzi ha deciso che non li inseguirà, come non insegue Camusso.


Renzi esclude la scissione
Ma la sinistra Pd lo attacca “Cerca lo scontro per votare” Fassina: “Voglio risposte, non battute”. Boschi: “Bindi astiosa” Consulta, possibile un incontro con i 5Stelledi Tommaso Ciriaco Repubblica 28.10.14
ROMA Promette «rispetto per chi la pensa diversamente», ma giura che non sarà la minoranza del Pd a frenarlo: «Non credo alla scissione - assicura Matteo Renzi - sarebbe il colmo. Al governo ascoltiamo tutti, ma non ci faremo fermare da nessuno». Ospite di “Otto e mezzo”, il premier prosegue insomma nella battaglia ingaggiata con la sinistra dem. Senza arretrare dal sentiero intrapreso: «Per anni la politica è stata ferma. Adesso basta».
L’affondo contro l’opposizione interna arriva al termine di una giornata tesa. L’ennesima, in queste ultime settimane. Non è tanto il modo in cui il ministro Maria Elena Boschi liquida Rosy Bindi ad allarmare: «Ha spesso astio verso di noi, ma con questo fa male a se stessa». Sono soprattutto le mosse della minoranza dem, pronta a mettere di nuovo nel mirino il premier. «Chi fa il segretario del Pd deve occuparsi del partito, non di riunioni di corrente - picchia duro Stefano Fassina, il giorno dopo la Leopolda - Voglio risposte precise, non battute. Renzi cerca sistematicamente lo scontro, un incidente per giustificare le elezioni. Il voto a primavera è un rischio reale». Nulla di vero, replica il premier: «Escludo il voto anticipato, in questo momento l'Italia non ha bisogno di un premier che prende voti, ma di un governo che cambia l'Italia. E se ci sarà bisogno di faticare un po’ di più perché in Parlamento qualcuno si mette contro, faremo un po’ più fatica».
Una cosa è certa, comunque: la sinistra del partito non intende togliere il disturbo. Neanche di fronte a uno strappo: «Senza modifiche non voterò la fiducia al Jobs act - assicura Fassina - ma non esco dal Pd». È la linea degli oppositori, come dimostra anche Cesare Damiano: «Voglio fare la mia battaglia all'interno del partito, non formare un piccolo partito di estrema sinistra». Nel mezzo, intanto, si coagula un’area cuscinetto, con l’idea di allontanare l’incubo di uno scontro frontale. «Se dovessi scoprire che la Leopolda è alternativa alla piazza della Cgil - sostiene Michele Emiliano - non potrei più stare nel Pd». E anche i Giovani democratici cercano una terza via: «C’è bisogno di una Leopolda del Pd».
In attesa del duello in Parlamento, Renzi ostenta serenità. La piazza della Cgil, è la sua analisi, non sarà incubatrice di un nuovo progetto politico. «A San Giovanni c’era una parte che immagina un raggruppamento di sinistra radicale. Ma c’è già qualcosa alla nostra sinistra: ha preso il 4,3%, mentre il Pd il 40%...». Non è Maurizio Landini, comunque, il “sospettato”: «Ha idee diverse dalle mie, ma mi piace dialogare con lui».
Alle Camere, nel frattempo, la maggioranza è attesa da alcuni passaggi cruciali. A partire dall’elezione dei giudici costituzionali, già fallita diciannove volte: «Se dovessero crearsi le condizioni per uno sblocco, mi piacerebbero candidature femminili», rilancia Renzi, archiviando definitivamente la candidatura di Luciano Violante: «È il primo a rendersene conto. È un servo, un servitore - dice correggendosi - delle istituzioni». Per raggiungere la meta, Renzi apre nuovamente al dialogo con i grillini: «Spero che nelle prossime ore possa esserci un incontro con loro». Stavolta, però, a livello dei capigruppo. Lo stesso spirito di collaborazione auspica anche sulla legge elettorale. Con «la parte più seria del Movimento», come pure con Silvio Berlusconi: «C’è chi vede i fantasmi, per me il patto del Nazareno è un accordo doveroso». L’obiettivo è un «sistema bipartitico, senza le storture del modello Usa».

