venerdì 17 ottobre 2014

"Non detto" e allusione nella cultura occidentale


Nicola Gardini: Lacuna. Saggio sul non detto, Einaudi, pp. 272, e 20


Risvolto
Questo libro affronta un aspetto poco indagato della cultura letteraria, il non detto, e dalla dimostrazione che un buon racconto è un racconto che sa tralasciare qualcosa arriva a identificare l'idea stessa di letteratura con quella di lacunosità.

   La nozione di «lacuna», assunta a principio di metodo, serve a ridefinire concetti cardinali come scrittura, testo, trama, lettura, stile, realtà e realismo, verità, conoscenza, piacere, interpretazione, impegno, libertà, e il complesso rapporto tra letteratura e vita. Gardini raccoglie e analizza un'affascinante varietà di fonti (Aristotele, Platone, Cicerone, Seneca, Dante, Manzoni, Stendhal, Flaubert, Proust, Henry James, Virginia Woolf, Nietzsche, Thomas Mann, Conan Doyle, Simenon, Yourcenar ecc.), collegando gli esempi in sorprendenti sintesi e scoperte. Ne esce per la prima volta il profilo di un'estetica fondativa, lunga secoli. Ma soprattutto risulta che il lacunoso è uno dei paradigmi piú vivaci della nostra immaginazione, e un bene da coltivare. Con Lacuna Gardini afferma con vigore la missione conoscitiva della letteratura e, al tempo stesso, fornisce una prova saggistica molto originale, coniugando l'impegno nella ricerca alla chiarezza.

Dare un senso al non detto in filosofia
di Mario Andrea Rigoni Corriere 17.10.14
Ogni discorso presuppone un doppio fondo della parola: altrimenti, se tutto fosse già detto, che cosa resterebbe da spiegare e commentare? L’ovvia osservazione investe l’ordine metafisico-teologico stesso. Per millenni il mondo naturale e il testo sacro sono stati concepiti come manifestazioni parallele e complementari di un Verbo divino che nella lettera della scrittura o nella superficie della natura si occultava al tempo stesso in cui si rivelava: donde la necessità di un’esegesi simbolica del creato, che nella Parola divina trovava il suo senso e il suo compimento. 
Sempre radicale, l’Islam ha condotto all’estremo questa visione, esemplarmente rappresentata dall’episodio della distruzione nel 646 d. C. della biblioteca di Alessandria per ordine del califfo Omar I, che giustificò la decisione dichiarando che si davano due sole possibilità. I libri della biblioteca o contenevano cose già presenti nel Corano ed erano dunque inutili oppure contenevano cose che del Corano non facevano parte ed erano dunque dannosi: in entrambi i casi andavano ugualmente distrutti. 
La scomparsa del Verbo creatore nel crollo della Tradizione, avvenuto in Occidente fra Illuminismo e Romanticismo, ha sottratto ogni decifrabilità e ogni termine all’universo del discorso, aprendo l’immensa voragine nella quale il non detto coincide col non senso: Kafka è un emblema. 
L’aspetto filosofico o speculativo del non detto, ancora presente nei teorici francesi del secolo scorso (Blanchot, Foucault, Derrida), non interessa l’indagine di Nicola Gardini, approdata adesso a un volume che pure si presenta con i toni e gli auspici del manifesto (Lacuna. Saggio sul non detto, Einaudi, pp. 272, e 20). Il non detto è infatti inteso come una risorsa retorica della tecnica letteraria, l’omissione consapevole e calcolata di una parte del discorso, l’interruzione o la cesura introdotta al fine di raggiungere un superiore effetto espressivo, che corrispondono in buona sostanza all’antica figura dell’ellissi. 
Tutti ricordano il silenzio opposto da Aiace nel regno dei morti alla preghiera di Ulisse di essere perdonato (Odissea, XI) o l’annuncio «Veni, vidi, vici» col quale Cesare comunicò secondo Plutarco la sua vittoria contro Farnace II nella guerra del Ponto o ancora «La sventurata rispose» con cui Manzoni nei Promessi sposi allude, senza procedere oltre, al cedimento di Geltrude di fronte al suo seduttore. Un exploit è quello di Stendhal che, osserva Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel romanzo Il rosso e il nero «è riuscito a riassumere una notte d’amore in un punto e virgola». 
In questo senso il non detto rientra nel più vasto ideale stilistico della «brevità», della concisione, del laconismo che, rifiutando la descrizione minuta e completa dell’oggetto, lascia libero spazio all’immaginazione, fonte massima del piacere psicologico. 
Il libro di Gardini accumula e commenta meritoriamente in un vasto repertorio esempi disparati di non detto raccolti dalla letteratura antica e moderna, italiana e straniera, attestando l’ampiezza sorprendente delle conoscenze e delle letture dell’autore. Nello stesso tempo richiama l’attenzione sul ruolo che la «lacuna» del non detto svolge nell’economia della letteratura narrativa, tanto da prospettare, se non certo una nuova estetica come si vagheggia nella quarta di copertina del libro, almeno un nuovo elemento di interesse metodologico e critico. 
L’assunto di Gardini potrebbe essere esteso a un genere intero che egli non prende in considerazione, ma che celebra proprio il trionfo del non detto: l’aforisma. Dove, più che nell’aforisma, vengono abolite la descrizione e la spiegazione? Dove, meglio che nell’aforisma, la brevità si allea alla sorpresa? L’aforisma è nella sua essenza, come d’altronde la poesia, un’ arte dell’implicito.

