venerdì 10 ottobre 2014

Errare et perseverare: nel voto del pavido Walter Tocci e nelle sue dimissioni tutta l'inutilità della sinistra italiana

Tocci, uomo del CRS - camera di compensazione ingraiana dei pourparler tra la sinistra PD e la sinistra radicale e incubatore di qualche aberrazione istituzionale - fa un grave danno alle classi subalterne calandosi le braghe per "senso di responsabilità". E offende la costituzione dimettendosi e contravvenendo al principio della libertà di mandato. Con ciò - e questa intervista lo conferma - dimostra che la sinistra italiana non riesce nemmeno a immaginare una fuoriuscita dal modello PD.

Scrivo poco tempo fa in "Democrazia Cercasi":

"... Credo che per una volta abbia ragione chi come Walter Tocci, direttore del Centro per la Riforma dello Stato, pur collocandosi all’interno del Pd e pur votando tutto ciò che passa il convento, a un certo punto non può fare a meno di notare: «La sinistra… ha cambiato il Titolo V per inseguire Bossi, ha introdotto lo ius sanguinis del voto all’estero per dare sponda a Fini, ha sigillato il pareggio di bilancio… per dare retta a Monti». Adesso, «Renzi rischia di ripetere vecchi errori» e – oltre a proporre una legge elettorale che «consente a una minoranza sostenuta dal 20 per cento degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi, con la strada aperta al Quirinale e a modifiche più gravi della Costituzione» – arriva a «minacciare la crisi politica per ottenere la cancellazione del Senato». Sarebbe «una sorta di voto di fiducia al governo in materia costituzionale», commenta Tocci. Il quale conclude: «È allarmante che non desti allarme»".

Quanto è appena avvenuto è una verifica sia  delle preoccupazioni di Tocci sia della pusillanimità e inutilità di un'intera area politica [SGA].



«La legge Pd peggio di quella di Monti» 
Intervista a Walter Tocci. "Del 900 non si può buttare tutto e tenere solo la disciplina perché fa comodo", dice il senatore dimissionario

Daniela Preziosi, il Manifesto 9.10.2014 
Wal­ter Tocci è un diri­gente vec­chio stile, uno stu­dioso, non ama le dichia­ra­zioni estem­po­ra­nee, rara­mente e suo mal­grado si sot­to­pone a inter­vi­ste. Le sue dimis­sioni da sena­tore per un dis­senso radi­cale sulla legge delega hanno scal­fito per la prima volta la gio­iosa boria del segretario-rullo com­pres­sore. Tocci le ha ras­se­gnate al capo­gruppo Zanda subito dopo aver disci­pli­na­ta­mente votato sì alla fidu­cia. Alla chiama di Palazzo Madama dopo di lui ha detto sì anche Mario Tronti, anziano filo­sofo e padre dell’operaismo, anche lui schivo e poco incline verso i gior­na­li­sti. Che però a fine set­tem­bre a Repub­blica aveva detto, pur tenen­dosi alla larga da ogni com­mento sul ren­zi­smo: «Il pro­gres­si­smo è oggi la cosa più lon­tana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sem­pre meglio e più avan­zato di ciò che c’era prima. Sono uno scon­fitto, non un vinto. Abbiamo perso non una bat­ta­glia ma la guerra del 900». Parole amare. Tronti è il pre­si­dente del Cen­tro riforma dello stato, Tocci ne è il diret­tore. Ma prima di dimet­tersi non ha par­lato con il suo anziano mae­stro, per via di quell’idea (comune ai due) di par­tito: «Mi ha avrebbe chie­sto di non farlo».  

Renzi le ha indi­riz­zato parole affet­tuose, ha detto che farà di tutto per farle riti­rare le dimis­sioni. Que­sto cam­bia la sua scelta? 

Mi ha fatto molto pia­cere, ovvia­mente. Que­sto è il Renzi che ci piace. Devo dire però che la prima volta che ho pen­sato alle dimis­sioni è stato quest’estate durante la discus­sione sul bica­me­ra­li­smo. Renzi disse che dis­sen­ti­vamo per con­ser­vare lo scranno. Il Renzi di oggi dice che in un par­tito del 41 per cento ci pos­sono essere posi­zioni diverse. Ora vedremo come si mette in pra­tica. Ci sono altri sena­tori che non hanno par­te­ci­pato alla fidu­cia per una cri­tica non solo al prov­ve­di­mento, ma al fatto che il governo ottiene una delega in bianco senza nes­sun con­trollo. Il voto di fidu­cia ha impe­dito al par­la­mento di pre­ci­sare que­sta delega. Una misura che ha negato la discus­sione parlamentare. 

