E D’Alema preferisce il suo vino: il “rosso” che non lo tradisce
L’ex premier sottolinea i pregi dell’“invecchiamento”
di Mattia Feltri La Stampa 13.11.14
Anche qui si è presa una direzione, e decisamente più piacevole: aperitivo con rosé frizzante e resto della serata con Sfide e Pinot nero, bicchieri di rosso che sono passati sopra un menù di tartare di manzo, ravioli di carne e stracotto.
Su quest’ultimo piatto, Matteo Renzi ci avrebbe fatto della feroce ironia, visto che il grande protagonista della serata è stato Massimo D’Alema: perché incupirsi in Direzione - in questo caso con la d maiuscola - se la vita riserva nuove occasioni di trionfo?
Diluvia a Roma, via Boito, ristorante Mamma Angelina: qui ieri sera l’ex premier ha organizzato - da qualche settimana, quindi da tempi non sospetti - la sua serata di gloria enologica.
Poco meno di un centinaio di amici, ristoratori, esperti, stampa specializzata e tre o quattro parlamentari (Luca Sani e Cristina Bargero) come lui più interessati ai retrogusti che ai retroscena. In fondo D’Alema è ormai un politico a tempo perso, sebbene conservi il cattivo umore di sempre.
A fine agosto, per esempio, era finalmente una pasqua sulla piazza di Otricoli, borgo umbro sulle sponde del Tevere, col suo banchetto per la sagra VinOtricolando, e le bottiglie in vendita. «Massimo, il frizzantino è buonissimo» gli dicevano i paesani con meritata familiarità. Niente acidità di stomaco, prodotta dal riflettere e discutere del giovane usurpatore fiorentino. Certo, fa un pochino impressione che D’Alema diserti proprio l’occasione ufficiale per dire al presidente del Consiglio, e dirglielo in faccia, tutto quello che pensa di lui. Ma ormai il pallino del produttore lo ha preso quantomeno per maggior soddisfazione. Gli capita persino di scaricare le cassette d’uva, dice con goduria da riscoperta della fatica da peone. Il suo vino, prodotto con una certa serietà, a decine di migliaia di bottiglie, va giù che è uno spettacolo, dicono i commensali rapiti e morbidosi. La segretissima cena è stata messa in piedi con la speranza di piazzare il prodotto in qualche ristorante, ma non soltanto: lui vorrebbe varcare le frontiere, se non più per i tavoli delle trattative senz’altro per quelli del rifocillarsi. Ieri sera si è alzato e - mentre all’altro capo della città Renzi si saziava di potere - ha parlato di solfiti e sapori tannici e soprattutto di invecchiamento, settore in cui è ancora un pregio.
Ecco, gli applausi li ha avuti anche lui, nonostante abbia chiuso il discorso di apertura, prima di darci dentro con le forchette, con uno splendido «A noi». Gastronomicamente parlando.
L’ex premier sottolinea i pregi dell’“invecchiamento”
di Mattia Feltri La Stampa 13.11.14
Anche qui si è presa una direzione, e decisamente più piacevole: aperitivo con rosé frizzante e resto della serata con Sfide e Pinot nero, bicchieri di rosso che sono passati sopra un menù di tartare di manzo, ravioli di carne e stracotto.
Su quest’ultimo piatto, Matteo Renzi ci avrebbe fatto della feroce ironia, visto che il grande protagonista della serata è stato Massimo D’Alema: perché incupirsi in Direzione - in questo caso con la d maiuscola - se la vita riserva nuove occasioni di trionfo?
Diluvia a Roma, via Boito, ristorante Mamma Angelina: qui ieri sera l’ex premier ha organizzato - da qualche settimana, quindi da tempi non sospetti - la sua serata di gloria enologica.
Poco meno di un centinaio di amici, ristoratori, esperti, stampa specializzata e tre o quattro parlamentari (Luca Sani e Cristina Bargero) come lui più interessati ai retrogusti che ai retroscena. In fondo D’Alema è ormai un politico a tempo perso, sebbene conservi il cattivo umore di sempre.
A fine agosto, per esempio, era finalmente una pasqua sulla piazza di Otricoli, borgo umbro sulle sponde del Tevere, col suo banchetto per la sagra VinOtricolando, e le bottiglie in vendita. «Massimo, il frizzantino è buonissimo» gli dicevano i paesani con meritata familiarità. Niente acidità di stomaco, prodotta dal riflettere e discutere del giovane usurpatore fiorentino. Certo, fa un pochino impressione che D’Alema diserti proprio l’occasione ufficiale per dire al presidente del Consiglio, e dirglielo in faccia, tutto quello che pensa di lui. Ma ormai il pallino del produttore lo ha preso quantomeno per maggior soddisfazione. Gli capita persino di scaricare le cassette d’uva, dice con goduria da riscoperta della fatica da peone. Il suo vino, prodotto con una certa serietà, a decine di migliaia di bottiglie, va giù che è uno spettacolo, dicono i commensali rapiti e morbidosi. La segretissima cena è stata messa in piedi con la speranza di piazzare il prodotto in qualche ristorante, ma non soltanto: lui vorrebbe varcare le frontiere, se non più per i tavoli delle trattative senz’altro per quelli del rifocillarsi. Ieri sera si è alzato e - mentre all’altro capo della città Renzi si saziava di potere - ha parlato di solfiti e sapori tannici e soprattutto di invecchiamento, settore in cui è ancora un pregio.
Ecco, gli applausi li ha avuti anche lui, nonostante abbia chiuso il discorso di apertura, prima di darci dentro con le forchette, con uno splendido «A noi». Gastronomicamente parlando.
