venerdì 17 ottobre 2014
"Non detto" e allusione nella cultura occidentale
Risvolto
Questo libro affronta un aspetto poco indagato della cultura letteraria,
il non detto, e dalla dimostrazione che un buon racconto è un racconto
che sa tralasciare qualcosa arriva a identificare l'idea stessa di
letteratura con quella di lacunosità.
La nozione di «lacuna», assunta
a principio di metodo, serve a ridefinire concetti cardinali come scrittura,
testo, trama, lettura, stile, realtà e realismo, verità, conoscenza,
piacere, interpretazione, impegno, libertà, e il complesso rapporto
tra letteratura e vita. Gardini raccoglie e analizza un'affascinante varietà
di fonti (Aristotele, Platone, Cicerone, Seneca, Dante, Manzoni,
Stendhal, Flaubert, Proust, Henry James, Virginia Woolf, Nietzsche,
Thomas Mann, Conan Doyle, Simenon, Yourcenar ecc.), collegando gli
esempi in sorprendenti sintesi e scoperte. Ne esce per la prima volta
il profilo di un'estetica fondativa, lunga secoli. Ma soprattutto risulta
che il lacunoso è uno dei paradigmi piú vivaci della nostra immaginazione,
e un bene da coltivare. Con Lacuna Gardini afferma con vigore
la missione conoscitiva della letteratura e, al tempo stesso, fornisce
una prova saggistica molto originale, coniugando l'impegno nella
ricerca alla chiarezza.
Dare un senso al non detto in filosofia
Ogni discorso presuppone un doppio fondo della parola: altrimenti, se
tutto fosse già detto, che cosa resterebbe da spiegare e commentare?
L’ovvia osservazione investe l’ordine metafisico-teologico stesso. Per
millenni il mondo naturale e il testo sacro sono stati concepiti come
manifestazioni parallele e complementari di un Verbo divino che nella
lettera della scrittura o nella superficie della natura si occultava al
tempo stesso in cui si rivelava: donde la necessità di un’esegesi
simbolica del creato, che nella Parola divina trovava il suo senso e il
suo compimento.
Sempre radicale, l’Islam ha condotto all’estremo questa visione,
esemplarmente rappresentata dall’episodio della distruzione nel 646 d.
C. della biblioteca di Alessandria per ordine del califfo Omar I, che
giustificò la decisione dichiarando che si davano due sole possibilità. I
libri della biblioteca o contenevano cose già presenti nel Corano ed
erano dunque inutili oppure contenevano cose che del Corano non facevano
parte ed erano dunque dannosi: in entrambi i casi andavano ugualmente
distrutti.
La scomparsa del Verbo creatore nel crollo della Tradizione, avvenuto in
Occidente fra Illuminismo e Romanticismo, ha sottratto ogni
decifrabilità e ogni termine all’universo del discorso, aprendo
l’immensa voragine nella quale il non detto coincide col non senso:
Kafka è un emblema.
L’aspetto filosofico o speculativo del non detto, ancora presente nei
teorici francesi del secolo scorso (Blanchot, Foucault, Derrida), non
interessa l’indagine di Nicola Gardini, approdata adesso a un volume che
pure si presenta con i toni e gli auspici del manifesto (Lacuna. Saggio
sul non detto, Einaudi, pp. 272, e 20). Il non detto è infatti inteso
come una risorsa retorica della tecnica letteraria, l’omissione
consapevole e calcolata di una parte del discorso, l’interruzione o la
cesura introdotta al fine di raggiungere un superiore effetto
espressivo, che corrispondono in buona sostanza all’antica figura
dell’ellissi.
