sabato 11 ottobre 2014

La lotta di classe dei ricchi e la ristrutturazione tardocapitalista 1970-2012: il ilbro di Ignazio Masulli

Chi ha cambiato il mondo?
Questo sembra meglio di Piketty [SGA].

Igna­zio Masulli: Chi ha cam­biato il mondo?, Laterza 

Risvolto
  Delocalizzazione selvaggia, aumento del potere finanziario, spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, precarietà, riduzione dei diritti: il bilancio è fallimentare.
Il mondo non cambia da sé e di per sé. Eppure ogni giorno, ossessivamente, ci sentiamo ripetere che alcune scelte economiche sono obbligate, che costi sociali pesanti e ingiusti sono necessari, che perfino i provvedimenti politici da adottare non possono che seguire linee già tracciate. Quasi che i cambiamenti, i rapporti e le logiche di cui si parla siano privi di autori e costituiscano una sorta di stato di natura. Per contrastare questa logica dobbiamo capire gli interessi che hanno guidato i cambiamenti degli ultimi trenta anni e i motivi per cui essi hanno prevalso. Dobbiamo capire come delocalizzazione, impiego di informatica e robotica, spostamento dei capitali verso i mercati finanziari abbiano portato i profitti a un punto mai raggiunto in un recente passato spostando i livelli di forza a danno del lavoro. E che il risultato di questa vera e propria controffensiva è stata la riduzione dei diritti senza che ad essa siano seguiti progressi sia economici che sociali.


L’immensa ricchezza delocalizzata 
Economia delocalizzata. Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia a caccia di immensi profitti oltre confine, creano un gigantesco esercito di disoccupati in patria