I «Professoroni» contro il governo
di David Allegranti La Stampa 13.11.14
«Riforme contro la Costituzione?». Quantomeno ci hanno messo un punto interrogativo, quelli della sinistra radical, che dopo essere scesi in piazza contro il berlusconismo adesso organizzano manifestazioni contro il renzismo. «Il governo Renzi si rappresenta come promotore di riforme. La Costituzione dovrebbe essere l’architrave che le sorregge, ma si può temere che varie riforme volute dal governo producano distorsioni incisive dell’assetto costituzionale», si legge nel volantino che pubblicizza l’incontro. Sabato 18 novembre, alle 15, a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, torna il vecchio partito dei professori. Con Francesco Pancho Pardi, Piercamillo Davigo, Salvatore Settis e Anna Marson, a parlare di riforme e dintorni, dalla legge elettorale a quella urbanistica. Special guest, Pippo Civati. Capo della sinistra antirenzista.
di David Allegranti La Stampa 13.11.14
«Riforme contro la Costituzione?». Quantomeno ci hanno messo un punto interrogativo, quelli della sinistra radical, che dopo essere scesi in piazza contro il berlusconismo adesso organizzano manifestazioni contro il renzismo. «Il governo Renzi si rappresenta come promotore di riforme. La Costituzione dovrebbe essere l’architrave che le sorregge, ma si può temere che varie riforme volute dal governo producano distorsioni incisive dell’assetto costituzionale», si legge nel volantino che pubblicizza l’incontro. Sabato 18 novembre, alle 15, a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, torna il vecchio partito dei professori. Con Francesco Pancho Pardi, Piercamillo Davigo, Salvatore Settis e Anna Marson, a parlare di riforme e dintorni, dalla legge elettorale a quella urbanistica. Special guest, Pippo Civati. Capo della sinistra antirenzista.
Quel capannello targato Pds In Transatlantico
di Monica Guerzoni Corriere 13.11.14
Metti un pomeriggio a Montecitorio tra vecchi compagni di partito.
Nel bel mezzo del Transatlantico se ne stavano ieri il leader di Sel Nichi Vendola, l’ex ministro Fabio Mussi, l’onorevole Giorgio Airaudo e l’ex viceministro Stefano Fassina, intenti a commentare l’incontro in corso tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
«Che cos’è, una riunione del Pds?» scherza un giornalista di lungo corso, colpito dal gruppetto che ricorda la vecchia Quercia. E Pippo Civati, che si ferma a far capannello: «Pds, sì... E non vi sfugga che la lettera più importante
è la “s” di sinistra».
di Monica Guerzoni Corriere 13.11.14
Metti un pomeriggio a Montecitorio tra vecchi compagni di partito.
Nel bel mezzo del Transatlantico se ne stavano ieri il leader di Sel Nichi Vendola, l’ex ministro Fabio Mussi, l’onorevole Giorgio Airaudo e l’ex viceministro Stefano Fassina, intenti a commentare l’incontro in corso tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
«Che cos’è, una riunione del Pds?» scherza un giornalista di lungo corso, colpito dal gruppetto che ricorda la vecchia Quercia. E Pippo Civati, che si ferma a far capannello: «Pds, sì... E non vi sfugga che la lettera più importante
è la “s” di sinistra».
L’intervista. Pippo Civati “Sinistra schiacciata, Matteo punta al partito unico di centro”
di Tommaso Ciriaco Repubblica 13.11.14
ROMA Pippo Civati mette piede in direzione già sconsolato. «La situazione è al limite, stiamo correndo su un filo sempre più sottile». Dalla riunione spedisce sms amari: «Renzi sta dicendo di sé quello che diceva di Letta...». E ancora: «A parole inizia a preoccuparsi della spaccatura ». Si discute di legge elettorale, intanto. E il deputato punta a salvare il salvabile. «Fossimo fuori dal patto del Nazareno, ci sarebbe il Mattarellum. Ma siccome siamo in questo schema, vogliamo capire se è possibile ridurre i danni. Partendo dalla possibilità per i cittadini di scegliere gli eletti, con le preferenze o i collegi».
Ma lei quando decide se restare nel Pd, Civati? Un paio di settimane fa aveva detto: “Entro un mese”.
«Per me la chiarezza va fatta innanzitutto con gli altri che sono a disagio. Ci stiamo confrontando e questo è molto positivo. Oggi sono passato per un saluto alla riunione con Bersani e D’Alema. Vedremo se uno sarà costretto ad andare via per costruire un progetto più ampio, oppure se sarà possibile restare nel Pd, ma con un’agibilità».
Da cosa dipende?
«Sarà possibile discutere, oltre a dover assistere al solito spettacolo? Voglio capire se il Pd è considerato un luogo di confronto, oppure se il nostro spazio si perde nel flusso renziano... Sa, con Renzi non è facile: banalizza le tue proposte, oppure le assume senza riconoscerne la paternità. Dai prossimi passaggi - legge elettorale, riforme, Jobs act, manovra si capirà tutto. Certo, se passa il progetto del partito unico di centro, la risposta su cosa faremo purtroppo già c’è...».
Il partito unico di centro?
«L’Italicum rischia di diventare l’unicum: così nasce il partito unico di centro, una grande forza che domina il sistema. Attorno c’è una destra anti-euro e antitutto. E una sinistra che viene schiacciata e rinuncia ai tratti riformisti».
Pessimista.
«Ecco il quadro: Renzi in mezzo diventa un leader nazional popolare, senza ideologie, che picchia sempre più spesso sulla sinistra. È un crescendo contro i sindacati, gli intellettuali, la vecchia guardia. Un continuo martellare».
Per lei il Pd sta sparendo a causa di Renzi?
«Io sostenevo che le larghe intese ci avrebbero portato fin qui. E infatti si parla di alleanza con Ncd alle Regionali... Pian piano la differenza tra destra e sinistra non c’è più».
Il patto del Nazareno, intanto, regge alla grande.