C’è chi parla di espul­sione, per que­sti tre senatori. 

Mi domando se del vec­chio par­tito nove­cen­te­sco si possa but­tare via tutto — cul­tura, orga­niz­za­zione, iscritti — e man­te­nere solo la disci­plina. Così diventa una gab­bia d’acciaio. Siamo un par­tito post­mo­derno, all’americana, anche House of Card rac­conta che i par­la­men­tari ame­ri­cani pren­dono posi­zioni diverse rispetto al loro pre­si­dente. E quel paese ha gover­nato il mondo. 

Nel Pd i teo­rici del par­tito liquido recu­pe­rano il cen­tra­li­smo demo­cra­tico, e lei, par­ti­ti­sta che infatti vota comun­que sì alla fidu­cia, chiede un par­tito all’americana. 

In un par­tito post­mo­derno è impos­si­bile ripri­sti­nare le vec­chie regole. Ma in que­sto nuovo modo ci sono anche dei van­taggi. Calano gli iscritti, ma i tre milioni che hanno votato le pri­ma­rie deb­bono essere con­vo­cati solo per accla­mare un lea­der? Potreb­bero essere chia­mati nei giorni feriali per par­te­ci­pare alle scelte, sul lavoro o sulla legge elet­to­rale. Siamo in una fase nuova, biso­gna uti­liz­zare le risorse di que­sto tempo senza pren­dere del pas­sato solo ciò che conviene. 

Civati parla di ’ripo­si­zio­na­mento del Pd’, lei stesso in aula, a pro­po­sito del jobs act, ha detto ’non siamo stati eletti per dimi­nuire i diritti’. Il Pd smette di essere un par­tito di sinistra? 

È stato uno strappo con il patto elet­to­rale. Un par­la­men­tare, nelle scelte fon­da­men­tali, deve rife­rirsi agli elet­tori, anche se è stato votato con le liste bloc­cate. Nel pro­gramma del 2013 non c’era scritto che si can­cel­lava il senato. Né che si faceva una legge sul lavoro meno garan­ti­sta di quella di Monti, che ha man­te­nuto il divieto di licen­ziare quando le moti­va­zioni si rive­lano false. Se togliamo quest’ultima bar­riera si potrà licen­ziare rac­con­tando cose fasulle: va con­tro la civiltà giu­ri­dica e con­tro il buon senso. Ed è para­dos­sale che un governo a guida Pd fac­cia una scelta meno garan­ti­sta dei diritti di un governo tecnico. 

Con lei Renzi è stato gen­tile. Ma altre volte ha detto che le mino­ranze vanno asfal­tate. Come potrete restare nel Pd? 

Prendo le parole di Renzi verso di me come un impe­gno. Cui seguirà qual­cosa di nuovo nella vita interna del Pd. 

Nel suo libro Sulle orme del gam­bero ha descritto il Pd come par­tito in fran­chi­sing, con i capi­cor­rente che gesti­scono un brand, più che una linea politica. 

Il Pd accu­mula den­tro sé tanti feno­meni di dete­rio­ra­mento della poli­tica, di nota­bi­lato, di ’sta­ta­liz­za­zione della poli­tica’ come l’ha defi­nita il mio amico Fabri­zio Barca. Sono pro­cessi che hanno inve­stito tutti i par­titi, ita­liani e non. Ma nel Pd ci sono altre risorse. Vive ancora una tra­di­zione di par­te­ci­pa­zione poli­tica, ci sono elet­tori dispo­sti a impe­gnarsi, e iscritti che ci chia­mano a discu­tere. Certo, si vanno affie­vo­lendo per­ché non ven­gono valo­riz­zati. Ma il Pd ha risorse non ancora messe a frutto. Con­ti­nuo a sognare un Pd vera­mente demo­cra­tico, vei­colo di par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini. Oggi è l’unico grande par­tito ita­liano in cui la scom­messa si può ancora ten­tare. Oggi uti­lizza solo la carta del suo lea­der: dà un senso di potenza e invece è un impo­ve­ri­mento. Per­ché pre­giu­di­care la pos­si­bi­lità di usare altre risorse? 

Anche le mino­ranze del Pd si sono spac­cate. Cos’è che non fun­ziona fra voi? 

