Questo sembra meglio di Piketty [SGA].
Ignazio Masulli:
Chi ha cambiato il mondo?, Laterza
Risvolto
Delocalizzazione selvaggia, aumento del potere finanziario, spostamento
dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, precarietà, riduzione dei
diritti: il bilancio è fallimentare.
Il mondo non cambia da sé e di per sé. Eppure ogni giorno,
ossessivamente, ci sentiamo ripetere che alcune scelte economiche sono
obbligate, che costi sociali pesanti e ingiusti sono necessari, che
perfino i provvedimenti politici da adottare non possono che seguire
linee già tracciate. Quasi che i cambiamenti, i rapporti e le logiche di
cui si parla siano privi di autori e costituiscano una sorta di stato
di natura. Per contrastare questa logica dobbiamo capire gli interessi
che hanno guidato i cambiamenti degli ultimi trenta anni e i motivi per
cui essi hanno prevalso. Dobbiamo capire come delocalizzazione, impiego
di informatica e robotica, spostamento dei capitali verso i mercati
finanziari abbiano portato i profitti a un punto mai raggiunto in un
recente passato spostando i livelli di forza a danno del lavoro. E che
il risultato di questa vera e propria controffensiva è stata la
riduzione dei diritti senza che ad essa siano seguiti progressi sia
economici che sociali.
L’immensa ricchezza delocalizzata
Economia delocalizzata. Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia a caccia di immensi profitti oltre confine, creano un gigantesco esercito di disoccupati in patria
Piero Bevilacqua, il Manifesto 10.10.2014
Quasi non passa giorno senza che il presidente della Bce, Mario Draghi e gli altri strateghi che presidiano il governo dell’Unione si affannino a rammentarci che in mancanza di riforme strutturali l’Italia non riprenderà il cammino della crescita. Le riforme strutturali: espressione ironica della storia. Chi ha memoria del nostro passato ricorderà che la frase «riforme di struttura» è stata coniata da Palmiro Togliatti, diventando uno degli slogan del Pci tra gli anni ’50 e ’60. Alludeva a profonde trasformazioni da realizzare negli assetti dell’economia e nei rapporti di potere tra le classi.
Ora è finita in bocca ai manager finanziari europei, e ai governanti italiani, e serve a dare una accentuazione di radicalità all’intervento invocato, quasi si trattasse di migliorare più profondamente le condizioni del paese.
In realtà, oltre a mascherare il vuoto di prospettiva,essi cercano di nobilitare la sostanza classista della più importante di queste “riforme”: una maggiore flessibilità e una più completa disponibilità della forza lavoro nelle scelte dell’impresa. Il Job Act in cantiere nel governo Renzi, evidentemente non basta. Occorre poter licenziare con più facilità, per attirare i capitali che girano per il mondo. Oggi noi sappiamo bene quanta fondatezza ha la teoria su cui si fonda tale pretesa. Come ha scritto di recente Luciano Gallino, «La credenza che una maggiore flessibilità del lavoro, attuata a mezzo di contratti sempre più brevi e sempre più insicuri, faccia aumentare o abbia mai fatto aumentare l’occupazione, equivale quanto a fondamenta empiriche alla credenza che la terra è piatta». (Vite rinviate.Lo scandalo del lavoro precario, Laterza 2014).
Ma per la verità noi non abbiamo soltanto questa certezza scientifica, oltre alla prova empirica di una economia capitalistica che continua a generare disuguaglianze, precarietà e disoccupazione. Noi possediamo un inquadramento storico quale forse mai si era raggiunto in età contemporanea per una fase così ravvicinata. Sappiamo come sono andate le cose negli ultimi 30 anni grazie a una letteratura ormai di considerevole ampiezza. E possediamo una lettura strutturale della crisi che nessuna altra ricostruzione di parte capitalistica può minimamente scalfire. Ha cominciato in anticipo Serge Halimi, con il Grande Balzo all’indietro (Fazi 2006, ma uscito in Francia nel 2004) – un testo ricco di informazioni e d’intelligenza politica che meritava un più ampio successo — seguito l’anno dopo dalla Breve storia del neoliberismo ( tradotto dal Saggiatore nel 2007) di D. Harvey, e a seguire una lunga serie di saggi in varie lingue successivi al tracollo del 2008, cui non è neppure possibile far cenno.