«Non mi sorprende. D’altra parte il Nazareno è... eterno. Non c’era motivo di pensare che questa intesa non continuasse, nonostante i distinguo. Crollerebbe tutto, altrimenti. Berlusconi fa sponda a Renzi e si vede in mille occasioni: non ricostruisce il centrodestra e si mostra molto più disponibile del passato a mantenere gli accordi».
Potesse modificare l’accordo sulla legge elettorale, cosa cambierebbe?
«Sono liste bloccate, si tratta di fatto di un’elezione indiretta. Senza contare che un capolista può esserlo in dieci collegi: così, alla fine, la segreteria di partito può decidere anche per i secondi classificati ».
A proposito: sul Jobs act la strada resta sbagliata?
«Sì. Se si continua così, alla Camera il dissenso crescerà».
Il dubbio di Fassina: “C’è aria di elezioni”
di Carlo Bertini La Stampa 13.11.14
Ci sono i venti civatiani che non vanno in Direzione perché avvisati troppo tardi, c’è Civati che va e provoca Renzi, «faccia venire in Direzione Berlusconi e Verdini». Ci sono i bersaniani che per tutto il giorno si arrovellano se sia meglio andare e votare contro o uscire dalla sala al momento del voto, «perché un’astensione non verrebbe capita», dice Davide Zoggia. Ci sono i dalemiani che vanno, mentre D’Alema non rinuncia a un impegno enogastronomico e diserta la Direzione. Ha buon gioco il renziano Andrea Marcucci a sfottere evocando il morettiano dilemma, «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo affatto?». È una delle riunioni di svolta, dove Renzi deve dimostrare a Berlusconi di essere quello che controlla davvero il suo partito, che chiama all’appello perfino gli eurodeputati, ma alla fine accetta la richiesta di evitare la conta interna. La minoranza fino a mezz’ora prima della riunione non sa come regolarsi. «Va trovata la chiave, la misura per mostrare lealtà alla ditta e dissenso nel merito», si imbarazza non a caso Bersani quando gli si chiede cosa farà al momento del voto in aula sul Jobs Act. Dove i dissidenti Pd voteranno sì se verranno recepite le richieste sull’articolo 18, le stesse su cui avevano votato contro in Direzione a fine settembre.
Per decidere la linea un affollato vertice pre-Direzione. Nella sala Berlinguer al secondo piano “dei gruppi” arrivano Bersani e D’Alema, il ministro Martina e Nico Stumpo, ma anche Cuperlo e Civati: tutte le tribù si riuniscono alla ricerca di un fronte comune. Si discetta per un’ora e alla fine la linea unitaria è: si va, si parla e non si vota. Lo schema del nuovo Italicum in realtà non dispiace alla minoranza Pd, che però solleva le barricate sui parlamentari nominati, «no ai 100 capilista bloccati», alza la diga la sinistra.
Ci pensa Stefano Fassina a dare corpo al dubbio che «l’accelerazione sull’Italicum - anche leggendo la legge di stabilità - serva ad andare a votare». Ed ecco le ragioni del dissenso: «Sulla legge elettorale chiediamo vi sia la scelta dei cittadini di eleggere tutti i deputati». Quindi, no ai nominati con i capilista bloccati. «E sul lavoro bisogna correggere la delega che aggrava la precarietà». Tradotto, ci vogliono più soldi per i disoccupati e va messo nero su bianco che la tutela dell’articolo 18 vale per i licenziamenti disciplinari.
di Carlo Bertini La Stampa 13.11.14
Ci sono i venti civatiani che non vanno in Direzione perché avvisati troppo tardi, c’è Civati che va e provoca Renzi, «faccia venire in Direzione Berlusconi e Verdini». Ci sono i bersaniani che per tutto il giorno si arrovellano se sia meglio andare e votare contro o uscire dalla sala al momento del voto, «perché un’astensione non verrebbe capita», dice Davide Zoggia. Ci sono i dalemiani che vanno, mentre D’Alema non rinuncia a un impegno enogastronomico e diserta la Direzione. Ha buon gioco il renziano Andrea Marcucci a sfottere evocando il morettiano dilemma, «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo affatto?». È una delle riunioni di svolta, dove Renzi deve dimostrare a Berlusconi di essere quello che controlla davvero il suo partito, che chiama all’appello perfino gli eurodeputati, ma alla fine accetta la richiesta di evitare la conta interna. La minoranza fino a mezz’ora prima della riunione non sa come regolarsi. «Va trovata la chiave, la misura per mostrare lealtà alla ditta e dissenso nel merito», si imbarazza non a caso Bersani quando gli si chiede cosa farà al momento del voto in aula sul Jobs Act. Dove i dissidenti Pd voteranno sì se verranno recepite le richieste sull’articolo 18, le stesse su cui avevano votato contro in Direzione a fine settembre.
Per decidere la linea un affollato vertice pre-Direzione. Nella sala Berlinguer al secondo piano “dei gruppi” arrivano Bersani e D’Alema, il ministro Martina e Nico Stumpo, ma anche Cuperlo e Civati: tutte le tribù si riuniscono alla ricerca di un fronte comune. Si discetta per un’ora e alla fine la linea unitaria è: si va, si parla e non si vota. Lo schema del nuovo Italicum in realtà non dispiace alla minoranza Pd, che però solleva le barricate sui parlamentari nominati, «no ai 100 capilista bloccati», alza la diga la sinistra.
Ci pensa Stefano Fassina a dare corpo al dubbio che «l’accelerazione sull’Italicum - anche leggendo la legge di stabilità - serva ad andare a votare». Ed ecco le ragioni del dissenso: «Sulla legge elettorale chiediamo vi sia la scelta dei cittadini di eleggere tutti i deputati». Quindi, no ai nominati con i capilista bloccati. «E sul lavoro bisogna correggere la delega che aggrava la precarietà». Tradotto, ci vogliono più soldi per i disoccupati e va messo nero su bianco che la tutela dell’articolo 18 vale per i licenziamenti disciplinari.
