giovedì 30 ottobre 2014

Dio ci guardi dall'utopia


Azimuth, il ritorno dell’utopia

Filosofia. Sul terzo numero della rivista, si discute di quel non luogo dove tutti i mondi sono possibili

Monica Micheli, 30.10.2014 
Se negli ultimi venti anni ne ave­vamo sen­tito par­lare come di cosa morta e defunta, ora torna a far par­lare di sé. È l’utopia. Quella strana assenza di luogo che naviga tra il lin­guag­gio e la rivo­lu­zione. Lo spa­zio in cui fini­scono i mondi pos­si­bili che non tro­vano dimora sulla terra. La peri­fe­ria delle nostre parole. 

Iden­ti­fi­cata col tota­li­ta­ri­smo sovie­tico, a volte anche con quello nazio­nal­so­cia­li­sta, inve­stita di alcune pesanti respon­sa­bi­lità sto­ri­che e morali, ripu­diata negli anni Novanta dopo la caduta del muro di Ber­lino e il con­se­guente crollo sovie­tico, l’utopia viene oggi resu­sci­tata e ne viene risco­perta la neces­sità. Ed è così che Azi­muth, la rivi­sta di filo­so­fia fon­data nel 2011 da un gruppo di dot­to­randi (oggi dot­to­rati) della Sapienza di Roma, le dedica il suo terzo numero car­ta­ceo: Uto­pie. Non-luoghi del lin­guag­gio e della poli­tica, a cura di Libera Pisano e Andrea Pinazzi, edi­zioni di Sto­ria e Let­te­ra­tura. È una buona noti­zia che a occu­parsi di uto­pia — attra­verso una rivi­sta nata con l’obiettivo di pro­vare a ridi­se­gnare una mappa pos­si­bile del mondo — siano gio­vani ricer­ca­tori appar­te­nenti a una gene­ra­zione quo­ti­dia­na­mente accu­sata di non avere ideali né pro­spet­tive. Da qui, dall’esperienza e dal punto di vista di que­sti under qua­ranta, si svi­luppa l’ipotesi di cer­care una via soli­dale che desti­tui­sca il mito solip­si­stico dell’eternamente ricco, bello e gio­vane nel quale sem­bra finito l’immaginario occi­den­tale, e dal quale per ora sem­bra inca­pace di uscire. 
Ricon­se­gnare all’utopia una cen­tra­lità nel pen­siero signi­fica anche assu­mersi alcune respon­sa­bi­lità, non ultima quella di inda­gare i nessi tra modello astratto e società reale con­trol­lata in modo tota­li­ta­rio, tra imma­gine unica/universale e mol­ti­tu­dini. Eppure, come scrive Manuela Ceretta in uno degli inter­venti che com­pon­gono que­sto numero, ciò che rende abo­mi­ne­vole il mondo orwel­liano di 1984 è la muti­la­zione del lin­guag­gio, la pra­tica scien­ti­fica e vio­lenta che esclude la forza evo­ca­tiva delle parole. 
Riap­pro­priarsi dell’utopia signi­fica oggi cer­care di inclu­dere nel lin­guag­gio ciò che negli ultimi decenni, in Occi­dente, è stato rimosso: la capa­cità di pre­fi­gu­ra­zione. Signi­fica andare con­tro­cor­rente rispetto a quella muti­la­zione che Orwell aveva pre­vi­sto e che ha negato ogni ipo­tesi di pro­spet­tiva a intere gene­ra­zioni. Nomi­nare l’utopia potrebbe addi­rit­tura con­durre a un nuovo immaginario. 
Qua­lun­que sia il suo limite, l’utopia nasce lad­dove razio­nal­mente ed emo­ti­va­mente rico­no­sciamo che que­sto nostro mondo è ingiu­sto, bru­tale, dolo­roso. Qua­lun­que sia il nostro sogno — nostal­gico, vel­lei­ta­rio, sen­ti­men­tale, pate­tico, intel­let­tua­li­stico — ogni volta com­piamo un atto «sovversivo». 
La rivi­sta ospita una decina di inter­venti di per­so­na­lità filo­so­fi­che inter­na­zio­nali (Pierre Mache­rey, Vin­cenzo Vitiello, Lisa Block de Behar, Nicole Pohl e tanti altri) che inda­gano il tema da diversi punti di vista, pas­sando per i clas­sici della for­mu­la­zione uto­pica fino ad arri­vare alle espe­rienze del Nove­cento e alle nar­ra­zioni di genere. Chiu­dono due inter­venti dei Poeti del Trullo scritti per Azi­muth: una poe­sia che descrive una pic­cola, pos­si­bile città uto­pica, e un sonetto sulla Roma strac­ciona affa­ti­cata dai poteri che la abitano. 
Una bella sfida edi­to­riale, che tor­nerà in libre­ria a dicem­bre con un numero dedi­cato alle cosmo­lo­gie pos­si­bili, tra nar­ra­zione e logica.

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