Quest’anno si è aggiunto a tanta letteratura storico-analitica – oltre al grande lavoro di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, già sufficientemente osannato — un saggio che merita di essere ripreso per la limpidezza della scrittura e la forza documentaria con cui conferma la lettura del trentennio neoliberista: Chi ha cambiato il mondo? di Ignazio Masulli per Laterza. Masulli mostra con dovizia di tabelle e dati statistici ufficiali le tendenze di fondo che hanno governato lo sviluppo del capitalismo negli ultimi trent’anni: la delocalizzazione industriale (indagata nei suoi effetti nei vari paesi in cui si è insediata), l’innovazione tecnologica basata sull’automazione microelettronica e la finanziarizzazione dell’economia.
Son processi noti ma a cui l’autore aggiunge informazioni spesso sorprendenti. Si pensi alle dimensioni degli investimenti all’estero dei paesi di antica industrializzazione. In Francia essi rappresentavano il 3,6% del Pil nel 1980 e sono arrivati a toccare tra il 60 e il 57% nel 2009 e nel 2012. La Germania da un 4,7% è passata al 45,6% nel 2012. Anche l’Italia ha fatto la sua parte, passando dall’ 1,6% del Pil del 1980 al 28% del 2012. Dimensioni di investimenti analoghi anche dagli gli altri paesi, con un dato impressionante per la Gran Bretagna, le cui imprese, nel 2010, hanno investito all’estero 1.689 miliardi di dollari, pari a oltre il 75% del Pil».
Dunque, i nostri capitalisti hanno trasferito e investito all’estero ricchezze immense, fondando quasi nuove società industriali fuori dalla rispettiva madre patria, utilizzando a man bassa il lavoro sottopagato e senza diritti dei paesi poveri, facendo mancare risorse fiscali gigantesche ai vari stati. E ora gli strateghi dell’Unione vorrebbero far tornare un po’ di capitali in patria riducendo la classe operaia europea alle condizioni in cui è stata sfruttata negli ultimi 30 anni in Cina o in altre plaghe del mondo. Ma il quadro delineato da Masulli conferma e approfondisce, anche per altri aspetti noti, con dati quantitativi, le linee storiche di evoluzione delle economie nel periodo considerato. Tale quadro mostra ad es. come l’innovazione tecnologica sia servita prevalentemente a sostituire forza lavoro, ingigantendo l’esercito industriale di riserva. Su questo punto forse l’autore sottovaluta l’innovazione di prodotto realizzata con la microelettronica, soprattutto negli Usa. Ma è un fatto che essa non ha creato, come avvenuto in passato con lo sviluppo delle ferrovie, l’espansione della chimica, l’industria automobilistica del ‘900, quella durevole ondata di nuovi posti di lavoro che erano attesi.
Mentre la produzione, come sappiamo, è diminuita rispetto ai decenni precedenti il 1980: e qui tutta la gloria del capitalismo neoliberista precipita nell’ignominia di una sconfitta storica. Nel frattempo i salari sono ristagnati, è aumentata la disoccupazione. Ma ovviamente sono cresciuti i profitti. Questi si! Crescita dei profitti, nota l’autore, cui però non corrisponde un aumento del processo di accumulazione, vale a dire guadagni dell’impresa reinvestiti nel processo produttivo. Una parte sempre più consistente di tali profitti se ne è andato e continua ad andarsene in dividendi e pagamento di oneri al capitale finanziario. E così il cerchio si chiude perfettamente, dando un profilo netto alla storia economica degli ultimi 30 anni: asservimento della classe operaia, disoccupazione crescente e lavoro precario, debole crescita economica, ingigantimento del potere finanziario e ampliamento delle disuguaglianze. E’ questa la musica al cui suono danziamo ormai da anni. Mentre la politica degli stati e quella dell’Unione in primo luogo propongono di ripercorre il sentiero che ha condotto al presente disordine mondiale.
Ora, l’aspetto più clamoroso della presente situazione, soprattutto in Europa, è l’ostinazione con cui i dirigenti dell’Unione e soprattutto i governanti tedeschi e nord-europei si ostinano al restar ciechi di fronte alla realtà che trent’anni di storia ci consegnano. Saremmo ingenui se pensassimo solo al dogmatismo fanatico che è nel genio nazionale dei tedeschi. E sappiamo che a ispirare la politica dell’austerità che ci soffoca, come ha ricordato Paul Krugman, è l’interesse dei creditori. Ma io credo che l’Europa di oggi e gran parte degli stati di antica industrializzazione testimonino un mutamento storico finora inosservato, che ormai emerge alla luce del sole. Non solo i vecchi partiti comunisti, socialisti, socialdemocratici sono stati strappati alle loro radici popolari e guadagnati al campo avversario.