Non è un pro­blema di diverse scelte tat­ti­che. La classe diri­gente della sini­stra ita­liana non ha meta­bo­liz­zato la scon­fitta. Quando il 19 aprile 2013 non abbiamo eletto Prodi siamo arri­vati al col­lasso. Ma non c’è stata alcuna spie­ga­zione, alcuna ana­lisi del per­ché. E come suc­cede nella vita, quando c’è un lutto, se non si ela­bora non si trova la vita­lità per cose nuove. Fin­ché la sini­stra ita­liana non rimuove il blocco della scon­fitta aprendo una rifles­sione su que­sto, rimarrà sem­pre anchi­lo­sata. E se non siamo stati in grado di farlo noi, spero che lo fac­cia la nuova gene­ra­zione. Si può guar­dare al futuro, ma non si archi­via il pas­sato senza una serena let­tura degli errori compiuti. 

La sini­stra Pd, a parte quella di Civati, la guida nei fatti è di D’Alema e Ber­sani. Conta ancora troppo la ’vec­chia guardia’? 

A que­sto punto non si pos­sono chie­dere le solu­zioni ai vec­chi lea­der. Il nostro tempo è fatto. Certo, pos­siamo dare una mano. Ma deve emer­gere una nuova gene­ra­zione di mili­tanti e diri­genti, den­tro e fuori il Pd. Le parole della sini­stra ’ugua­glianza’ e ’lavoro’ tor­nano tutte di attua­lità nella crisi. Biso­gna decli­narli su nuovi pro­grammi e nuovi modi di con­ce­pire la poli­tica. E que­sto lo pos­sono fare solo i gio­vani che vivono que­sto tempo. 

Andrà alla mani­fe­sta­zione della Cgil? 

Ho già un impe­gno a Genova, vedrò come con­ci­liare le due cose. Ma avremo tempo per ragionarci. 

Insomma ritira le dimissioni? 

Le dimis­sioni sono un atto dolo­roso e dif­fi­cile, non si può far finta di darle. Una volta date riman­gono lì. La pro­ce­dura pre­vede che il senato si esprima,e io valu­terò. Ripeto, mi piace il Renzi che si apre a un par­tito plu­rale. Spero che sia un impe­gno per il futuro. 

Se il senato respin­gerà le sue dimis­sioni lascerà il Pd e pas­serà al gruppo misto? 

Non mi sono dimesso dal Pd, ma dal senato. A tutt’oggi sono un mili­tante del Pd e fin­ché ci sono le con­di­zioni per dare un con­tri­buto a que­sto par­tito lo darò. 

Non sta pen­sando una qual­che tipo di dia­logo a sini­stra, per esem­pio con Sel? 

Non solo un dia­logo con Sel ma con tutte le realtà sociali e di movi­mento di que­sto paese. Anzi, dob­biamo dia­lo­gare ancora di più. Ma la discus­sione nel mio par­tito pro­se­gue. Nei pros­simi mesi veri­fi­cherò, non da solo, se in que­sto Pd c’è una pos­si­bi­lità di rap­pre­sen­tare un punto di vista diverso. 
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“Confermo le mie dimissioni Nel partito non c’è più la libertà di esprimere posizioni diverse”
intervista di Francesca Schianchi 
La Stampa 10.10.14
«Mi sono dimesso per un conflitto tra la coerenza delle mie idee e la responsabilità di fronte al partito», spiega conteso da taccuini e telecamere il solitamente schivo senatore Pd Walter Tocci («una delle ragioni per cui esitavo nel fare questa scelta era l’esposizione mediatica», sospira).
Senatore, Renzi le chiede di non dimettersi: ci ripensa?
«Le dimissioni sono un atto nobile, una volta date rimangono. Le ho già date, sarà l’Aula a decidere se accettarle o respingerle».
Le sue dimissioni sono legate solo al Jobs Act o a un più complessivo malessere dentro al Pd renziano?
«Le mie dimissioni sono legate alla legge delega sul lavoro, che si muove nel solco degli ultimi vent’anni, durante i quali l’asticella dei diritti è stata abbassata. Ma certo si sta aprendo una discussione sul partito: mi hanno fatto molto piacere le parole di Renzi, ha detto che in un grande partito c’è posto per posizioni diverse. Vedremo se sarà così, io ieri (mercoledì, ndr.) non ho sentito questa libertà».
Ma questo cosa significa? Ognuno può votare come vuole?
«Non dico questo, ma prendo come esempio il partito democratico americano, dove i parlamentari votano sempre secondo le proprie convinzioni, e ogni volta devono venire convinti a votare in un modo anziché in un altro».
Come sta cambiando il Pd a trazione renziana? La preoccupa il calo dei tesserati?
«Quello che mi colpisce non è tanto il numero delle tessere, che speriamo aumenterà, ma il fatto che tre milioni di persone che sono venute a votare alle primarie non sono più state consultate. Renzi ha fatto lo stesso errore dei suoi predecessori: ha messo quell’elenco di nomi in un cassetto. Perché non li abbiamo consultati ad esempio su questo tema?».
Lei ha intenzione di uscire dal Pd?
«No, io mi sono dimesso da senatore. Non ho posto il problema della tessera del Pd. E oggi ho molto apprezzato le parole di Renzi anche sul piano personale».