Il fascino dell’assenza 

Saggi. «Lacuna. Saggio sul non detto» di Nicola Gardini, pubblicato da Einaudi. Tutte le reticenze narrative della letteratura, da Dante a Calvino passando per James e Yourcenar
Alessandra Pigliaru, il Manifesto 2.4.2015
«La let­te­ra­tura è una man­canza peren­ne­mente rin­no­vata dalle parole; è desi­de­rio di altro ancora, per­ché quello che c’è sulla pagina non basta, non può essere tutto. Una scrit­tura sarà tanto più let­te­ra­ria quanto più intenso saprà indurre quel desi­de­rio». È la tesi di Nicola Gar­dini, docente di let­te­ra­tura ita­liana e com­pa­rata a Oxford, che nel suo ultimo libro si dedica a un ter­mine – che cor­ri­sponde anche al titolo — capace di sostan­ziare la man­canza: Lacuna. Sag­gio sul non detto (Einaudi, pp. 271, euro 20). 
Lacuna, dice Gar­dini, richiama seman­ti­ca­mente il signi­fi­cato latino di lacus e in ita­liano il ter­mine laguna. Se con­si­de­ras­simo dun­que la lacuna come una «depres­sione in cui si rac­co­glie l’acqua», inten­de­remmo ciò che descrive Vir­gi­lio quando, nelle Geor­gi­che, accenna a cavae lacu­nae, cioè un luogo – delle fosse – da cui l’acqua dei fiumi stra­ri­pati eva­pora. A pre­scin­dere dalla più gene­rale depres­sione geo­gra­fica, il ter­mine lacuna sem­bra com­pa­rire nelle prin­ci­pali lin­gue euro­pee e sta a indi­care, nel suo senso ampio, qual­cosa che manca, qual­cosa di neces­sa­rio che non si dà. Se per ogni campo del sapere, o potremmo dire meglio per ogni gioco lin­gui­stico, il ter­mine risente di una spe­ciale decli­na­zione (per la medi­cina, la lacuna è uno spa­zio di inter­ru­zione e man­canza, di dimen­sioni pic­cole o grandi che va dal sistema lacu­nare della cor­nea alla mne­mo­nica), per la filo­lo­gia — da cui Gar­dini sostan­zial­mente prende le mosse — la parola cor­ri­sponde a un’assenza nel testo, seguendo tut­ta­via una pre­cisa dire­zione let­te­ra­ria che gli con­senta di con­cen­trarsi sull’omissione inten­zio­nale di parti del racconto.
In let­te­ra­tura la lacuna può essere riscon­trata in una nar­ra­zione ed è un punto pre­ciso che segna e attiva lo stesso pro­ce­di­mento let­te­ra­rio. In que­sto senso, il non detto è l’omissione, ciò che deter­mina ridu­zioni, abo­li­zioni, can­cel­la­zioni, spa­smi, eli­mi­na­zioni, strappi del testo – e quindi della scrit­tura – attra­verso cui evin­cere che «si narra non solo dicendo».
La ricerca di Nicola Gar­dini esclude alcuni tipi di omis­sione: per esem­pio quelle impo­ste come la cen­sura, o l’incompiuto, le ampu­ta­zioni, le spa­ri­zioni o i gua­sti mec­ca­nici e tutte le altre mani­fe­sta­zioni secondo cui non si è stati liberi di deci­dere bensì sono state cir­co­stanze esterne a det­tare più o meno for­za­ta­mente l’essere man­canti. Non ven­gono ana­liz­zate le scrit­ture dia­ri­sti­che, né quelle poe­ti­che, né ancora si discetta di acce­zioni laca­niane o sacrali (nono­stante di tutte que­ste forme sarebbe utile con­ti­nuare a par­lare in rela­zione all’omissione e lo stesso autore auspica che ciò accada – così come per altre tradizioni).
