domenica 5 ottobre 2014

Le foto di Dennis Hopper in mostra a Roma


L’America perduta di Dennis HopperMostre. Alla galleria Gagosian di Roma, fino all'8 novembre, le fotografie di Dennis Hopper. L'antidivo che girò «Easy Rider» racconta l'altra faccia degli States attraverso i suoi scatti degli anni Sessanta e SettantaArianna Di Genova, il Manifesto 5.10.2014

Con l’amarissima fine del film Easy Rider, Den­nis Hop­per, regi­sta e inter­prete di quella bal­lata per la libertà, sancì la caduta ver­ti­cale dell’American Dream. D’altronde, la guerra del Viet­nam era al suo apice e la caval­cata sulle moto di alcuni spi­riti ribelli con capelli lun­ghi e gior­nate di vaga­bon­dag­gio puro da spen­dere attra­ver­sando gli Stati Uniti, non poteva che con­fluire nella tra­ge­dia die­tro l’angolo. 

Anni dopo, lo stesso attore e cinea­sta che aveva inven­tato l’immaginario della New Hol­ly­wood, cor­teg­giato la cul­tura hippy, le dro­ghe, le visioni allu­ci­nate dell’lsd, pre­di­cato e pra­ti­cato la ses­sua­lità senza catene, amato la musica rock, in preda a uno dei suoi innu­me­re­voli eccessi abban­donò la con­sueta spe­ri­co­la­tezza poli­tica per affian­carsi alla dina­stia repub­bli­cana dei Bush, tra­sfor­man­dosi in un tipo guer­ra­fon­daio e bigotto. Il suo mito si incrinò: l’ex ado­le­scente alter­na­tivo di Gio­ventù bru­ciata infranse il cuore di molti fan e, alla fine, rimase intrap­po­lato anche lui in quella ragna­tela fatale. Nel 2008, due anni prima di morire, fece atto di pen­ti­mento e si schierò con Barack Obama: era troppo tardi ormai e la sua stella radi­cal, tutta genio e sre­go­la­tezza, si era offu­scata inesorabilmente. 
A ria­bi­li­tare la figura di un Den­nis Hop­per dif­fi­cil­mente clas­si­fi­ca­bile fra i divi main­stream, ci pensa ora la mostra inau­gu­ra­tasi presso la gal­le­ria Gago­sian di Roma, espo­nendo (fino all’8 novem­bre) alcune serie di foto­gra­fie che accom­pa­gna­rono la quo­ti­dia­nità – let­te­ral­mente ora dopo ora – dell’attore e arti­sta. Una pas­sione smi­su­rata, un’ossessione quella per l’inquadratura e l’obiettivo da pun­tare sulla realtà che dovette intuire anche uno come Fran­cis Cop­pola: lo scelse, infatti, per il ruolo del foto­re­por­ter sedotto dal cari­sma del colon­nello Kurzt in Apo­ca­lypse Now, per­so­nag­gio a cui Hop­per con­se­gnò gran parte della sua effer­ve­scenza crea­tiva, ten­dente a mimare la follia. 
Scrat­ching the Sur­face è la per­so­nale dedi­cata a quel ragazzo che già a 18 anni scat­tava senza sosta («sono sem­pre stato un foto­grafo ner­voso») per­ché fino a quando non com­parve la pro­du­zione di Easy Rider all’orizzonte (aveva 31 anni), il suo amore per la guida senza mèta, la mania di col­le­zio­nare oggetti tro­vati casual­mente in viag­gio, l’adorazione per gli arti­sti e musi­ci­sti, il dna di «per­sona visuale», come gli pia­ceva defi­nirsi, erano rima­sti tutti impressi den­tro i rul­lini della Nikon o delle mac­chine estem­po­ra­nee che uti­liz­zava. Poi, uscì allo sco­perto, vagò «on the road» e, ido­la­trando Kerouac, con­di­vise con molti della sua gene­ra­zione l’illusione di un’America senza più fron­tiere, per­cor­ri­bile secondo le pro­prie geo­gra­fie sen­ti­men­tali e non le leggi det­tate dallo star system. 