Tutti ricordano il silenzio opposto da Aiace nel regno dei morti alla
preghiera di Ulisse di essere perdonato (Odissea, XI) o l’annuncio
«Veni, vidi, vici» col quale Cesare comunicò secondo Plutarco la sua
vittoria contro Farnace II nella guerra del Ponto o ancora «La
sventurata rispose» con cui Manzoni nei Promessi sposi allude, senza
procedere oltre, al cedimento di Geltrude di fronte al suo seduttore. Un
exploit è quello di Stendhal che, osserva Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
nel romanzo Il rosso e il nero «è riuscito a riassumere una notte
d’amore in un punto e virgola».
In questo senso il non detto rientra nel più vasto ideale stilistico
della «brevità», della concisione, del laconismo che, rifiutando la
descrizione minuta e completa dell’oggetto, lascia libero spazio
all’immaginazione, fonte massima del piacere psicologico.
Il libro di Gardini accumula e commenta meritoriamente in un vasto
repertorio esempi disparati di non detto raccolti dalla letteratura
antica e moderna, italiana e straniera, attestando l’ampiezza
sorprendente delle conoscenze e delle letture dell’autore. Nello stesso
tempo richiama l’attenzione sul ruolo che la «lacuna» del non detto
svolge nell’economia della letteratura narrativa, tanto da prospettare,
se non certo una nuova estetica come si vagheggia nella quarta di
copertina del libro, almeno un nuovo elemento di interesse metodologico e
critico.
L’assunto di Gardini potrebbe essere esteso a un genere intero che egli
non prende in considerazione, ma che celebra proprio il trionfo del non
detto: l’aforisma. Dove, più che nell’aforisma, vengono abolite la
descrizione e la spiegazione? Dove, meglio che nell’aforisma, la brevità
si allea alla sorpresa? L’aforisma è nella sua essenza, come d’altronde
la poesia, un’ arte dell’implicito.
Il fascino dell’assenza
Saggi. «Lacuna. Saggio sul non detto» di Nicola Gardini, pubblicato da Einaudi. Tutte le reticenze narrative della letteratura, da Dante a Calvino passando per James e Yourcenar
Alessandra Pigliaru, il Manifesto 2.4.2015
«La letteratura è una mancanza perennemente rinnovata dalle parole; è desiderio di altro ancora, perché quello che c’è sulla pagina non basta, non può essere tutto. Una scrittura sarà tanto più letteraria quanto più intenso saprà indurre quel desiderio». È la tesi di Nicola Gardini, docente di letteratura italiana e comparata a Oxford, che nel suo ultimo libro si dedica a un termine – che corrisponde anche al titolo — capace di sostanziare la mancanza: Lacuna. Saggio sul non detto (Einaudi, pp. 271, euro 20).
Lacuna, dice Gardini, richiama semanticamente il significato latino di lacus e in italiano il termine laguna. Se considerassimo dunque la lacuna come una «depressione in cui si raccoglie l’acqua», intenderemmo ciò che descrive Virgilio quando, nelle Georgiche, accenna a cavae lacunae, cioè un luogo – delle fosse – da cui l’acqua dei fiumi straripati evapora. A prescindere dalla più generale depressione geografica, il termine lacuna sembra comparire nelle principali lingue europee e sta a indicare, nel suo senso ampio, qualcosa che manca, qualcosa di necessario che non si dà. Se per ogni campo del sapere, o potremmo dire meglio per ogni gioco linguistico, il termine risente di una speciale declinazione (per la medicina, la lacuna è uno spazio di interruzione e mancanza, di dimensioni piccole o grandi che va dal sistema lacunare della cornea alla mnemonica), per la filologia — da cui Gardini sostanzialmente prende le mosse — la parola corrisponde a un’assenza nel testo, seguendo tuttavia una precisa direzione letteraria che gli consenta di concentrarsi sull’omissione intenzionale di parti del racconto.
In letteratura la lacuna può essere riscontrata in una narrazione ed è un punto preciso che segna e attiva lo stesso procedimento letterario. In questo senso, il non detto è l’omissione, ciò che determina riduzioni, abolizioni, cancellazioni, spasmi, eliminazioni, strappi del testo – e quindi della scrittura – attraverso cui evincere che «si narra non solo dicendo».
