giovedì 13 novembre 2014

Alberto Burgio su Pasolini e l'invettiva del 1974




Pasolini, quel sapere impotente 

4 novembre 1974. Il 14 novembre 1974, un anno prima di essere assassinato, pubblicava il violento editoriale in cui accusava l'establishment che comandava l'Italia di aver ordito la spirale di violenza che da piazza Fontana a piazza della Loggia insanguinava il paese

Alberto Burgio, il Manifesto 13.11.2014 

Quarant’anni e paiono quat­tro­cento. Men­tre, per con­verso, poche pagine pre­ci­pi­tano tra le nostre carte con altret­tanta rovente attua­lità. Stiamo par­lando di quel vio­lento edi­to­riale (poi ribat­tez­zato «Il romanzo delle stragi») che Pier Paolo Paso­lini pub­blicò sul Cor­riere della sera, il 14 novem­bre del 1974, un anno prima di finire mas­sa­crato sul lito­rale di Ostia. «Io so. Io so i nomi dei responsabili…» 

Fu un bru­tale attacco all’«establishment» che coman­dava l’Italia. Accu­sato di avere ordito «tra una messa e l’altra» la tra­gica spi­rale di vio­lenza che da un lustro – da piazza Fon­tana a piazza della Log­gia, all’Italicus – insan­gui­nava il paese. E accu­sato, a mag­gior ragione, di omertà per la deter­mi­na­zione a coprire man­danti ed ese­cu­tori mate­riali di una «serie di ’gol­pes’ isti­tui­tasi a sistema di pro­te­zione del potere» demo­cri­stiano e atlan­tico.
Il ragio­na­mento di Paso­lini è lim­pido. Chi abita le stanze del Palazzo (non sol­tanto i poli­tici, atten­zione: anche chi con­trolla l’informazione, cioè la disin­for­ma­zione pub­blica) cono­sce l’identità dei respon­sa­bili delle «spa­ven­tose stragi» di Stato. Ha prove che inchio­de­reb­bero sicari – mili­tari, neo­fa­sci­sti, mafiosi e cri­mi­nali comuni – e mandanti. 
Ma impe­di­sce che quei nomi ven­gano resi noti per­ché con­di­vide le fina­lità delle stragi. Anche gli intel­let­tuali sanno chi si è mac­chiato di quei cri­mini e vor­reb­bero – loro – dirlo aper­ta­mente. Ma, men­tre poli­tici e gior­na­li­sti tac­ciono pur avendo le prove, gli intel­let­tuali, che avreb­bero il corag­gio di denun­ciare, non dispon­gono nem­meno di indizi. Il loro è un sapere diverso, figlio dell’intelligenza e dell’immaginazione. Dell’estraneità a un mondo poli­tico degra­dato e della ripu­gnanza per la sua cor­ru­zione e i suoi silenzi. Un sapere in appa­renza apo­li­tico, in realtà poli­ti­cis­simo per­ché sor­retto dalla domanda di tra­spa­renza e giustizia. 
Un sapere incon­tro­ver­ti­bile per­ché fon­dato sull’istinto della verità. Ma, poi­ché non docu­men­tato, impo­tente a istruire quel pro­cesso pub­blico che il biso­gno di verità e giu­sti­zia reclama. L’accusa di Paso­lini coin­volge l’intera «classe poli­tica» ita­liana, anche il Pci, che pure è ai suoi occhi affatto diverso dalla Dc. Un paese intatto e one­sto con­tro un paese diso­ne­sto; un paese intel­li­gente con­tro un paese idiota; un paese colto con­tro un paese igno­rante. Addi­rit­tura un’altra nazione che un bara­tro separa dall’Italia degra­data e dalla quale dipende la sal­vezza delle sue «povere isti­tu­zioni demo­cra­ti­che». Il fatto è che anche i poli­tici del Pci si com­por­tano come «uomini di potere» e per ciò non solo tac­ciono quei nomi, ma dif­fi­dano anch’essi degli intel­let­tuali liberi. Ai quali negano quelle prove che, divul­gate, sca­te­ne­reb­bero un ter­re­moto sin nelle fon­da­menta del Palazzo. Que­sta la con­clu­sione bru­ciante: «il corag­gio intel­let­tuale della verità e la pra­tica poli­tica sono due cose incon­ci­lia­bili in Ita­lia». Ragion per cui gli intel­let­tuali sono ben voluti solo come chie­rici senza pas­sione civile. Solo se si limi­tano a dibat­tere que­stioni astratte fini a se stesse. Se riman­gono docili nei ran­ghi dei «servi del potere». 