La minoranza Pd pronta a dire tre no
Vertice con D’Alema-Bersani: ora in trincea contro l’Italicum, Jobs Act e legge di Stabilità Ma il premier vede per un’ora il capogruppo Speranza: “Ho un patto con lui, i giovani sono con me”
di Goffredo De Marchis Repubblica 13.10.14
ROMA Darsi un’organizzazione per contrastare Matteo Renzi e le sue riforme, dalla legge elettorale al Jobs Act. La minoranza del Pd prova a uscire dalla sindrome Armata Brancaleone, ampiamente dimostrata con i voti in ordine sparso nei gruppi parlamentari, nelle direzioni, e che non hanno fatto altro che rafforzare il premiersegretario. Dunque, una riunione prima della direzione notturna finisce con una decisione univoca: non si deve votare la relazione di Renzi e se si vota bisogna non partecipare. Perché ora è il momento di dire dei “no” solidi: no al nuovo patto del Nazareno, no alla riforma del lavoro, no alla legge di stabilità. Renzi però è convinto di aver già rotto questo fronte sempre fragile. «Ho fatto l’accordo con Orfini», racconta ai suoi collaboratori. Ma questa non è una novità. «E ho stretto un patto con Roberto Speranza », aggiunge il premier. Come dire: la vecchia guardia faccia quello che vuole, il capofila dei giovani all’interno della pattuglia degli oppositori sta dalla mia parte. Questo tassello del puzzle, raccontano a Palazzo Chigi, è stato aggiunto durante un colloquio di un’ora tra Speranza e Renzi, successivo al vertice con Berlusconi. In quel colloquio si è anche deciso di non votare in direzione. Una mano tesa di Renzi a tutti coloro che non vogliono seguire gli oltranzisti della sinistra.
Sono passaggi tuttavia che un pezzo della minoranza dà per scontati. Il capogruppo del Pd alla Camera Speranza viene ormai considerato perso alla causa dell’antirenzismo. Un gruppo di ribelli prova invece a darsi un proprio coordinamento politico e cerca di immaginare i numeri per un’opposizione al governo condotta dentro al Pd. All’ora di pranzo, ieri, si sono visti Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Francesco Boccia, Alfredo D’Attorre e alcuni bindiani. Quante truppe hanno nei due rami del Parlamento è difficile da stabilire, soprattutto perché Renzi ha dimostrato notevoli doti di negoziatore ed è capace di dividere gli avversari. Ma quello che conta, nella composizione del tavolo, sono i nomi che mancano ancora più di quelli presenti. È stata fatta una scrematura rispetto a pontieri, mediatori, ambasciatori che vengono considerati, sostanzialmente, renziani dell’ultima ora o dirigenti che giocano in proprio. «Noi, al contrario, dobbiamo fare squadra — spiega Civati —. Superando le correnti, superando la vecchia guardia e facendo le battaglie sui contenuti dei provvedimenti non sulle appartenenze ». Quindi accanto agli esponenti della sinistra Pd siedono adesso anche ex democristiani come Bindi o ex prodiani come Boccia.
Questa struttura che cerca di scrollarsi di dosso l’ombra dei “vecchi” invera l’incubo di Renzi e dei suoi fedelissimi a cominciare da Luca Lotti: un Vietnam parlamentare guidato dalla vera opposizione, quella del Pd. E lo convince a rimanere agganciato a Silvio Berlusconi, in funzione di contrappeso. Però la minoranza può farsi del male da sola. Renzi infatti ha sottolineato con soddisfazione la presenza di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema alla riunione allargata della sinistra democratica. Come se la loro presenza indebolisse da sola le sfide dei ribelli. Sia l’ex segretario sia l’ex premier sono andati all’attacco di Renzi, sconfessando in blocco la legge elettorale e rifiutando il compromesso delle preferenze con i capolista bloccati. Il sospetto rimane sempre lo stesso: che l’inquilino di Palazzo Chigi sia intenzionato ad andare a votare in primavera.
Il banco di prova sulla tenuta del Pd e del gruppo parlamentare di Montecitorio si avrà nelle prossime ore. Sul Jobs Act, all’esame della commissione Lavoro, i mediatori propongono un emendamento per salvare nell’articolo 18 i licenziamenti disciplinari. Sarebbe un passo avanti. Ma il premier si fida poco. E anche ieri in direzione ha fatto capire di avere in serbo l’arma della fiducia. «Si può chiudere rapidamente con due alternative: procedere con la fiducia o garantire l’entrata in vigore dal primo gennaio anche con modifiche da verificare ».
Vertice con D’Alema-Bersani: ora in trincea contro l’Italicum, Jobs Act e legge di Stabilità Ma il premier vede per un’ora il capogruppo Speranza: “Ho un patto con lui, i giovani sono con me”
di Goffredo De Marchis Repubblica 13.10.14
ROMA Darsi un’organizzazione per contrastare Matteo Renzi e le sue riforme, dalla legge elettorale al Jobs Act. La minoranza del Pd prova a uscire dalla sindrome Armata Brancaleone, ampiamente dimostrata con i voti in ordine sparso nei gruppi parlamentari, nelle direzioni, e che non hanno fatto altro che rafforzare il premiersegretario. Dunque, una riunione prima della direzione notturna finisce con una decisione univoca: non si deve votare la relazione di Renzi e se si vota bisogna non partecipare. Perché ora è il momento di dire dei “no” solidi: no al nuovo patto del Nazareno, no alla riforma del lavoro, no alla legge di stabilità. Renzi però è convinto di aver già rotto questo fronte sempre fragile. «Ho fatto l’accordo con Orfini», racconta ai suoi collaboratori. Ma questa non è una novità. «E ho stretto un patto con Roberto Speranza », aggiunge il premier. Come dire: la vecchia guardia faccia quello che vuole, il capofila dei giovani all’interno della pattuglia degli oppositori sta dalla mia parte. Questo tassello del puzzle, raccontano a Palazzo Chigi, è stato aggiunto durante un colloquio di un’ora tra Speranza e Renzi, successivo al vertice con Berlusconi. In quel colloquio si è anche deciso di non votare in direzione. Una mano tesa di Renzi a tutti coloro che non vogliono seguire gli oltranzisti della sinistra.