La ricerca di Nicola Gardini esclude alcuni tipi di omissione: per esempio quelle imposte come la censura, o l’incompiuto, le amputazioni, le sparizioni o i guasti meccanici e tutte le altre manifestazioni secondo cui non si è stati liberi di decidere bensì sono state circostanze esterne a dettare più o meno forzatamente l’essere mancanti. Non vengono analizzate le scritture diaristiche, né quelle poetiche, né ancora si discetta di accezioni lacaniane o sacrali (nonostante di tutte queste forme sarebbe utile continuare a parlare in relazione all’omissione e lo stesso autore auspica che ciò accada – così come per altre tradizioni).
Andare direttamente ai testi, stringendo all’osso la letteratura secondaria e quindi inchiodando il più possibile il fuoco della faccenda, autorizza Gardini all’individuazione di ottimi maestri di lacunosità; tra i tanti vi sono Proust, Flaubert e Henry James. Insieme a moltissimi esempi di lacuna – annunciata come nel caso dell’apertura del canto XXI dell’Inferno dantesco, o semplicemente agita come nella mancata descrizione dell’amore tra Vronskij e Anna Karenina nel decimo capitolo del romanzo di Tolstoj o nell’elisione della morte della signora Ramsay di Gita al faro di Woolf. E poi Manzoni, Thomas Mann, Stendhal, Nietzsche, Calvino, Yourcenar, altre e altri.
Reticenze e occultamenti sono infatti insufficienti a misurarsi con l’intelligenza dei testi, per questa ragione l’autore affonda la sua sapienza analitica su alcuni elementi che ci interpellano: intanto esistono diverse specie di omissioni che necessitano di altrettante speculazioni, riflessioni perché la lacuna «sta al testo come l’ombra al corpo». E proprio di una doppia materialità ci parla l’autore, ovvero dell’intenzionalità di chi scrive e dell’intenzione che restituisce il testo. A ben guardare ve ne è anche una terza che emerge dall’incontro con colui o colei che legge.
In questo gioco di vuoti e di pieni, la lacuna diventa un’arte, «ovvero un procedimento conscio o calcolato: un non dire al fine di dire». Se esso contribuisce alla rappresentazione essendo essenziale alla forma come al significato, il volume sceglie di distillare un’estetica dell’omissione sorvegliando quando, come e perché abbia definito uno sviluppo della letteratura per provare a ridefinire la fisionomia controversa e multiforme del concetto di realismo.
Per spiegare cosa sia il realismo, l’autore si colloca inizialmente accanto a Lukàcs e ad Auerbach mostrando maggiori debiti con quest’ultimo seppure verso il primo la corrispondenza sia ascrivibile alla «capacità educativa» della letteratura, rintracciata come traguardo della coscienza europea. La realtà di cui si parla non è proporzionata alla sua verificabilità, quanto piuttosto alla sua capacità di essere completata da chi legge. L’attitudine al domandare, all’immaginare da parte di chi legge sorgono dinanzi a narrazioni che lasciano aperta una breccia, uno spazio — anche piccolo, come interstizio di accoglienza.
Il senso, ricontrattato ermeneuticamente, si va costruendo nello stesso procedimento conoscitivo che è la letteratura. Ecco perché la lacunosità transita nell’impianto teorico di Gardini da idea a metodo. Che un saggio sul non detto custodisca una seduzione straordinaria è innegabile.
Un fascino che non è solo scandito dall’aver saputo coniugare la mancanza alla disciplina delle fonti, bensì da ciò che viene a riconfigurarsi seguendo questo verso esatto, ovvero che «riconoscere il valore dell’omissione significa rimettere la parzialità della scrittura nella totalità del mondo. Significa cercare il senso».
E alla fine della lettura, questa lacuna che apre all’agire e risulta essere una scoperta di libertà così sontuosamente abitata viene il desiderio di ricominciare a interrogarla.
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