giovedì 9 ottobre 2014
La parola definitiva sull'opera e sulla vita del prof. sen. mariotronti, che vota il Jobs Act di Renzi e si fa scavalcare a sinistra da tremonti
PRESIDENTE.
Indìco la votazione dell'emendamento 1.800, presentato dal Governo,
interamente sostitutivo degli articoli del disegno di legge n. 1428
...
BERGER,segretario, fa l'appello.
Rispondono sìi senatori:
Aiello, Albano, Albertini, Amati, Angioni, Astorre, Augello, Azzollini...
Chiti... Finocchiaro... Gotor... Latorre... Lumia... Manconi... Mucchetti... Tocci... Tronti... Zavoli...
Rispondono noi senatori:
...
Calderoli... Gasparri... Tremonti...
Caos Pd, la minoranza spaccata alla fine restano solo in 4 contro
E il premier s’inalbera per il documento critico dei bersaniani
di Carlo Bertini La Stampa 9.10.14
Per
ore sul filo rosso tra Palazzo Chigi e i renziani in Senato va in onda
una sola preoccupazione: quella di superare la fatidica asticella della
maggioranza assoluta, quei 161 voti che rappresentano la soglia
politicamente sensibile per un governo che deve dimostrare di avere i
numeri per andare avanti. Politicamente ma non formalmente, perché basta
un voto in più dei presenti per superare la prova. E dunque il pressing
sui dissidenti è forte, anzi fortissimo.
Lo psicodramma del
drappello di «civatiani», ridotto a quattro unità, si consuma in una
saletta dietro l’aula del Senato. «Il Pd fa la cosa più di destra della
sua storia», aizza da lontano gli animi dei suoi Pippo Civati. Alla fine
di un lungo tormento, sotto minaccia di espulsione dal Pd fattagli
pervenire dagli emissari del premier, lo strappo è inevitabile. Walter
Tocci va da Luigi Zanda per dirgli che voterà la fiducia e subito dopo
si dimetterà da senatore. Una decisione sofferta che parte da lontano,
dal totale disaccordo sulla riforma del Senato. Gli altri tre, Corradino
Mineo, Lucrezia Ricchiuti e Felice Casson, sono in ambascia fino
all’ultimo, indecisi se seguire Tocci, più propensi però per uscire
dall’aula senza votare no: consci di finire lo stesso sotto processo.
Perché a chi in mattinata via sms aveva chiesto al premier se a suo
avviso anche le uscite dall’aula dovessero comportare massime sanzioni
disciplinari, Renzi aveva risposto di sì.
Casson è già autosospeso
dal gruppo dopo il voto della giunta sull’uso delle intercettazioni a
carico del senatore Ncd Azzolini: lui da relatore aveva dato parere
favorevole, il Pd invece ha votato contro. «La casta tutela uno della
Casta e io sono incompatibile con questi signori, vorrei sapere chi ha
dato l’ordine di votare così», attaccava ieri i vertici del partito.
Con
Civati sulle barricate, Bersani da una parte, Cuperlo dall’altra con la
sua microcorrente Sinistradem, il caos regna nella minoranza Pd. Ma
quando rimbalzano le immagini di una trentina di parlamentari di Bersani
circondati dalle telecamere al Senato che scodellano due paginette di
critiche sul jobs act Renzi si inalbera. «Il giorno in cui ho il
confronto con la Merkel questi danno l’immagine di un Pd diviso...»,
commenta con i suoi da Milano. Ma la faccia soddisfatta del bersaniano
Miguel Gotor è emblematica: sorrisone, «in un contesto in cui il
premier-segretario esercita una doppia pressione su ognuno di noi è
difficile tenere su una posizione così 27 persone», dice mentre stringe
tra le mani il documento con in calce 35 firme, compresi gli otto
deputati della corrente Area Riformista: che «si è ricompattata»,
sostiene Alfredo D’Attorre. Il quale insieme a Davide Zoggia e Stefano
Fassina, arriva dalla Camera per dare un segnale di unità di una
corrente che si arrende a votare la fiducia al governo ma spera di poter
ingaggiare un braccio di ferro a Montecitorio.
