Tocci, uomo del CRS - camera di compensazione ingraiana dei pourparler tra la sinistra PD e la sinistra radicale e incubatore di qualche aberrazione istituzionale - fa un grave danno alle classi subalterne calandosi le braghe per "senso di responsabilità". E offende la costituzione dimettendosi e contravvenendo al principio della libertà di mandato. Con ciò - e questa intervista lo conferma - dimostra che la sinistra italiana non riesce nemmeno a immaginare una fuoriuscita dal modello PD.
Scrivo poco tempo fa in "Democrazia Cercasi":
"... Credo che per una volta abbia ragione chi come Walter Tocci, direttore del Centro per la Riforma dello Stato, pur collocandosi all’interno del Pd e pur votando tutto ciò che passa il convento, a un certo punto non può fare a meno di notare: «La sinistra… ha cambiato il Titolo V per inseguire Bossi, ha introdotto lo ius sanguinis del voto all’estero per dare sponda a Fini, ha sigillato il pareggio di bilancio… per dare retta a Monti». Adesso, «Renzi rischia di ripetere vecchi errori» e – oltre a proporre una legge elettorale che «consente a una minoranza sostenuta dal 20 per cento degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi, con la strada aperta al Quirinale e a modifiche più gravi della Costituzione» – arriva a «minacciare la crisi politica per ottenere la cancellazione del Senato». Sarebbe «una sorta di voto di fiducia al governo in materia costituzionale», commenta Tocci. Il quale conclude: «È allarmante che non desti allarme»".
Quanto è appena avvenuto è una verifica sia delle preoccupazioni di Tocci sia della pusillanimità e inutilità di un'intera area politica [SGA].
«La legge Pd peggio di quella di Monti»
Intervista a Walter Tocci. "Del 900 non si può buttare tutto e tenere solo la disciplina perché fa comodo", dice il senatore dimissionario
Daniela Preziosi, il Manifesto 9.10.2014
Walter Tocci è un dirigente vecchio stile, uno studioso, non ama le dichiarazioni estemporanee, raramente e suo malgrado si sottopone a interviste. Le sue dimissioni da senatore per un dissenso radicale sulla legge delega hanno scalfito per la prima volta la gioiosa boria del segretario-rullo compressore. Tocci le ha rassegnate al capogruppo Zanda subito dopo aver disciplinatamente votato sì alla fiducia. Alla chiama di Palazzo Madama dopo di lui ha detto sì anche Mario Tronti, anziano filosofo e padre dell’operaismo, anche lui schivo e poco incline verso i giornalisti. Che però a fine settembre a Repubblica aveva detto, pur tenendosi alla larga da ogni commento sul renzismo: «Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima. Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso non una battaglia ma la guerra del 900». Parole amare. Tronti è il presidente del Centro riforma dello stato, Tocci ne è il direttore. Ma prima di dimettersi non ha parlato con il suo anziano maestro, per via di quell’idea (comune ai due) di partito: «Mi ha avrebbe chiesto di non farlo».
Renzi le ha indirizzato parole affettuose, ha detto che farà di tutto per farle ritirare le dimissioni. Questo cambia la sua scelta?
Mi ha fatto molto piacere, ovviamente. Questo è il Renzi che ci piace. Devo dire però che la prima volta che ho pensato alle dimissioni è stato quest’estate durante la discussione sul bicameralismo. Renzi disse che dissentivamo per conservare lo scranno. Il Renzi di oggi dice che in un partito del 41 per cento ci possono essere posizioni diverse. Ora vedremo come si mette in pratica. Ci sono altri senatori che non hanno partecipato alla fiducia per una critica non solo al provvedimento, ma al fatto che il governo ottiene una delega in bianco senza nessun controllo. Il voto di fiducia ha impedito al parlamento di precisare questa delega. Una misura che ha negato la discussione parlamentare.
C’è chi parla di espulsione, per questi tre senatori.