Sono passaggi tuttavia che un pezzo della minoranza dà per scontati. Il capogruppo del Pd alla Camera Speranza viene ormai considerato perso alla causa dell’antirenzismo. Un gruppo di ribelli prova invece a darsi un proprio coordinamento politico e cerca di immaginare i numeri per un’opposizione al governo condotta dentro al Pd. All’ora di pranzo, ieri, si sono visti Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Francesco Boccia, Alfredo D’Attorre e alcuni bindiani. Quante truppe hanno nei due rami del Parlamento è difficile da stabilire, soprattutto perché Renzi ha dimostrato notevoli doti di negoziatore ed è capace di dividere gli avversari. Ma quello che conta, nella composizione del tavolo, sono i nomi che mancano ancora più di quelli presenti. È stata fatta una scrematura rispetto a pontieri, mediatori, ambasciatori che vengono considerati, sostanzialmente, renziani dell’ultima ora o dirigenti che giocano in proprio. «Noi, al contrario, dobbiamo fare squadra — spiega Civati —. Superando le correnti, superando la vecchia guardia e facendo le battaglie sui contenuti dei provvedimenti non sulle appartenenze ». Quindi accanto agli esponenti della sinistra Pd siedono adesso anche ex democristiani come Bindi o ex prodiani come Boccia.
Questa struttura che cerca di scrollarsi di dosso l’ombra dei “vecchi” invera l’incubo di Renzi e dei suoi fedelissimi a cominciare da Luca Lotti: un Vietnam parlamentare guidato dalla vera opposizione, quella del Pd. E lo convince a rimanere agganciato a Silvio Berlusconi, in funzione di contrappeso. Però la minoranza può farsi del male da sola. Renzi infatti ha sottolineato con soddisfazione la presenza di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema alla riunione allargata della sinistra democratica. Come se la loro presenza indebolisse da sola le sfide dei ribelli. Sia l’ex segretario sia l’ex premier sono andati all’attacco di Renzi, sconfessando in blocco la legge elettorale e rifiutando il compromesso delle preferenze con i capolista bloccati. Il sospetto rimane sempre lo stesso: che l’inquilino di Palazzo Chigi sia intenzionato ad andare a votare in primavera.
Il banco di prova sulla tenuta del Pd e del gruppo parlamentare di Montecitorio si avrà nelle prossime ore. Sul Jobs Act, all’esame della commissione Lavoro, i mediatori propongono un emendamento per salvare nell’articolo 18 i licenziamenti disciplinari. Sarebbe un passo avanti. Ma il premier si fida poco. E anche ieri in direzione ha fatto capire di avere in serbo l’arma della fiducia. «Si può chiudere rapidamente con due alternative: procedere con la fiducia o garantire l’entrata in vigore dal primo gennaio anche con modifiche da verificare ».
Minoranza in rivolta, attacco sui «nominati»
Anche D’Alema alla «riunione unitaria» della sinistra. E sul Jobs act 550 emendamenti
di Monica Guerzoni Corriere 13.11.14
ROMA «Un Parlamento di nominati è inaccettabile, un punto imprescindibile...». Tra la buvette e il Transatlantico di Montecitorio, Bersani non si stanca di declinare i suoi no alle scelte di Renzi, dando corpo e voce allo stato d’animo della minoranza: «Il premier deve sciogliere l’ambiguità, deve spiegarci l’incoerenza. Perché acceleri sulla legge elettorale, se non vuoi andare a votare?».
L’opposizione si è ormai convinta che la corsa sull’Italicum abbia un solo obbiettivo, le urne. Per questo alza i toni e avrebbe alzato fisicamente i tacchi, in direzione, se il segretario-premier avesse chiesto un voto sulla sua relazione.
In vista della convention dei bersaniani sabato a Milano, la sinistra prova a unire le forze. Le diverse anime critiche coordinano ogni mossa e ieri sera anche Massimo D’Alema ha partecipato al vertice che ha preceduto la riunione del parlamentino del Pd (dove però l’ex premier non si è fatto vedere, per impegni precedenti). Alle sette di sera, alla Camera, gli oppositori di Renzi ci sono tutti. Ecco Bersani, D’Alema, Fassina, Damiano, Epifani, Cuperlo, Speranza, D’Attorre, Zoggia... Bindi è impegnata all’Antimafia, ma è come se ci fosse. «Riunione unitaria», sottolineano i partecipanti e concordano la linea. «Se Renzi ci chiede di votare un documento noi ci alziamo e ce ne andiamo», spiega Zoggia. E D’Attorre: «La direzione non può essere il luogo dove si ratificano gli accordi fatti con Berlusconi». Questione di metodo, a cui Renzi risponde con un secco: «Non credo di aver bisogno di un mandato esplicito della direzione».
Il dissenso è a tutto campo, dalla legge elettorale al Jobs act, alla politica economica. Stefano Fassina teorizza l’uscita dall’euro? E Bersani, che pure non è d’accordo, lo difende: «È una posizione paradossale, che non va banalizzata». L’ala civatiana ha voluto rendere ancor più evidente lo smarcamento disertando la direzione «last minute». Alle dieci di sera Pippo Civati sale al Nazareno, ma i suoi delegati, una ventina, restano a casa e annunciano lo strappo criticando lo «scarso preavviso della convocazione» e ironizzando sul patto del Nazareno: «Facciamo tanti auguri a Renzi per gli incontri, sicuramente molto più approfonditi, che dedica a Berlusconi e Verdini».