Piero Bevilacqua, il Manifesto 10.10.2014 

Quasi non passa giorno senza che il pre­si­dente della Bce, Mario Dra­ghi e gli altri stra­te­ghi che pre­si­diano il governo dell’Unione si affan­nino a ram­men­tarci che in man­canza di riforme strut­tu­rali l’Italia non ripren­derà il cam­mino della cre­scita. Le riforme strut­tu­rali: espres­sione iro­nica della sto­ria. Chi ha memo­ria del nostro pas­sato ricor­derà che la frase «riforme di strut­tura» è stata coniata da Pal­miro Togliatti, diven­tando uno degli slo­gan del Pci tra gli anni ’50 e ’60. Allu­deva a pro­fonde tra­sfor­ma­zioni da rea­liz­zare negli assetti dell’economia e nei rap­porti di potere tra le classi. 
Ora è finita in bocca ai mana­ger finan­ziari euro­pei, e ai gover­nanti ita­liani, e serve a dare una accen­tua­zione di radi­ca­lità all’intervento invo­cato, quasi si trat­tasse di miglio­rare più pro­fon­da­mente le con­di­zioni del paese.
In realtà, oltre a masche­rare il vuoto di prospettiva,essi cer­cano di nobi­li­tare la sostanza clas­si­sta della più impor­tante di que­ste “riforme”: una mag­giore fles­si­bi­lità e una più com­pleta dispo­ni­bi­lità della forza lavoro nelle scelte dell’impresa. Il Job Act in can­tiere nel governo Renzi, evi­den­te­mente non basta. Occorre poter licen­ziare con più faci­lità, per atti­rare i capi­tali che girano per il mondo. Oggi noi sap­piamo bene quanta fon­da­tezza ha la teo­ria su cui si fonda tale pre­tesa. Come ha scritto di recente Luciano Gal­lino, «La cre­denza che una mag­giore fles­si­bi­lità del lavoro, attuata a mezzo di con­tratti sem­pre più brevi e sem­pre più insi­curi, fac­cia aumen­tare o abbia mai fatto aumen­tare l’occupazione, equi­vale quanto a fon­da­menta empi­ri­che alla cre­denza che la terra è piatta». (Vite rinviate.Lo scan­dalo del lavoro pre­ca­rio, Laterza 2014). 
Ma per la verità noi non abbiamo sol­tanto que­sta cer­tezza scien­ti­fica, oltre alla prova empi­rica di una eco­no­mia capi­ta­li­stica che con­ti­nua a gene­rare disu­gua­glianze, pre­ca­rietà e disoc­cu­pa­zione. Noi pos­se­diamo un inqua­dra­mento sto­rico quale forse mai si era rag­giunto in età con­tem­po­ra­nea per una fase così rav­vi­ci­nata. Sap­piamo come sono andate le cose negli ultimi 30 anni gra­zie a una let­te­ra­tura ormai di con­si­de­re­vole ampiezza. E pos­se­diamo una let­tura strut­tu­rale della crisi che nes­suna altra rico­stru­zione di parte capi­ta­li­stica può mini­ma­mente scal­fire. Ha comin­ciato in anti­cipo Serge Halimi, con il Grande Balzo all’indietro (Fazi 2006, ma uscito in Fran­cia nel 2004) – un testo ricco di infor­ma­zioni e d’intelligenza poli­tica che meri­tava un più ampio suc­cesso — seguito l’anno dopo dalla Breve sto­ria del neo­li­be­ri­smo ( tra­dotto dal Sag­gia­tore nel 2007) di D. Har­vey, e a seguire una lunga serie di saggi in varie lin­gue suc­ces­sivi al tra­collo del 2008, cui non è nep­pure pos­si­bile far cenno. 