Mi domando se del vecchio partito novecentesco si possa buttare via tutto — cultura, organizzazione, iscritti — e mantenere solo la disciplina. Così diventa una gabbia d’acciaio. Siamo un partito postmoderno, all’americana, anche House of Card racconta che i parlamentari americani prendono posizioni diverse rispetto al loro presidente. E quel paese ha governato il mondo.
Nel Pd i teorici del partito liquido recuperano il centralismo democratico, e lei, partitista che infatti vota comunque sì alla fiducia, chiede un partito all’americana.
In un partito postmoderno è impossibile ripristinare le vecchie regole. Ma in questo nuovo modo ci sono anche dei vantaggi. Calano gli iscritti, ma i tre milioni che hanno votato le primarie debbono essere convocati solo per acclamare un leader? Potrebbero essere chiamati nei giorni feriali per partecipare alle scelte, sul lavoro o sulla legge elettorale. Siamo in una fase nuova, bisogna utilizzare le risorse di questo tempo senza prendere del passato solo ciò che conviene.
Civati parla di ’riposizionamento del Pd’, lei stesso in aula, a proposito del jobs act, ha detto ’non siamo stati eletti per diminuire i diritti’. Il Pd smette di essere un partito di sinistra?
È stato uno strappo con il patto elettorale. Un parlamentare, nelle scelte fondamentali, deve riferirsi agli elettori, anche se è stato votato con le liste bloccate. Nel programma del 2013 non c’era scritto che si cancellava il senato. Né che si faceva una legge sul lavoro meno garantista di quella di Monti, che ha mantenuto il divieto di licenziare quando le motivazioni si rivelano false. Se togliamo quest’ultima barriera si potrà licenziare raccontando cose fasulle: va contro la civiltà giuridica e contro il buon senso. Ed è paradossale che un governo a guida Pd faccia una scelta meno garantista dei diritti di un governo tecnico.
Con lei Renzi è stato gentile. Ma altre volte ha detto che le minoranze vanno asfaltate. Come potrete restare nel Pd?
Prendo le parole di Renzi verso di me come un impegno. Cui seguirà qualcosa di nuovo nella vita interna del Pd.
Nel suo libro Sulle orme del gambero ha descritto il Pd come partito in franchising, con i capicorrente che gestiscono un brand, più che una linea politica.
Il Pd accumula dentro sé tanti fenomeni di deterioramento della politica, di notabilato, di ’statalizzazione della politica’ come l’ha definita il mio amico Fabrizio Barca. Sono processi che hanno investito tutti i partiti, italiani e non. Ma nel Pd ci sono altre risorse. Vive ancora una tradizione di partecipazione politica, ci sono elettori disposti a impegnarsi, e iscritti che ci chiamano a discutere. Certo, si vanno affievolendo perché non vengono valorizzati. Ma il Pd ha risorse non ancora messe a frutto. Continuo a sognare un Pd veramente democratico, veicolo di partecipazione dei cittadini. Oggi è l’unico grande partito italiano in cui la scommessa si può ancora tentare. Oggi utilizza solo la carta del suo leader: dà un senso di potenza e invece è un impoverimento. Perché pregiudicare la possibilità di usare altre risorse?
Anche le minoranze del Pd si sono spaccate. Cos’è che non funziona fra voi?
Non è un problema di diverse scelte tattiche. La classe dirigente della sinistra italiana non ha metabolizzato la sconfitta. Quando il 19 aprile 2013 non abbiamo eletto Prodi siamo arrivati al collasso. Ma non c’è stata alcuna spiegazione, alcuna analisi del perché. E come succede nella vita, quando c’è un lutto, se non si elabora non si trova la vitalità per cose nuove. Finché la sinistra italiana non rimuove il blocco della sconfitta aprendo una riflessione su questo, rimarrà sempre anchilosata. E se non siamo stati in grado di farlo noi, spero che lo faccia la nuova generazione. Si può guardare al futuro, ma non si archivia il passato senza una serena lettura degli errori compiuti.
La sinistra Pd, a parte quella di Civati, la guida nei fatti è di D’Alema e Bersani. Conta ancora troppo la ’vecchia guardia’?