C’è chi diserta e chi si fa sentire. Fassina chiede «correzioni profonde» alla delega del lavoro e la possibilità, per i cittadini, di scegliere «tutti i parlamentari». I renziani attaccano. Ma Bersani, contro i cento capilista bloccati, è categorico: «Perché dobbiamo andare avanti con i nominati?». Eppure, sul punto cruciale della delega del lavoro, cerca la chiave per conciliare «il dissenso di merito e la lealtà al Pd». E se il governo porrà la fiducia? «Non voglio crederlo».
Sul Jobs act piovono emendamenti: 15 su 550 portano le firme dell’ala sinistra, che chiede paletti anche su demansionamento, voucher e controlli a distanza e non vogliono votare il testo del Senato, quello che cambia lo Statuto dei lavoratori. «Aver messo al centro il tema dell’articolo 18 è stato un errore», attacca Bersani. «Vogliamo correzioni profonde», gli fa eco Fassina. Per scongiurare la fiducia si cerca una mediazione sul reintegro in caso di licenziamento disciplinare ingiusto, oggetto di uno degli emendamenti della minoranza «dem».
Anche D’Alema alla «riunione unitaria» della sinistra. E sul Jobs act 550 emendamenti
di Monica Guerzoni Corriere 13.11.14
ROMA «Un Parlamento di nominati è inaccettabile, un punto imprescindibile...». Tra la buvette e il Transatlantico di Montecitorio, Bersani non si stanca di declinare i suoi no alle scelte di Renzi, dando corpo e voce allo stato d’animo della minoranza: «Il premier deve sciogliere l’ambiguità, deve spiegarci l’incoerenza. Perché acceleri sulla legge elettorale, se non vuoi andare a votare?».
L’opposizione si è ormai convinta che la corsa sull’Italicum abbia un solo obbiettivo, le urne. Per questo alza i toni e avrebbe alzato fisicamente i tacchi, in direzione, se il segretario-premier avesse chiesto un voto sulla sua relazione.
In vista della convention dei bersaniani sabato a Milano, la sinistra prova a unire le forze. Le diverse anime critiche coordinano ogni mossa e ieri sera anche Massimo D’Alema ha partecipato al vertice che ha preceduto la riunione del parlamentino del Pd (dove però l’ex premier non si è fatto vedere, per impegni precedenti). Alle sette di sera, alla Camera, gli oppositori di Renzi ci sono tutti. Ecco Bersani, D’Alema, Fassina, Damiano, Epifani, Cuperlo, Speranza, D’Attorre, Zoggia... Bindi è impegnata all’Antimafia, ma è come se ci fosse. «Riunione unitaria», sottolineano i partecipanti e concordano la linea. «Se Renzi ci chiede di votare un documento noi ci alziamo e ce ne andiamo», spiega Zoggia. E D’Attorre: «La direzione non può essere il luogo dove si ratificano gli accordi fatti con Berlusconi». Questione di metodo, a cui Renzi risponde con un secco: «Non credo di aver bisogno di un mandato esplicito della direzione».
Il dissenso è a tutto campo, dalla legge elettorale al Jobs act, alla politica economica. Stefano Fassina teorizza l’uscita dall’euro? E Bersani, che pure non è d’accordo, lo difende: «È una posizione paradossale, che non va banalizzata». L’ala civatiana ha voluto rendere ancor più evidente lo smarcamento disertando la direzione «last minute». Alle dieci di sera Pippo Civati sale al Nazareno, ma i suoi delegati, una ventina, restano a casa e annunciano lo strappo criticando lo «scarso preavviso della convocazione» e ironizzando sul patto del Nazareno: «Facciamo tanti auguri a Renzi per gli incontri, sicuramente molto più approfonditi, che dedica a Berlusconi e Verdini».
C’è chi diserta e chi si fa sentire. Fassina chiede «correzioni profonde» alla delega del lavoro e la possibilità, per i cittadini, di scegliere «tutti i parlamentari». I renziani attaccano. Ma Bersani, contro i cento capilista bloccati, è categorico: «Perché dobbiamo andare avanti con i nominati?». Eppure, sul punto cruciale della delega del lavoro, cerca la chiave per conciliare «il dissenso di merito e la lealtà al Pd». E se il governo porrà la fiducia? «Non voglio crederlo».
Sul Jobs act piovono emendamenti: 15 su 550 portano le firme dell’ala sinistra, che chiede paletti anche su demansionamento, voucher e controlli a distanza e non vogliono votare il testo del Senato, quello che cambia lo Statuto dei lavoratori. «Aver messo al centro il tema dell’articolo 18 è stato un errore», attacca Bersani. «Vogliamo correzioni profonde», gli fa eco Fassina. Per scongiurare la fiducia si cerca una mediazione sul reintegro in caso di licenziamento disciplinare ingiusto, oggetto di uno degli emendamenti della minoranza «dem».
Il tentativo di uscire dai poteri di veto
di Sergio Fabbrini Il Sole 13.11.14
C'è una questione di sostanza e una di metodo, nel negoziato sulle
riforme tra Renzi e Berlusconi. Cominciamo dalla sostanza. L'Italia sta
aspettando dagli anni Ottanta del secolo scorso (e comunque dalla fine
della Guerra Fredda di 25 anni fa) la modernizzazione del proprio
sistema istituzionale.