Andare diret­ta­mente ai testi, strin­gendo all’osso la let­te­ra­tura secon­da­ria e quindi inchio­dando il più pos­si­bile il fuoco della fac­cenda, auto­rizza Gar­dini all’individuazione di ottimi mae­stri di lacu­no­sità; tra i tanti vi sono Proust, Flau­bert e Henry James. Insieme a mol­tis­simi esempi di lacuna – annun­ciata come nel caso dell’apertura del canto XXI dell’Inferno dan­te­sco, o sem­pli­ce­mente agita come nella man­cata descri­zione dell’amore tra Vron­skij e Anna Kare­nina nel decimo capi­tolo del romanzo di Tol­stoj o nell’elisione della morte della signora Ram­say di Gita al faro di Woolf. E poi Man­zoni, Tho­mas Mann, Sten­d­hal, Nie­tzsche, Cal­vino, Your­ce­nar, altre e altri.
Reti­cenze e occul­ta­menti sono infatti insuf­fi­cienti a misu­rarsi con l’intelligenza dei testi, per que­sta ragione l’autore affonda la sua sapienza ana­li­tica su alcuni ele­menti che ci inter­pel­lano: intanto esi­stono diverse spe­cie di omis­sioni che neces­si­tano di altret­tante spe­cu­la­zioni, rifles­sioni per­ché la lacuna «sta al testo come l’ombra al corpo». E pro­prio di una dop­pia mate­ria­lità ci parla l’autore, ovvero dell’intenzionalità di chi scrive e dell’intenzione che resti­tui­sce il testo. A ben guar­dare ve ne è anche una terza che emerge dall’incontro con colui o colei che legge.
In que­sto gioco di vuoti e di pieni, la lacuna diventa un’arte, «ovvero un pro­ce­di­mento con­scio o cal­co­lato: un non dire al fine di dire». Se esso con­tri­bui­sce alla rap­pre­sen­ta­zione essendo essen­ziale alla forma come al signi­fi­cato, il volume sce­glie di distil­lare un’estetica dell’omissione sor­ve­gliando quando, come e per­ché abbia defi­nito uno svi­luppo della let­te­ra­tura per pro­vare a ride­fi­nire la fisio­no­mia con­tro­versa e mul­ti­forme del con­cetto di rea­li­smo.
Per spie­gare cosa sia il rea­li­smo, l’autore si col­loca ini­zial­mente accanto a Lukàcs e ad Auer­bach mostrando mag­giori debiti con quest’ultimo sep­pure verso il primo la cor­ri­spon­denza sia ascri­vi­bile alla «capa­cità edu­ca­tiva» della let­te­ra­tura, rin­trac­ciata come tra­guardo della coscienza euro­pea. La realtà di cui si parla non è pro­por­zio­nata alla sua veri­fi­ca­bi­lità, quanto piut­to­sto alla sua capa­cità di essere com­ple­tata da chi legge. L’attitudine al doman­dare, all’immaginare da parte di chi legge sor­gono dinanzi a nar­ra­zioni che lasciano aperta una brec­cia, uno spa­zio — anche pic­colo, come inter­sti­zio di accoglienza.
Il senso, ricon­trat­tato erme­neu­ti­ca­mente, si va costruendo nello stesso pro­ce­di­mento cono­sci­tivo che è la let­te­ra­tura. Ecco per­ché la lacu­no­sità tran­sita nell’impianto teo­rico di Gar­dini da idea a metodo. Che un sag­gio sul non detto custo­di­sca una sedu­zione straor­di­na­ria è innegabile.


Un fascino che non è solo scan­dito dall’aver saputo coniu­gare la man­canza alla disci­plina delle fonti, bensì da ciò che viene a ricon­fi­gu­rarsi seguendo que­sto verso esatto, ovvero che «rico­no­scere il valore dell’omissione signi­fica rimet­tere la par­zia­lità della scrit­tura nella tota­lità del mondo. Signi­fica cer­care il senso».
E alla fine della let­tura, que­sta lacuna che apre all’agire e risulta essere una sco­perta di libertà così son­tuo­sa­mente abi­tata viene il desi­de­rio di rico­min­ciare a interrogarla.

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