Quest’anno si è aggiunto a tanta let­te­ra­tura storico-analitica – oltre al grande lavoro di T. Piketty, Il capi­tale nel XXI secolo, Bom­piani, già suf­fi­cien­te­mente osan­nato — un sag­gio che merita di essere ripreso per la lim­pi­dezza della scrit­tura e la forza docu­men­ta­ria con cui con­ferma la let­tura del tren­ten­nio neo­li­be­ri­sta: Chi ha cam­biato il mondo? di Igna­zio Masulli per Laterza. Masulli mostra con dovi­zia di tabelle e dati sta­ti­stici uffi­ciali le ten­denze di fondo che hanno gover­nato lo svi­luppo del capi­ta­li­smo negli ultimi trent’anni: la delo­ca­liz­za­zione indu­striale (inda­gata nei suoi effetti nei vari paesi in cui si è inse­diata), l’innovazione tec­no­lo­gica basata sull’automazione microe­let­tro­nica e la finan­zia­riz­za­zione dell’economia. 
Son pro­cessi noti ma a cui l’autore aggiunge infor­ma­zioni spesso sor­pren­denti. Si pensi alle dimen­sioni degli inve­sti­menti all’estero dei paesi di antica indu­stria­liz­za­zione. In Fran­cia essi rap­pre­sen­ta­vano il 3,6% del Pil nel 1980 e sono arri­vati a toc­care tra il 60 e il 57% nel 2009 e nel 2012. La Ger­ma­nia da un 4,7% è pas­sata al 45,6% nel 2012. Anche l’Italia ha fatto la sua parte, pas­sando dall’ 1,6% del Pil del 1980 al 28% del 2012. Dimen­sioni di inve­sti­menti ana­lo­ghi anche dagli gli altri paesi, con un dato impres­sio­nante per la Gran Bre­ta­gna, le cui imprese, nel 2010, hanno inve­stito all’estero 1.689 miliardi di dol­lari, pari a oltre il 75% del Pil». 
Dun­que, i nostri capi­ta­li­sti hanno tra­sfe­rito e inve­stito all’estero ric­chezze immense, fon­dando quasi nuove società indu­striali fuori dalla rispet­tiva madre patria, uti­liz­zando a man bassa il lavoro sot­to­pa­gato e senza diritti dei paesi poveri, facendo man­care risorse fiscali gigan­te­sche ai vari stati. E ora gli stra­te­ghi dell’Unione vor­reb­bero far tor­nare un po’ di capi­tali in patria ridu­cendo la classe ope­raia euro­pea alle con­di­zioni in cui è stata sfrut­tata negli ultimi 30 anni in Cina o in altre pla­ghe del mondo. Ma il qua­dro deli­neato da Masulli con­ferma e appro­fon­di­sce, anche per altri aspetti noti, con dati quan­ti­ta­tivi, le linee sto­ri­che di evo­lu­zione delle eco­no­mie nel periodo con­si­de­rato. Tale qua­dro mostra ad es. come l’innovazione tec­no­lo­gica sia ser­vita pre­va­len­te­mente a sosti­tuire forza lavoro, ingi­gan­tendo l’esercito indu­striale di riserva. Su que­sto punto forse l’autore sot­to­va­luta l’innovazione di pro­dotto rea­liz­zata con la microe­let­tro­nica, soprat­tutto negli Usa. Ma è un fatto che essa non ha creato, come avve­nuto in pas­sato con lo svi­luppo delle fer­ro­vie, l’espansione della chi­mica, l’industria auto­mo­bi­li­stica del ‘900, quella dure­vole ondata di nuovi posti di lavoro che erano attesi. 