C'è una consapevolezza largamente maggioritaria nel Paese che il nostro
sistema di governo deve migliorare le proprie capacità decisionali, così
da adeguarsi alla velocità con cui i problemi di politica pubblica si
impongono nell'agenda pubblica. Nessun Paese di dimensioni come le
nostre (per popolazione, per capacità produttive, per responsabilità
politiche) funziona secondo le logiche consensuali, protette dalla
diffusione di poteri di veto, che continuano a connotare il nostro
sistema di governo. Al di là delle forme costituzionali specifiche, la
Germania, la Francia e la Gran Bretagna sono dotate di governi capaci di
decidere, generalmente costituiti da uno o due partiti. Anche quando
danno vita a coalizioni (come attualmente in Germania), nessuno mette in
dubbio la capacità del cancelliere di avere l'ultima parola sulle
questioni cruciali. L'integrazione monetaria ha ulteriormente accentuato
l'esigenza di governi decidenti e controllati all'interno delle
democrazie europee. In questi Paesi, la modernizzazione delle
istituzioni di governo (formale, in Francia, o di fatto, in Gran
Bretagna) è un'attività costante, condivisa dalle élite politiche di
sinistra e di destra. Non è così in Italia. Non solamente continuiamo ad
avere istituzioni pensate per un Paese diviso dallo scontro ideologico
della guerra fredda, ma continuiamo a pensare che destra e sinistra
debbono dividersi anche relativamente alle caratteristiche che deve
assumere il comune sistema di governo.
Il cosiddetto patto del Nazareno, ribadito nell'incontro di ieri tra
Renzi e Berlusconi, costituisce uno dei pochi esempi positivi di accordo
tra leader politici per disegnare un nuovo sistema riconosciuto dai
loro rispettivi elettori. Solamente la faziosità di leader populisti ha
potuto portare alla denuncia di quel patto come di un "colpo di Stato",
denuncia quindi sottoposta alla magistratura (sfidando il senso del
ridicolo). Nella sostanza, insomma, il giudizio su Renzi e Berlusconi,
ed i loro rispettivi partiti, sarà commisurato alla loro capacità di
tenere fede all'impegno assunto di dare al Paese istituzioni più moderne
e funzionanti.
Ma nel patto c'è anche una questione di metodo. L'iniziativa del governo
Renzi testimonia che i leader politici non sono necessariamente
prigionieri del sistema di veti al cui interno agiscono. Fu un errore
assumere, come fece il precedente governo, che il Parlamento può
autoriformarsi. Le istituzioni non si cambiano con commissioni di
studio, ma con l'iniziativa politica. Anche se certamente quest'ultima
(come è avvenuto con il governo Renzi) potrà essere ancora più efficace
se sostenuta da alcuni dei risultati di quelle commissioni di studio.
Tutte le esperienze di cambiamento istituzionale nelle democrazie sono
state l'esito della pressione di attori politici esterni a quelle
istituzioni. È bene dunque che il governo Renzi continui ad essere il
promotore della riforma, senza subire gli stanchi riti consensuali della
politica italiana. Tutti debbono poter contribuire alla discussione,
nessuno deve avere però il diritto di veto sulle decisioni che emergono
da quella discussione. Il governo deve aprirsi e contemporaneamente
andare avanti, proprio perché si è impegnato a dare agli elettori
l'ultima parola, convocando un referendum anche se non dovuto. Nello
stesso tempo, l'iniziativa del governo sulle riforme istituzionali deve
procedere di pari passo con l'iniziativa sulle riforme economiche. La
legge delega per la riforma del mercato del lavoro deve essere coerente
con l'impegno di aprire quest'ultimo, oltre che di ridurre la precarietà
ingiustificata che lo connota. Allo stesso tempo, il governo deve
proteggere la sua Legge di stabilità dall'assalto alla diligenza che ha
caratterizzato il processo di approvazione delle precedenti leggi
finanziarie. La riforma istituzionale e la riforma economica potranno
procedere insieme solamente se il governo si dimostrerà in grado di
avere l'iniziativa, di tenere il controllo dell'agenda, di opporsi ai
particolarismi partitici e funzionali. Occorre cioè prefigurare,
attraverso la politica delle riforme, il sistema decisionale che si
vuole promuovere in Italia. Il governo deve assumersi le responsabilità
delle sue scelte, l'opposizione deve contrapporne altre, gli elettori
decideranno sui risultati o non risultati conseguiti. Il sistema
politico ed economico vanno semplificati e liberati dai barocchismi che
li soffocano. Le regole debbono essere poche e chiare. Soprattutto
debbono garantire la competizione in politica e nel mercato. La
democrazia muore là dove vi sono monopoli politici ed economici. La
lotta ai trusts e ai poteri di veto deve diventare la cifra culturale
del riformismo di governo.
Perchè Berlusconi ha scelto di perdere
L’ex Cavaliere accetta una nuova architettura dell’Italicum e ora deve placare il disagio di Fi
di Stefano Folli Repubblica 13.11.14
Sul premio alla lista finale già scritto Renzi riduce Silvio a comprimario
AVOLERLO leggere con attenzione, il comunicato finale sottoscritto da
Renzi e Berlusconi è più esplicito di quanto sembri. È tutto costruito
per spiegare l’accordo politico sulla legge elettorale, di cui
addirittura si annuncia il passaggio in aula al Senato entro la fine
dell’anno. Dentro la cornice dell’intesa, si lascia un paragrafo sui
punti di dissenso: soglia minima e premio alla lista.
Per paradosso sono proprio questi due punti a dimostrare che Berlusconi
ha accettato quasi tutto, al di là della propaganda del giorno dopo. Di
solito infatti le divergenze di merito finiscono per prevalere sulla
dichiarata sintonia nel metodo. Ma non in questo caso. E si capisce. Sul
«quorum» delle liste minori (il 3 oppure il 4 o magari il 5 per cento)
c’è, sì, una differenza fra Renzi e il suo alleato: non tale, tuttavia,
da far traballare l’impianto della legge. Sarà facile nelle prossime
settimane, meglio se in Parlamento, trovare una sintesi, ossia un
compromesso. In fondo non è un caso che lo stesso Alfano si sia
dichiarato soddisfatto dell’incontro di Palazzo Chigi.