Ma se Renzi ha
fatto ingoiare ai bersanian-dalemiani un testo che non riporta la
mediazione sull’articolo 18 della Direzione Pd è pure merito della
minoranza. Costretta a ricordare le conquiste su precari e poco altro
nelle due paginette sbandierate ieri. «E’ vero l’ho detto a Bersani che
quell’annuncio anzitempo sulla lealtà alla ditta è stato un errore e
questo testo sul jobs act è un’operazione di cosmesi», si indigna il
duro Fassina.
Il Sole 9.10.14
Ventisette senatori Pd «dissentono» ma votano
di Barbara Fiammeri
ROMA
La decisione era già stata presa martedì. Ieri però è arrivata
l'ufficialità: anche la minoranza del Pd ha deciso di votare la fiducia
al Governo sul Jobs act, rinviando la battaglia alla Camera. Anche chi,
come il civatiano Walter Tocci, ha preannunciato che dopo il sì alla
delega sul lavoro rassegnerà le dimissioni da senatore. Nessun colpo a
sorpresa e neppure assenze pericolose, tanto che perfino Emma Fattorini,
la senatrice democratica rimasta vittima della rissa scoppiata tra gli
scranni dell'aula di Palazzo Madama, ha votato sia pure con il polso
fasciato dopo il passaggio in infermeria. Il Pd si è presentato compatto
così come Fi, che ieri è tornata a fare un'opposizione senza sconti,
assieme alla Lega e ai grillini, smentendo così le voci del
chiacchierato soccorso azzurro in favore di Renzi.
Una voce che
probabilmente ha contribuito però anche a mantenere l'unità del Pd. La
minoranza infatti ha deciso di non portare alle estreme conseguenze il
suo dissenso. Un po' per senso di «responsabilità» verso il Paese, che
«ha bisogno di un governo autorevole» e un po' perché ritiene che almeno
una parte delle richieste di modifica sia stata accolta. Così almeno si
legge nel documento sottoscritto dai 27 senatori bersaniani (più nove
deputati della direzione Pd). «Voteremo la fiducia al governo –
anticipava la senatrice Maria Cecilia Guerra presentando il documento –
perché non abbiamo mai voluto far cadere il governo». Guerra e gli altri
componenti della minoranza dialogante sono convinti che «miglioramenti»
potranno arrivare nel passaggio del provvedimento alla Camera. Dove
però il numero dei cosiddetti dissenzienti è sì più numeroso ma anche
meno decisivo visto l'ampio margine di voti a disposizione della
maggioranza.
Nessuno quindi si illude che Renzi possa concedere a
Montecitorio quello che ha negato al Senato: il testo della delega
sull'articolo 18 non verrà toccato. Ed è questo il motivo principale che
ha portato sia nei giorni scorsi che ieri a una divisione della stessa
minoranza, con i civatiani sempre più con un piede fuori dal partito,
come confermano anche le dimissioni di Tocci e le assenze di Lucrezia
Ricchiuti e Felice Casson: quest'ultimo peraltro aveva già rotto il
giorno prima sul caso Azzollini, il senatore Ncd per il quale la procura
di Trani aveva chiesto l'uso delle intercettazioni che invece la Giunta
del Senato ha negato con il voto anche del Pd nonostante proprio Casson
in qualità di relatore avesse dato parere favorevole.
Il grosso
della minoranza però resterà dentro il Pd. «La battaglia continua»,
conferma Giovanni Cuperlo, il quale avverte che la vaghezza della delega
sulle norme sui licenziamenti non potrà essere colmato dai decreti
attuativi: «Se accadesse saremmo davanti a un evidente eccesso di
delega», sostiene il leader della sinistra dem. È la stessa posizione
della Cgil che però è sempre più lontana dalle altre due confederazioni.
In particolare dalla Cisl. Il nuovo segretario generale Annamaria
Furlan ha detto che «il Jobs act, se ben funziona, può essere uno
strumento straordinario per superare la precarietà» ricordando però che
«sono gli investimenti, l'innovazione e la ricerca a creare posti di
lavoro».