Riunioni e nervi tesi nella minoranza pd Ma si cerca un compromesso sul Jobs act
Fassina: senza modifiche niente fiducia. Cuperlo: mi batterò fino all’ultimo
di Monica Guerzoni Corriere 28.10.14
ROMA Nel Pd spaccato tra piazza e Leopolda la tensione è tale che, per qualche ora, una riunione «segreta» ha fatto impennare le quotazioni della scissione. I leader della minoranza si sono visti (a porte chiuse) ieri pomeriggio nelle stanze del Nens e con i padroni di casa, Bersani e Visco, c’erano Cuperlo, Fassina, D’Attorre, Gualtieri... All’uscita hanno trovato ad attenderli giornalisti e telecamere e Chiara Geloni, che ha organizzato il «summit» assieme a Claudio Sardo, ci ride su: «I tiggì devono aver pensato che fosse in corso un vertice per la scissione...». E invece? «Era solo un incontro accademico, per preparare il secondo numero della rivista online Idee Controluce».
Ma tra minoranza e renziani i toni restano alti e gli umori pessimi. La spaccatura è profonda, tanto che Lorenzo Guerini cerca di riconciliare le parti affermando che «la scissione non ha cittadinanza nel Pd». In effetti anche i più duri a sinistra lavorano per costruire, da dentro, l’alternativa a Renzi. «Cerca l’incidente perché vuole andare a votare», è il sospetto di Fassina. E D’Attorre apre un nuovo fronte sostenendo che il segretario, in caso di voto anticipato, «dovrà passare per le primarie».
Ma adesso il passaggio stretto è il Jobs act e a rischiare di più, visti i numeri a Montecitorio, è proprio l’ala sinistra. Renzi non vuole cambiare di una virgola la delega e la minoranza deve fare i conti con gli umori di San Giovanni. «La gente in piazza ci voleva menare!», ricorda preoccupato Pippo Civati. Fassina è netto: «Senza correzioni significative, non voto la delega e non partecipo alla fiducia». Già, perché alla Camera il voto è in due fasi, il che consentirà ai dissidenti di modulare lo strappo. D’Attorre ritiene le norme di Renzi sul lavoro «estranee al programma e al dna del Pd» e conferma che, se il testo non cambia, le condizioni per il sì non ci sono: «La fiducia? Non mi presenterò al momento del voto». Poi lascerà il Pd? «Nessuno pensi di usare un voto difforme per costringere qualcuno ad andarsene».
La minoranza ha capito che, se non vuole soccombere ancora, dovrà coordinare le mosse. «Renzi non può buttarci fuori in 40 e far cadere il governo», spinge per la linea dura Civati e lancia appelli a unire le forze, sperando che ci stia anche Bersani. L’obiettivo è cambiare il Jobs Act per scongiurare la rottura e il punto debole che i dissidenti hanno individuato è la presunta incostituzionalità. Rosy Bindi è tra coloro che meditano di «farsi una passeggiata» al momento della fiducia, per poi votare contro la delega: «È in bianco e quindi è incostituzionale. Sull’articolo 18 il merito non è accettabile. Così com’è, non lo voto». Peccato, sospira la ex ministra, perché se Renzi fosse «più accogliente» molti ammorbidirebbero le posizioni: «Invece sta mostrando una chiusura violenta».
Damiano ritiene «impensabile ratificare il voto del Senato» e poiché sa che un mancato accordo provocherebbe «un disastro», ha raddoppiato gli sforzi di mediazione: «Potrò vincere, potrò perdere... Poi ovviamente prenderò le mie decisioni». L’accordo per cui la sinistra spinge è introdurre nella delega le concessioni avanzate da Renzi in direzione e mai raccolte nel testo del Senato. Per Boccia è «il compromesso minimo» e se quelle decisioni non saranno tradotte in norme «si aprirà un problema politico grande come una casa». Cuperlo spera che la partita sia ancora aperta: «Mi batterò per cambiare il testo, fino all’ultimo». Stessa linea per Barbara Pollastrini, che ricorda a Renzi come l’Italia «ha bisogno di unità e non di lacerazioni». I dissidenti pregano che Renzi lo abbia capito: «Quando alza i toni è perché prepara l’intesa...». 

Bersani boccia lo strappo: “La ditta non si molla”
di Giovanna Casadio Repubblica 28.10.14
ROMA «Non molliamo il Pd, la “ditta” non si abbandona». Mentre soffiano i venti di scissione, questa è la parola d’ordine che Pierluigi Bersani va ripetendo a un partito lacerato. Una parte della sinistra dem si è incontrata già ieri pomeriggio al seminario a porte chiuse sull’euro organizzato dalla rivista online “Idee controluce”. C’erano Bersani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina. Ma solo stamani cominceranno colloqui e riunioni per immaginare le prossime mosse dopo lo scontro senza precedenti con Renzi nel week end in cui i Democratici si sono spaccati tra la Leopolda e la piazza Cgil. E in cui il premier ha accusato i vecchi “reduci” di frenare i “pionieri” e ha avviato una sua Bad Godesberg della sinistra italiana.