Men­tre la pro­du­zione, come sap­piamo, è dimi­nuita rispetto ai decenni pre­ce­denti il 1980: e qui tutta la glo­ria del capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta pre­ci­pita nell’ignominia di una scon­fitta sto­rica. Nel frat­tempo i salari sono rista­gnati, è aumen­tata la disoc­cu­pa­zione. Ma ovvia­mente sono cre­sciuti i pro­fitti. Que­sti si! Cre­scita dei pro­fitti, nota l’autore, cui però non cor­ri­sponde un aumento del pro­cesso di accu­mu­la­zione, vale a dire gua­da­gni dell’impresa rein­ve­stiti nel pro­cesso pro­dut­tivo. Una parte sem­pre più con­si­stente di tali pro­fitti se ne è andato e con­ti­nua ad andar­sene in divi­dendi e paga­mento di oneri al capi­tale finan­zia­rio. E così il cer­chio si chiude per­fet­ta­mente, dando un pro­filo netto alla sto­ria eco­no­mica degli ultimi 30 anni: asser­vi­mento della classe ope­raia, disoc­cu­pa­zione cre­scente e lavoro pre­ca­rio, debole cre­scita eco­no­mica, ingi­gan­ti­mento del potere finan­zia­rio e amplia­mento delle disu­gua­glianze. E’ que­sta la musica al cui suono dan­ziamo ormai da anni. Men­tre la poli­tica degli stati e quella dell’Unione in primo luogo pro­pon­gono di riper­corre il sen­tiero che ha con­dotto al pre­sente disor­dine mondiale. 
Ora, l’aspetto più cla­mo­roso della pre­sente situa­zione, soprat­tutto in Europa, è l’ostinazione con cui i diri­genti dell’Unione e soprat­tutto i gover­nanti tede­schi e nord-europei si osti­nano al restar cie­chi di fronte alla realtà che trent’anni di sto­ria ci con­se­gnano. Saremmo inge­nui se pen­sas­simo solo al dog­ma­ti­smo fana­tico che è nel genio nazio­nale dei tede­schi. E sap­piamo che a ispi­rare la poli­tica dell’austerità che ci sof­foca, come ha ricor­dato Paul Krug­man, è l’interesse dei cre­di­tori. Ma io credo che l’Europa di oggi e gran parte degli stati di antica indu­stria­liz­za­zione testi­mo­nino un muta­mento sto­rico finora inos­ser­vato, che ormai emerge alla luce del sole. Non solo i vec­chi par­titi comu­ni­sti, socia­li­sti, social­de­mo­cra­tici sono stati strap­pati alle loro radici popo­lari e gua­da­gnati al campo avversario. 
E’ cam­biata la forma di razio­na­lità dei gover­nanti. Hei­deg­ger diceva che ». Credo che sba­gliasse ber­sa­glio: è la tec­nica che non pensa. La ragione tec­nica applica dispo­si­tivi dot­tri­nari alla realtà, atten­dendo che essi fun­zio­nino per­ché così accade nei labo­ra­tori o nelle simu­la­zioni mate­ma­ti­che. Nella loro ratio se il dispo­si­tivo non ha suc­cesso è per­ché si sba­glia nella sua appli­ca­zione o que­sta non è com­pleta. Se il Job Act non fun­zio­nerà è per­ché qual­che resi­dua norma impe­di­sce all’imprenditore di licen­ziare i suoi ope­rai quando più gli aggrada. Dun­que, la verità che nes­suno vuol dire è che oggi siamo gover­nati da uomini che non pen­sano. Dove il verbo pen­sare ha una ric­chezza seman­tica ormai andata per­duta nel les­sico cor­rente: signi­fica lo sforzo crea­tivo di rispon­dere alle sfide della realtà ascol­tan­done la com­ples­sità, cer­cando solu­zioni con­di­vise e di uti­lità gene­rale con l’arte della poli­tica. I tec­nici con­ti­nuano ad appli­care dot­trine scon­fitte dalla realtà . Ma i poli­tici senza dot­trina, come il nostro Renzi e prima Ber­lu­sconi, non pen­sano più dei tec­nici. Eser­ci­tano l’arte red­di­ti­zia della comunicazione.


Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Paul Krugman ha scritto: “Non ci siamo coperti di gloria negli ultimi anni” Flagellarsi per la categoria è diventato un genere letterario
di Federico Rampini Repubblica 11.10.14

NEW YORK «LA professione dell’economista non si è coperta di gloria in questi ultimi sei anni, è il minimo che si possa dire». Comincia così “l’autocoscienza dell’economista” a firma di Paul Krugman. Il premio Nobel dell’economia include se stesso nel bilancio negativo: «Quasi nessun economista aveva previsto la crisi del 2008, e quelli che lo fecero avevano anche previsto troppe crisi che non erano mai accadute».
L’allusione in parte è a se stesso (Krugman era già pessimista molti anni prima del 2008) in parte ad altre Cassandre celebri come Nouriel Roubini e Robert Shiller. Anche i migliori, dunque, sbagliarono. O perché attribuirono una crisi imminente a cause errate: i macrosquilibri delle bilance dei pagamenti fra Usa, Cina e Germania, per esempio. Oppure perché avevano profetizzato il disastro con troppo anticipo (1999 nel caso di Shiller). La categoria dei pessimisti avverava la battuta secondo cui «gli economisti hanno previsto dieci delle ultime quattro recessioni». Molto peggio gli altri, comunque. E cioè la maggioranza: i cantori del libero mercato come meccanismo perfetto, capace di correggere i propri squilibri, di generare prosperità sempre ed ovunque. Quelli, tra l’altro, avevano il più delle volte le leve del potere in mano: vedi Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve “addormentato al volante” mentre Wall Street gonfiava la bolla speculativa dei mutui sub-prime. Ideologia e conflitto d’interesse si sorreggevano a vicenda: la “mano invisibile” consentiva a Wall Street di respingere limiti e restrizioni. Ma la storia continua, ora l’epicentro del disastro intellettuale è l’eurozona...
In America l’autoflagellazione degli economisti è diventato un nuovo genere letterario. Quella frase autocritica di Krugman, è l’incipit di una sua recensione uscita sul supplemento libri del New York Times. Il libro è Seven Bad Ideas (sette cattive idee) di Jeff Madrick. L’ultimo di una lunga serie. Tra i migliori in questo filone ci sono Zombie Economics dell’australiano John Quiggin (sottotitolo: “Le idee fantasma da cui liberarsi” edito dall’Università Bocconi); il monumentale saggio di Philip Mirowski Never Let a Serious Crisis Go toWaste( non lasciare che vada sprecata una grave crisi); un altro australiano, Steve Keen, con Debunking Economics . L’elenco è molto più lungo, a conferma di due aspet- ti importanti. Primo: almeno una parte della categoria degli economisti sente di avere tradito la propria missione, la propria funzione sociale, il proprio dovere verso il pubblico. Secondo: c’è un’altra parte più numerosa, però, che non sente alcun bisogno di associarsi all’autocoscienza e di fare autocritica. Purtroppo nella seconda categoria ci sono molti esperti vicini al potere, tecnocrati che hanno un’influenza enorme sulle decisioni dei governi. Questo è un dato che Krugman sottolinea nella sua recensione al libro di Madrick, e che accomuna tutte le altre opere che ho appena citato: la formidabile capacità di sopravvivenza delle idee sbagliate. Nelle sette idee che Madrick prende di mira, almeno tre sono strettamente legate fra loro: il dogma della “mano invisibile” (il mercato capace di auto-regolarsi); l’avversione all’intervento statale nell’economia; e la certezza che la globalizzazione sia sempre benefica.
C’è però un aspetto che Krugman non tratta nella sua recensione, e riguarda il clima intellettuale in Europa. I tre dogmi mercatisti di cui sopra hanno avuto meno influenza nel Vecchio Continente. Gli Stati Uniti vivono sotto l’egemonia neoliberista dai tempi di Ronald Reagan in poi; ma in Europa la versione pura e dura del mercatismo ha sfondato solo in Gran Bretagna. La Germania, sia che fosse governata dai socialdemocratici o dai democristiani, ha sempre preferito una versione ben temperata del liberismo, la cosiddetta economia sociale di mercato o “modello renano”. Lo Stato, anche nella vocazione di Welfare, ha sempre avuto in Europa continentale un ruolo maggiore che in America, almeno da Reagan in poi. E tuttavia il pensiero economico americano ha dovuto accettare di recente qualche salutare shock pragmatico. Krugman ricorda per esempio che la Chicago Business School (cresciuta all’ombra dell’autorità di Milton Friedman, il padre dei neoliberisti, Nobel anche lui) in un sondaggio fra economisti ha trovato che il 92% riconoscono l’efficacia dell’Amministrazione Obama nel contrastare la recessione con investimenti pubblici. La prova dei fatti, almeno in questo caso, ha potuto scalfire i dogmi. Non tutti, per carità. Le pagine dei commenti del Wall Street Journal rimangono in appalto alla fazione più radicale dei neoliberisti; i quali da cinque anni gridano “al lupo al lupo”, denunciando i disastri imminenti provocati dal deficit pubblico Usa (che invece si sta riducendo) e il ritorno dell’iperinflazione dietro l’angolo (di cui non c’è traccia). Milioni di risparmiatori americani hanno pagato di tasca propria per gli errori di questi esperti: il caso del fondo Pimco è esemplare, il più grosso gestore di bond ha creduto al mito dell’inflazione fabbricata dalla politica monetaria della Federal Reserve, e ha fatto scommesse disastrose sull’andamento dei mercati.
Da nessun’altra parte però il disastro della scienza economica sta producendo danni sociali così gravi come in Europa. Un altro grande economista americano, Benjamin Friedman (autore de Il valore etico della crescita , Università Bocconi), sulla New York Review of Books si occupa della “patologia del debito europeo”. Evidenzia la lettura “religiosa” del debito come vizio o peccato da espiare, che ispira Angela Merkel. Ricorda ai tedeschi afflitti da amnesia che loro furono i beneficiari del più colossale perdono di debiti della storia, dopo la seconda guerra mondiale. Traccia dei parallelismi inquietanti fra l’attuale depressione europea e quella degli anni Trenta, ivi comprese le conseguenze politiche come l’ascesa della xenofobia. La Merkel ormai appare dogmatica perfino agli esperti del Fondo monetario internazionale, che da tempo la esortano a rilanciare la domanda interna nel suo paese usando la leva degli investimenti in infrastrutture. Ma l’autocoscienza dell’economista, che in America è iniziata almeno nelle frange più illuminate, non ha ancora scalfito le certezze granitiche che governano l’Europa: dove gli accademici “krugmaniani” (i Piketty e i Fitoussi) sono amati dall’opinione pubblica ma contano poco, e di certo non influenzano i tecnocrati di Berlino, Francoforte e Bruxelles.

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