I ribelli nell’angolo Ma Tocci si dimette
di Monica Guerzoni Corriere 9.10.14
ROMA
«È l’ultima volta che finisce così, la prossima o si ottiene qualcosa
di concreto o si va fino in fondo». Dove il fondo, nei ragionamenti
ultimativi di Stefano Fassina, è la crisi di governo. Il
premier-segretario ce l’ha fatta, ma la minoranza del Pd è allo stremo,
stanca di procedere «con la pistola alla tempia» e provata, come si
lasciano scappare i più inquieti, dalle «pressioni che piovono
dall’alto». È vero che ai dissidenti in odore di voto contrario è stata
indicata la porta del Pd? E che i vertici del gruppo avrebbero
minacciato di espulsione anche quelli tentati di uscire dall’Aula al
momento del voto? Il capogruppo Luigi Zanda non nega di aver parlato
chiaro ai suoi: «Beh, sì... Ho detto loro che il voto di fiducia è un
voto di appartenenza».
Bivio drammatico per i dissidenti, che al
verdetto sul Jobs act sono arrivati in ordine sparso. La minoranza ha
cercato l’unità, ma l’ha trovata solo nella necessità di salvare il
governo Renzi per salvare l’Italia. I bersaniani si sono ricompattati
con un documento molto critico, firmato da 27 senatori e nove deputati. I
cuperliani, per marcare una posizione ancor più dura, si sono rifiutati
di sottoscriverlo. E i civatiani, dopo ore di confronto, non hanno
trovato la quadra. Sergio Lo Giudice vota sì. Felice Casson, Corradino
Mineo e Letizia Ricchiuti lasciano l’Aula. La stessa idea era stata
accarezzata dai bersaniani, che però su questa linea non hanno raggiunto
un accordo.
Il gesto più forte lo compie Walter Tocci, votando al
governo una fiducia obbligata dallo stato in cui versa l’Italia e però,
subito dopo, dimettendosi da senatore: «I progetti raccontati ai
cittadini non corrispondono ai testi che votiamo in Parlamento. Nella
legge delega non c’è scritto che cancelliamo l’articolo 18...». Perché
si dimette? «Perché è l’unica via di uscita al dilemma di conciliare due
principi opposti, la coerenza con le mie idee e la responsabilità verso
il Pd e il governo».
Riunioni a raffica, crisi di coscienza e
conferenze stampa improvvisate. Quella dei «27» avviene in piedi,
parlamentari schierati davanti alle telecamere e Cecilia Guerra che
spiega «luci e ombre» del provvedimento: «La fiducia crea un grave
cortocircuito istituzionale che alla Camera non si potrà riproporre.
Però alcune correzioni introdotte erano contenute nei nostri sette
emendamenti». Per Miguel Gotor «i passi avanti sono insufficienti,
l’ambiguità sull’articolo 18 è gigantesca». Il bersaniano assicura che
«la battaglia continuerà alla Camera» e difende il documento: «Viste le
doppie pressioni esercitate da un premier che è anche segretario, non è
facile tenere 27 persone su una posizione così». Maria Grazia Gatti
prevede scontro duro a Montecitorio: «In commissione Lavoro c’è Damiano,
lì i democratici azzannano». Ecco infatti, pochi metri più in là,
spuntare gli onorevoli Zoggia, Fassina e D’Attorre, venuti a raccogliere
il testimone. «Basta ricatti, alla Camera cambieremo il testo», chiama
alle armi D’Attorre. C’è sofferenza, rabbia, ci sono i dubbi di Erica
D’Adda («I nostri figli andranno a lavorare con la telecamerina in
testa?») e i tamburi di guerra di Fassina: «Dobbiamo raccogliere più
forze possibili...». Perché allora anche Epifani, Stumpo, Amendola e la
Campana hanno firmato e Bersani no? Nessun mistero, assicura Gotor con
una battuta calcistica: «O c’è Platini, o c’è Furino».
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