Così, se quel film epo­cale può con­si­de­rarsi un western con­tem­po­ra­neo dove al posto dei canyon c’è la strada asfal­tata e al posto dei cavalli, rom­bano le moto­ci­clette Har­ley David­son Chop­per, con gli alti manu­bri e le for­celle allun­gate che pene­trano il mondo, si può dire che le foto­gra­fie di Hop­per rispon­dono a quel mede­simo desi­de­rio di eman­ci­pa­zione e anar­chico arbi­trio per un’esistenza «fai-da-te». Non sono mai snap­shot, come si potrebbe essere indotti a cre­dere, viste le atti­tu­dini del per­so­nag­gio. Le istan­ta­nee, nella poe­tica hop­pe­riana, erano pro­prio ban­dite: piut­to­sto, era inte­res­sato «agli aspetti for­mali della foto­gra­fia, alla com­po­si­zione, alle linee che creano un campo, una super­fi­cie, un muro…». 
Attento al luogo – con un debole per i graf­fiti par­lanti sparsi per Los Ange­les – oltre che alla per­sona, acuto osser­va­tore dell’atteggiamento rive­la­to­rio, Den­nis Hop­per era in grado di cogliere quel famoso attimo di cui andava ragio­nando Car­tier Bres­son. È un momento psi­co­lo­gico, un mood, una sin­to­nia umana fra osser­va­tore e osser­vato. Timido di par­tenza — almeno così si descri­veva — Hop­per usava la camera come uno schermo pro­tet­tivo, per tenersi alla larga dalle per­sone. Era un ori­gi­nale fil­tro che poneva fra lui e gli altri. Ma la mac­china foto­gra­fica era anche una «mem­brana tra­spa­rente», un dispo­si­tivo emo­zio­nale adatto a svuo­tare la mente e aller­tare i cin­que sensi per annu­sare, ascol­tare, toc­care e vedere intorno a sé. Non rita­gliava mai le foto: una volta scelta l’inquadratura giu­sta, sarebbe stata stam­pata così come era nata. Amava Duchamp e la sua idea dei rea­dy­made. E con­di­vi­deva la filo­so­fica spa­ri­zione dell’autore. «L’artista del futuro sarà colui che pun­terà il dito davanti a sé e indi­cando qual­cosa dirà: ’quella è arte’», pro­cla­mava il padre del dadai­smo e Hop­per era al suo fianco. 
Vicino agli arti­sti pop — i bel­lis­simi ritratti di Andy Warhol, Jasper John, Robert Irwin, Olden­burg a una festa di matri­mo­nio — Den­nis Hop­per era anche un col­le­zio­ni­sta com­pul­sivo. Lo faceva per ami­ci­zia e per pia­cere: non è casuale la com­parsa del suo nome nella lista dei cento col­le­zio­ni­sti più impor­tanti del mondo. L’ansia di docu­men­tare un’America diversa era finita anche sopra al suo divano di casa. Quel che cat­tura Hop­per è l’eve­ry­day di per­so­naggi dive­nuti poi leg­gen­dari, icone del cinema (Peter e Jane Fonda ) o della musica (James Brown, Gra­te­ful Dead). Ci sono anche gli Sta­tes dei diritti civili, delle marce di pro­te­sta, di Mar­tin Luther King. L’immagine di Ed Rusha, davanti alla vetrina di un nego­zio con elet­tro­do­me­stici, è il mani­fe­sto cul­tu­rale di una società in rapida muta­zione antropologica. 
Da Gago­sian sono espo­ste, come fos­sero un mosaico scom­po­sto per luo­ghi e cro­no­lo­gie, le foto­gra­fie della fine anni Ses­santa e primi Set­tanta, quelle appar­te­nenti alla serie Drug­store Camera, svi­lup­pate nei labo­ra­tori ano­nimi, «non luo­ghi» tipici dell’America di allora. E in mostra com­pa­iono anche alcune vin­tage prints dove Hop­per immor­tala i suoi amici, i viaggi, gli oggetti che andranno a com­porre le nature morte. «Non ho mai gua­da­gnato un cent con le mie foto­gra­fie. Anzi, costa­vano soldi, ma mi tene­vano in vita». 
La prima mac­china di buona qua­lità gliela regalò Brooke (avrà cin­que mogli e quat­tro figli). Comin­ciò a por­tar­sela ovun­que, tanto da essere ripe­tu­ta­mente preso in giro dai cono­scenti per­ché sem­brava un per­fetto turi­sta in casa sua.



Luca Beatrice - il Giornale Mar, 04/11/2014 

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