A questo punto non si possono chiedere le soluzioni ai vecchi leader. Il nostro tempo è fatto. Certo, possiamo dare una mano. Ma deve emergere una nuova generazione di militanti e dirigenti, dentro e fuori il Pd. Le parole della sinistra ’uguaglianza’ e ’lavoro’ tornano tutte di attualità nella crisi. Bisogna declinarli su nuovi programmi e nuovi modi di concepire la politica. E questo lo possono fare solo i giovani che vivono questo tempo.
Andrà alla manifestazione della Cgil?
Ho già un impegno a Genova, vedrò come conciliare le due cose. Ma avremo tempo per ragionarci.
Insomma ritira le dimissioni?
Le dimissioni sono un atto doloroso e difficile, non si può far finta di darle. Una volta date rimangono lì. La procedura prevede che il senato si esprima,e io valuterò. Ripeto, mi piace il Renzi che si apre a un partito plurale. Spero che sia un impegno per il futuro.
Se il senato respingerà le sue dimissioni lascerà il Pd e passerà al gruppo misto?
Non mi sono dimesso dal Pd, ma dal senato. A tutt’oggi sono un militante del Pd e finché ci sono le condizioni per dare un contributo a questo partito lo darò.
Non sta pensando una qualche tipo di dialogo a sinistra, per esempio con Sel?
Non solo un dialogo con Sel ma con tutte le realtà sociali e di movimento di questo paese. Anzi, dobbiamo dialogare ancora di più. Ma la discussione nel mio partito prosegue. Nei prossimi mesi verificherò, non da solo, se in questo Pd c’è una possibilità di rappresentare un punto di vista diverso.
Leggi l´articolo anche in:
“Confermo le mie dimissioni Nel partito non c’è più la libertà di esprimere posizioni diverse”
intervista di Francesca Schianchi La Stampa 10.10.14
«Mi
sono dimesso per un conflitto tra la coerenza delle mie idee e la
responsabilità di fronte al partito», spiega conteso da taccuini e
telecamere il solitamente schivo senatore Pd Walter Tocci («una delle
ragioni per cui esitavo nel fare questa scelta era l’esposizione
mediatica», sospira).
Senatore, Renzi le chiede di non dimettersi: ci ripensa?
«Le
dimissioni sono un atto nobile, una volta date rimangono. Le ho già
date, sarà l’Aula a decidere se accettarle o respingerle».
Le sue dimissioni sono legate solo al Jobs Act o a un più complessivo malessere dentro al Pd renziano?
«Le
mie dimissioni sono legate alla legge delega sul lavoro, che si muove
nel solco degli ultimi vent’anni, durante i quali l’asticella dei
diritti è stata abbassata. Ma certo si sta aprendo una discussione sul
partito: mi hanno fatto molto piacere le parole di Renzi, ha detto che
in un grande partito c’è posto per posizioni diverse. Vedremo se sarà
così, io ieri (mercoledì, ndr.) non ho sentito questa libertà».
Ma questo cosa significa? Ognuno può votare come vuole?
«Non
dico questo, ma prendo come esempio il partito democratico americano,
dove i parlamentari votano sempre secondo le proprie convinzioni, e ogni
volta devono venire convinti a votare in un modo anziché in un altro».
Come sta cambiando il Pd a trazione renziana? La preoccupa il calo dei tesserati?
«Quello
che mi colpisce non è tanto il numero delle tessere, che speriamo
aumenterà, ma il fatto che tre milioni di persone che sono venute a
votare alle primarie non sono più state consultate. Renzi ha fatto lo
stesso errore dei suoi predecessori: ha messo quell’elenco di nomi in un
cassetto. Perché non li abbiamo consultati ad esempio su questo tema?».
Lei ha intenzione di uscire dal Pd?
«No,
io mi sono dimesso da senatore. Non ho posto il problema della tessera
del Pd. E oggi ho molto apprezzato le parole di Renzi anche sul piano
personale».