“Dico grazie a Matteo ma un partito di governo deve accettare il dissenso”
“Mi sono dimesso da senatore, ma mi sento un membro del Pd, soprattutto dopo le parole del segretario”
intervista di Sebastiano Messina 
Repubblica 10.10.14
ROMA Tocci, lei ha presentato le sue dimissioni da parlamentare ma Renzi ha appena detto che cercherà di convincerla a ripensarci, perché «la sua intelligenza, la sua passione e la sua competenza sono necessarie a un partito che ha il 41 per cento dei consensi». Ci ripenserà?
«Le sue parole sono state un gesto molto importante, per me. Questo è il Renzi che ci piace. Le devo confessare però che avevo già pensato in un’altra occasione di dimettermi dal Senato».
E quando è successo?
«Questa estate, durante la discussione sulla riforma del bicameralismo. Mi ferirono le parole di Renzi, che diceva: stanno difendendo la loro poltrona».
Perché non lo fece?
«Perché ho una grande ritrosia a stare sotto i riflettori e per me non è facile neanche fare questa intervista: sono tanti anni che non ne rilascio una».
E perché stavolta, invece, ha deciso di firmare la lettera di addio al Senato?
«Intanto perché le cose si accumulano. E poi perché credo che il diritto del lavoro sia oggi la questione più importante, in Italia. Questa legge delega guarda indietro, abbassa l’asticella dei diritti dei lavoratori anziché alzarla. Di fronte alla richiesta della fiducia, mi sono trovato in un conflitto tra responsabilità e coerenza. E ho preso la mia decisione: voto sì, ma mi dimetto».
A qualcuno però la sua è sembrata una mossa furba: con il voto ha evitato di rompere con il partito, con le dimissioni salverà la coscienza ma anche il seggio perché il Parlamento non ha mai accettato dimissioni di un suo membro motivate da dissenso politico… «La mia lettera di dimissioni sarà sottoposta all’aula con una votazione segreta. Mi sembra una scelta molto netta, quella di mettere a rischio il mio mandato parlamentare senza preoccupazioni. Comunque vada, io accetterò qualsiasi verdetto».
Ma se l’aula respingerà le sue dimissioni, lei resterà comunque nel gruppo del Partito democratico?
«Io non mi sono dimesso dal Pd. E comunque da qui a quel giorno faremo tutti le nostre valutazioni. Avremo tempo per pensarci. Ma io oggi mi sento membro del Partito Democratico. Soprattutto dopo quello che ha detto Renzi».
I suoi colleghi Casson, Mineo e Ricchiuti invece non hanno votato la fiducia. Ma se ogni senatore, di fronte al voto di fiducia, decidesse come gli pare, i gruppi parlamentari potrebbero anche scioglierli. O no?
«So che Renzi segue con passione la serie “House of Cards”, e dunque saprà che il presidente degli Stati Uniti va spesso a convincere i parlamentari che hanno opinioni diverse da quelle del partito. Se andiamo verso quel sistema, poi dobbiamo anche accettare un rapporto diverso tra chi governa e chi rappresenta gli elettori».
C’è un piccolo particolare: lì c’è il presidenzialismo, non un regime parlamentare nel quale il governo si regge sul voto delle Camere. Nessun voto del Campidoglio potrà mai destituire Obama. In Italia non è così.
«Ma nell’attuale quadro istituzionale è possibile anche una presa di posizione diversa. Succedeva anche nei vecchi partiti».
I quali poi però prendevano sanzioni severissime, verso chi rompeva la disciplina di partito sul voto di fiducia.
«Mi sembrerebbe assai strano che nel Pd, dove ormai ha vinto l’idea che la vecchia cultura dei partiti italiani sia da archiviare, e io sono d’accordo, poi qualcuno pensasse di salvare, del vecchio modello, proprio la disciplina. Vede, il governo ha chiesto una legge delega che su alcuni punti fondamentali è una delega in bianco, e impedisce al Parlamento di precisare i contenuti della delega. Questo è il contesto e non si può prescinderne».

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