Si può con­di­vi­dere o meno que­sta gene­rale «mozione di sfi­du­cia». Si può sot­to­scri­vere o meno, in par­ti­co­lare, l’accusa rivolta al gruppo diri­gente comu­ni­sta al tempo del primo Ber­lin­guer. Certo è dif­fi­cile disco­no­scerne la scon­cer­tante attua­lità. Scri­vesse oggi Paso­lini, cam­bie­reb­bero i nomi e gli acca­di­menti. Ma la catena di «comici gol­pes e spa­ven­tose stragi» è con­ti­nuata e con­ti­nua, come il rosa­rio dei turpi segreti di Stato, dei cri­mini della reti­cenza e dell’ipocrisia. Dagli armadi della ver­go­gna ai morti ammaz­zati in car­ceri, caserme e ospe­dali. Dalle P2 e P3 alle disca­ri­che radioat­tive, alle trat­ta­tive tra Stato e mafie. Dallo svuo­ta­mento della Costi­tu­zione anti­fa­sci­sta alla con­giura del silen­zio sui cri­mini eco­no­mici – la cosid­detta auste­rità, la cor­ru­zione, la pri­va­tiz­za­zione dei beni comuni, l’esportazione di capi­tale, l’evasione fiscale – che con l’alibi della crisi e dell’austerità azze­rano i diritti e la dignità degli inermi ricac­ciando il paese verso un nuovo feu­da­le­simo. Oggi anzi le cose stanno peg­gio di ieri, in un paese ver­go­gno­sa­mente ine­guale, immen­sa­mente più ricco e al tempo stesso incom­pa­ra­bil­mente più povero e pre­ca­rio, più fra­gile e spae­sato, più vol­gare, più vio­lento e più ini­quo. Quindi assai meno difeso dal peri­colo di pre­ci­pi­tare in un nuovo fascismo. 
Vale anche – oggi più di ieri – l’invettiva con­tro l’opposizione, dive­nuta frat­tanto e con assai dub­bio van­tag­gio per i subal­terni «forza di governo». Se ieri Paso­lini lamen­tava che il Pci fosse un cen­tro di potere, che direbbe oggi – lui comu­ni­sta – di una sedi­cente «sini­stra» inse­diata nelle stanze più ambite del Palazzo e feb­bril­mente impe­gnata in una guerra senza quar­tiere non solo con­tro la verità (la poli­tica ridotta a tra­smis­sione di spot a reti uni­fi­cate) ma anche con­tro il lavoro, per radi­ca­liz­zarne la subor­di­na­zione? Difatti sus­si­stono, per con­tro, anche ele­menti di inat­tua­lità di quella denun­cia, che pro­prio da qui discen­dono.
Intanto: dove scri­ve­rebbe oggi Pier Paolo Paso­lini? Allora poteva sfer­rare attac­chi ad alzo zero con­tro i potenti dalla prima pagina del prin­ci­pale quo­ti­diano ita­liano che già da due anni ospi­tava le sue inau­dite pro­vo­ca­zioni. Lì poteva dirsi orgo­glio­sa­mente comu­ni­sta. E pra­ti­care la libertà dell’intellettuale senza riguardi per diplo­ma­zie e opportunità. 
La sua scan­da­losa pre­senza riflet­teva e appro­fon­diva con­trad­di­zioni irri­solte in un sistema di potere che si sarebbe blin­dato solo nel corso degli anni Ottanta, al tempo della strut­tu­rale crisi di espan­si­vità del capi­ta­li­smo maturo. Oggi sarebbe forse imma­gi­na­bile un Paso­lini edi­to­ria­li­sta del Cor­riere della sera o di Repub­blica? Cia­scuno cono­sce la rispo­sta, se appena ha con­tezza del deso­lante pae­sag­gio dell’informazione ita­liana. Che non è un ambito distinto e sepa­rato, ma lo spec­chio fedele della deca­denza intel­let­tuale e morale del paese e della cor­ru­zione di tutta una classe diri­gente.
Ciò vale – anche da que­sto punto di vista lo sce­na­rio è mutato, non in meglio – pure per l’intellettualità. Paso­lini par­lava a nome di un mondo vasto e arti­co­lato, certo di dare voce a molti mossi, come lui, dalla pas­sione per la verità. 
Oggi? Anche qui cia­scuno rispon­derà per sé. Dirà, in base alla pro­pria espe­rienza, se sulla scena pub­blica ita­liana scorge tanti intel­let­tuali liberi, ani­mati dal corag­gio civile, dal rigetto dell’ipocrisia e dell’omertà, dispo­sti a «tra­dire» il ruolo ser­vile loro asse­gnato. O vede invece per­lo­più pavidi con­for­mi­sti osse­quiosi alle clien­tele, chie­rici abbar­bi­cati ai pro­pri pri­vi­legi, docili fun­zio­nari dell’industria cul­tu­rale (l’università, l’editoria, i media) in fuga sta­bile dalla responsabilità.

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