“Dico grazie a Matteo ma un partito di governo deve accettare il dissenso”
“Mi sono dimesso da senatore, ma mi sento un membro del Pd, soprattutto dopo le parole del segretario”
intervista di Sebastiano Messina Repubblica 10.10.14
ROMA
Tocci, lei ha presentato le sue dimissioni da parlamentare ma Renzi ha
appena detto che cercherà di convincerla a ripensarci, perché «la sua
intelligenza, la sua passione e la sua competenza sono necessarie a un
partito che ha il 41 per cento dei consensi». Ci ripenserà?
«Le sue
parole sono state un gesto molto importante, per me. Questo è il Renzi
che ci piace. Le devo confessare però che avevo già pensato in un’altra
occasione di dimettermi dal Senato».
E quando è successo?
«Questa
estate, durante la discussione sulla riforma del bicameralismo. Mi
ferirono le parole di Renzi, che diceva: stanno difendendo la loro
poltrona».
Perché non lo fece?
«Perché ho una grande ritrosia a
stare sotto i riflettori e per me non è facile neanche fare questa
intervista: sono tanti anni che non ne rilascio una».
E perché stavolta, invece, ha deciso di firmare la lettera di addio al Senato?
«Intanto
perché le cose si accumulano. E poi perché credo che il diritto del
lavoro sia oggi la questione più importante, in Italia. Questa legge
delega guarda indietro, abbassa l’asticella dei diritti dei lavoratori
anziché alzarla. Di fronte alla richiesta della fiducia, mi sono trovato
in un conflitto tra responsabilità e coerenza. E ho preso la mia
decisione: voto sì, ma mi dimetto».
A qualcuno però la sua è sembrata
una mossa furba: con il voto ha evitato di rompere con il partito, con
le dimissioni salverà la coscienza ma anche il seggio perché il
Parlamento non ha mai accettato dimissioni di un suo membro motivate da
dissenso politico… «La mia lettera di dimissioni sarà sottoposta
all’aula con una votazione segreta. Mi sembra una scelta molto netta,
quella di mettere a rischio il mio mandato parlamentare senza
preoccupazioni. Comunque vada, io accetterò qualsiasi verdetto».
Ma se l’aula respingerà le sue dimissioni, lei resterà comunque nel gruppo del Partito democratico?
«Io
non mi sono dimesso dal Pd. E comunque da qui a quel giorno faremo
tutti le nostre valutazioni. Avremo tempo per pensarci. Ma io oggi mi
sento membro del Partito Democratico. Soprattutto dopo quello che ha
detto Renzi».
I suoi colleghi Casson, Mineo e Ricchiuti invece non
hanno votato la fiducia. Ma se ogni senatore, di fronte al voto di
fiducia, decidesse come gli pare, i gruppi parlamentari potrebbero anche
scioglierli. O no?
«So che Renzi segue con passione la serie “House
of Cards”, e dunque saprà che il presidente degli Stati Uniti va spesso a
convincere i parlamentari che hanno opinioni diverse da quelle del
partito. Se andiamo verso quel sistema, poi dobbiamo anche accettare un
rapporto diverso tra chi governa e chi rappresenta gli elettori».
C’è
un piccolo particolare: lì c’è il presidenzialismo, non un regime
parlamentare nel quale il governo si regge sul voto delle Camere. Nessun
voto del Campidoglio potrà mai destituire Obama. In Italia non è così.
«Ma nell’attuale quadro istituzionale è possibile anche una presa di posizione diversa. Succedeva anche nei vecchi partiti».
I quali poi però prendevano sanzioni severissime, verso chi rompeva la disciplina di partito sul voto di fiducia.
«Mi
sembrerebbe assai strano che nel Pd, dove ormai ha vinto l’idea che la
vecchia cultura dei partiti italiani sia da archiviare, e io sono
d’accordo, poi qualcuno pensasse di salvare, del vecchio modello,
proprio la disciplina. Vede, il governo ha chiesto una legge delega che
su alcuni punti fondamentali è una delega in bianco, e impedisce al
Parlamento di precisare i contenuti della delega. Questo è il contesto e
non si può prescinderne».
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