E’ cambiata la forma di razionalità dei governanti. Heidegger diceva che ». Credo che sbagliasse bersaglio: è la tecnica che non pensa. La ragione tecnica applica dispositivi dottrinari alla realtà, attendendo che essi funzionino perché così accade nei laboratori o nelle simulazioni matematiche. Nella loro ratio se il dispositivo non ha successo è perché si sbaglia nella sua applicazione o questa non è completa. Se il Job Act non funzionerà è perché qualche residua norma impedisce all’imprenditore di licenziare i suoi operai quando più gli aggrada. Dunque, la verità che nessuno vuol dire è che oggi siamo governati da uomini che non pensano. Dove il verbo pensare ha una ricchezza semantica ormai andata perduta nel lessico corrente: significa lo sforzo creativo di rispondere alle sfide della realtà ascoltandone la complessità, cercando soluzioni condivise e di utilità generale con l’arte della politica. I tecnici continuano ad applicare dottrine sconfitte dalla realtà . Ma i politici senza dottrina, come il nostro Renzi e prima Berlusconi, non pensano più dei tecnici. Esercitano l’arte redditizia della comunicazione.
Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza
Paul Krugman ha scritto: “Non ci siamo coperti di gloria negli ultimi anni” Flagellarsi per la categoria è diventato un genere letterario
di Federico Rampini Repubblica 11.10.14
NEW
YORK «LA professione dell’economista non si è coperta di gloria in
questi ultimi sei anni, è il minimo che si possa dire». Comincia così
“l’autocoscienza dell’economista” a firma di Paul Krugman. Il premio
Nobel dell’economia include se stesso nel bilancio negativo: «Quasi
nessun economista aveva previsto la crisi del 2008, e quelli che lo
fecero avevano anche previsto troppe crisi che non erano mai accadute».
L’allusione
in parte è a se stesso (Krugman era già pessimista molti anni prima del
2008) in parte ad altre Cassandre celebri come Nouriel Roubini e Robert
Shiller. Anche i migliori, dunque, sbagliarono. O perché attribuirono
una crisi imminente a cause errate: i macrosquilibri delle bilance dei
pagamenti fra Usa, Cina e Germania, per esempio. Oppure perché avevano
profetizzato il disastro con troppo anticipo (1999 nel caso di Shiller).
La categoria dei pessimisti avverava la battuta secondo cui «gli
economisti hanno previsto dieci delle ultime quattro recessioni». Molto
peggio gli altri, comunque. E cioè la maggioranza: i cantori del libero
mercato come meccanismo perfetto, capace di correggere i propri
squilibri, di generare prosperità sempre ed ovunque. Quelli, tra
l’altro, avevano il più delle volte le leve del potere in mano: vedi
Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve “addormentato al
volante” mentre Wall Street gonfiava la bolla speculativa dei mutui
sub-prime. Ideologia e conflitto d’interesse si sorreggevano a vicenda:
la “mano invisibile” consentiva a Wall Street di respingere limiti e
restrizioni. Ma la storia continua, ora l’epicentro del disastro
intellettuale è l’eurozona...
In America l’autoflagellazione degli
economisti è diventato un nuovo genere letterario. Quella frase
autocritica di Krugman, è l’incipit di una sua recensione uscita sul
supplemento libri del New York Times. Il libro è Seven Bad Ideas (sette
cattive idee) di Jeff Madrick. L’ultimo di una lunga serie. Tra i
migliori in questo filone ci sono Zombie Economics dell’australiano John
Quiggin (sottotitolo: “Le idee fantasma da cui liberarsi” edito
dall’Università Bocconi); il monumentale saggio di Philip Mirowski Never
Let a Serious Crisis Go toWaste( non lasciare che vada sprecata una
grave crisi); un altro australiano, Steve Keen, con Debunking Economics .
L’elenco è molto più lungo, a conferma di due aspet- ti importanti.