Ma il “dopo” della minoranza dem è tutto da costruire. Legge di stabilità, Jobs Act, riforma elettorale sono i banchi di prova. Allora, secondo Bersani, bisogna procedere passo dopo passo. È cauto l’ex segretario. Ma già Cuperlo lo è meno: «Ora non siamo più nella fase in cui conta solo l’unità della “ditta” - ha detto il leader della corrente Sin-dem ora dobbiamo essere in grado di rappresentare il mondo del lavoro e le sue richieste». La piazza di sabato insomma non può essere tradita. La sinistra dem, tutta la sinistra - non il solito Pippo Civati e pochi altri - non sembra intenzionata a rientrare nei ranghi e votare la fiducia sul Jobs act, se Renzi andasse avanti come un caterpillar eliminando quel «gettone telefonico in tempi di i-phone» che è, per lui, l’articolo 18. E non sopportano di essere additati come reduci. «Che il posto fisso fosse finito, noi lo abbiamo scoperto al tempo del telefono a gettoni appunto, e francamente il mio i-phone è meglio di quello di Renzi», si sfoga Miguel Gotor. «Ma quale vecchia guardia! Io ho 40 anni, D’Attorre 39...».
È il giorno della rabbia della minoranza; della «preoccupazione» - affermano - per il futuro del Pd di Renzi, non più “ditta” e non ancora Partito della Nazione. «Non molliamo no, nel partito ci stiamo e ci staremo fino all’ultimo, però il Pd non può diventare un luogo di consociativismo e di trasformismo, un contenitore di indifferenziata», dice sempre Gotor che accusa il renzismo di essere «una riverniciatura in stile Anni 80». Nega volontà di scissione la minoranza, ma ripudia un «Pd geneticamente modificato», non aderisce quindi al progetto politico di Renzi. E questa resta la vera e incolmabile distanza.
Il punto di caduta dello scontro tra la sinistra dem e Renzi saranno i voti in Parlamento. Fassina annuncia il suo “no” persino alla fiducia se Renzi deciderà di blindare i provvedimenti. Cuperlo avverte che non ci può essere una resa. «I segnali sono di chi cerca di inasprire lo scontro», è l’accusa al premier-segretario. Eppure - riflette Cuperlo - gli spazi per una mediazione ci sarebbero, a meno che «non si voglia proprio un passaggio simbolico e di rottura. Cambiare e innovare certo, ma da sinistra. Il problema è che la sinistra di cui parla Renzi fa la faccia dura con chi non ha nulla da perdere, con chi è in catene - tanto per usare un termine dell’epoca dei gettoni telefonici - ed è remissiva con i forti».
Ma nel Pd ci sono anche i “pon- tieri”. Cesare Damiano, il presidente della commissione Lavoro, assicura che la battaglia la farà all’interno del partito e intanto studia proposte di compromesso sul Jobs Act, convinto tuttavia che sia la legge di Stabilità il vero banco di prova, con gli stanziamenti per gli ammortizzatori sociali, indispensabili per la protezione di chi perde il lavoro. La sinistra di Landini, di cui tanto si parla dopo la piazza Cgil di sabato, non seduce la minoranza. Soltanto Civati non esclude un’uscita a sinistra: «Io non voglio farne di scissioni, però ci sono quattro cose su cui ci vuole un altro passo. Se la sinistra votasse il Jobs Act così com’è saremmo morti». Civati parlerà con Cuperlo, Fassina, Bersani convinto della necessità di condurre insieme l’offensiva. «Però se poi il cerino in mano resta a me, allora deciderò», precisa. Del resto la tattica di dividere la minoranza è stata quella adottata finora da Renzi, che ripete di voler andare avanti senza deflettere. Fa capire che alla scissione del partito non crede, che ciascuno è ben accolto nel Pd “allargato”, ma al tempo stesso assicura che «nessuno fermerà il governo».
Il braccio di ferro è in corso. Nico Stumpo, il capo dell’organizzazione del Pd ai tempi della segreteria Bersani, parla di «una grande, grande preoccupazione». Alfredo D’Attorre, altro bersaniano doc, sostiene che «qualcuno s’illude se pensa che ci sarà una scissione che agevolerà la mutazione genetica del Pd». Ma se non cambia nulla sul Jobs Act? «Molti di noi non lo voteranno, ma non per questo ce ne andremo. Nel Partito socialista francese 31 deputati non hanno votato la fiducia a Valls, non è che c’è stata una scissione». E c’è chi aspetta di sentire anche la voce di Enrico Letta, l’ex premier defenestrato da Renzi, che venerdì ha fatto a Trieste la sua prima uscita pubblica dopo mesi e mesi di silenzio.

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