Primo: almeno una parte della categoria degli economisti sente di avere
tradito la propria missione, la propria funzione sociale, il proprio
dovere verso il pubblico. Secondo: c’è un’altra parte più numerosa,
però, che non sente alcun bisogno di associarsi all’autocoscienza e di
fare autocritica. Purtroppo nella seconda categoria ci sono molti
esperti vicini al potere, tecnocrati che hanno un’influenza enorme sulle
decisioni dei governi. Questo è un dato che Krugman sottolinea nella
sua recensione al libro di Madrick, e che accomuna tutte le altre opere
che ho appena citato: la formidabile capacità di sopravvivenza delle
idee sbagliate. Nelle sette idee che Madrick prende di mira, almeno tre
sono strettamente legate fra loro: il dogma della “mano invisibile” (il
mercato capace di auto-regolarsi); l’avversione all’intervento statale
nell’economia; e la certezza che la globalizzazione sia sempre benefica.
C’è
però un aspetto che Krugman non tratta nella sua recensione, e riguarda
il clima intellettuale in Europa. I tre dogmi mercatisti di cui sopra
hanno avuto meno influenza nel Vecchio Continente. Gli Stati Uniti
vivono sotto l’egemonia neoliberista dai tempi di Ronald Reagan in poi;
ma in Europa la versione pura e dura del mercatismo ha sfondato solo in
Gran Bretagna. La Germania, sia che fosse governata dai
socialdemocratici o dai democristiani, ha sempre preferito una versione
ben temperata del liberismo, la cosiddetta economia sociale di mercato o
“modello renano”. Lo Stato, anche nella vocazione di Welfare, ha sempre
avuto in Europa continentale un ruolo maggiore che in America, almeno
da Reagan in poi. E tuttavia il pensiero economico americano ha dovuto
accettare di recente qualche salutare shock pragmatico. Krugman ricorda
per esempio che la Chicago Business School (cresciuta all’ombra
dell’autorità di Milton Friedman, il padre dei neoliberisti, Nobel anche
lui) in un sondaggio fra economisti ha trovato che il 92% riconoscono
l’efficacia dell’Amministrazione Obama nel contrastare la recessione con
investimenti pubblici. La prova dei fatti, almeno in questo caso, ha
potuto scalfire i dogmi. Non tutti, per carità. Le pagine dei commenti
del Wall Street Journal rimangono in appalto alla fazione più radicale
dei neoliberisti; i quali da cinque anni gridano “al lupo al lupo”,
denunciando i disastri imminenti provocati dal deficit pubblico Usa (che
invece si sta riducendo) e il ritorno dell’iperinflazione dietro
l’angolo (di cui non c’è traccia). Milioni di risparmiatori americani
hanno pagato di tasca propria per gli errori di questi esperti: il caso
del fondo Pimco è esemplare, il più grosso gestore di bond ha creduto al
mito dell’inflazione fabbricata dalla politica monetaria della Federal
Reserve, e ha fatto scommesse disastrose sull’andamento dei mercati.
Da
nessun’altra parte però il disastro della scienza economica sta
producendo danni sociali così gravi come in Europa. Un altro grande
economista americano, Benjamin Friedman (autore de Il valore etico della
crescita , Università Bocconi), sulla New York Review of Books si
occupa della “patologia del debito europeo”. Evidenzia la lettura
“religiosa” del debito come vizio o peccato da espiare, che ispira
Angela Merkel. Ricorda ai tedeschi afflitti da amnesia che loro furono i
beneficiari del più colossale perdono di debiti della storia, dopo la
seconda guerra mondiale. Traccia dei parallelismi inquietanti fra
l’attuale depressione europea e quella degli anni Trenta, ivi comprese
le conseguenze politiche come l’ascesa della xenofobia. La Merkel ormai
appare dogmatica perfino agli esperti del Fondo monetario
internazionale, che da tempo la esortano a rilanciare la domanda interna
nel suo paese usando la leva degli investimenti in infrastrutture. Ma
l’autocoscienza dell’economista, che in America è iniziata almeno nelle
frange più illuminate, non ha ancora scalfito le certezze granitiche che
governano l’Europa: dove gli accademici “krugmaniani” (i Piketty e i
Fitoussi) sono amati dall’opinione pubblica ma contano poco, e di certo
non influenzano i tecnocrati di Berlino, Francoforte e Bruxelles.
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