Viceversa, l’altro punto è strategico: non è un «distinguo » di poco
conto stabilire se il premio di maggioranza deve essere dato alla lista o
alla coalizione. Costituisce anzi lo snodo fondamentale che regge tutta
la legge nella nuova versione che Renzi ha offerto, o meglio ha imposto
al suo interlocutore. Su questo, se Berlusconi non era d’accordo, c’era
solo una risposta possibile: la rottura netta e definitiva. Non è un
dettaglio che si aggiusta nell’aula del Senato, bensì la prova che
l’intera architettura della legge è stata modificata dal
premier-segretario rispetto al vecchio Italicum. Quindi prendere o
lasciare.
Brunetta nei giorni scorsi aveva colto nel segno quando dichiarava che
la legge era stata stravolta e perciò Forza Italia non doveva votarla.
Ma Brunetta ha suscitato il disappunto del capo e si capisce perché: la
linea del vecchio leader non è mai stata la spaccatura, bensì la
sostanziale copertura delle posizioni «renziane». Per cui la spina
dorsale della nuova legge (il premio di maggioranza non più alla
coalizione bensì al singolo partito vincitore) viene accettata dal
centrodestra; e la divergenza strategica, quella che condannerà il
gruppo berlusconiano a essere la terza o forse la quarta forza politica
del paese, è derubricata al rango di piccolo particolare destinato a
essere chiarito nel corso del dibattito in Parlamento.
In altre parole, Berlusconi ha detto «sì» e semmai con il comunicato di
ieri sera ha cercato di tenere a bada i malumori dei suoi. Come dire:
tranquilli, non è finita, il confronto- scontro continua, però voi
fidatevi di me. La realtà è un po’ diversa. La giornata ha avuto un
vincitore ed è Renzi. Nell’altro accampamento, quello del centrodestra,
c’è un comprimario che subisce la personalità del premier e fa di
necessità virtù, per una serie di ragioni che non sono tutte attinenti
alla politica. Ne deriva che Berlusconi deve farsi piacere una legge
elettorale che fino a pochi anni fa avrebbe respinto, essendo la meno
adatta a ricompattare il centrodestra.
Tutto questo non significa che la nuova norma avrà senz’altro vita
facile in Parlamento. Dissidenti ce ne sono nel centrosinistra come nel
centrodestra. E i sussulti della minoranza del Pd, contraria ai
capilista indicati dalle segreterie dei partiti, lo testimonia. Ma siamo
in un campo che permette comunque un certo margine negoziale, sia a
Renzi sia a Berlusconi. Ci potranno essere dei ritardi, ma il carro
della riforma si è rimesso in moto. E a confermarlo arriva quell’accenno
alla revisione costituzionale del Senato da approvare in seconda
lettura entro gennaio. Come dire che l’annuncio del prossimo addio di
Napolitano è servito a scuotere l’albero dell’inerzia.
Patto diseguale e tante trappole
L’accordo sopravvive nel segno del premier
di Massimo Franco Corriere 13.11.14
Dopo l’incontro Renzi-Berlusconi conferma la tenuta non tanto del patto
del Nazareno ma di quello raggiunto 3 giorni fa tra premier e alleati
minori. Il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso.
Più del comunicato congiunto di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi dopo il
loro vertice sulla riforma elettorale, ieri hanno colpito le parole
abrasive del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Volentieri vorrei
che cedessimo a qualcun altro», ha detto con una punta di ironia, «il
record mondiale di caduta dei governi». Ha tutta l’aria di un altolà
implicito ad una crisi dell’esecutivo e ad elezioni anticipate. Sembra
la conferma che il capo dello Stato ha deciso di esorcizzare questa
prospettiva anche lasciando trapelare l’intenzione di chiudere il suo
mandato all’inizio del 2015. Si tratta appena di un inciso, incorniciato
dal discorso sull’Expo di Milano tenuto al Quirinale. Ma pesa su uno
sfondo di tensione tra e dentro i partiti: di maggioranza e di
opposizione. E si trasforma nell’ennesimo monito ad una classe politica
che sbanda tra accordi e minacce di rottura, osservata con diffidenza
dall’Unione Europea. Il fatto che ieri la minoranza del Pd abbia deciso
di disertare la riunione della Direzione in polemica col
segretario-premier indica un malessere persistente; e destinato a
riaffiorare nel momento in cui l’arma delle elezioni anticipate si sta
spuntando nelle mani di Renzi. È una fronda che si rispecchia anche
nelle modifiche chieste da alcuni senatori del Pd sulla riforma della
Camera «alta».
Ma si tratta di scarti che non indeboliscono le critiche del presidente
del Consiglio ad un Berlusconi accusato di non avere dietro tutte le sue
truppe parlamentari. A sinistra rimane un’area di dissenso coriacea,
che trova una sponda nella Cgil che conferma lo sciopero generale per il
5 dicembre. Eppure, per quanto esposto al conflitto anche sul piano
sociale, il governo va avanti. La tendenza è a considerare i dissensi
qualcosa di facilmente superabile. E infatti il 18 novembre la riforma
elettorale emersa dal vertice di maggioranza dell’altro giorno comincerà
ad essere discussa nella Commissione affari costituzionali. Relatrice:
la presidente Anna Finocchiaro.
Rimane da capire quale sistema alla fine emergerà. E soprattutto, se
davvero si farà in tempo ad approvare la legge al Senato entro fine
anno. A definirlo «impossibile» è il leghista Roberto Calderoli, che
mette davanti l’esigenza di approvare i provvedimenti economici. Ma la
nota diffusa dopo un’ora e mezzo di colloquio tra Renzi e il
sottosegretario Lotti da una parte, e Berlusconi, Gianni Letta e Denis
Verdini dall’altra, conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno
ma di quello raggiunto tre giorni fa tra il premier e i suoi alleati
minori. E rafforza il premier.
Berlusconi ha ottenuto cento capilista bloccati, certo. Ma sbatte contro
il limite di accesso in Parlamento al 3 per cento, imposto dai
partitini. E il premio in seggi al partito maggiore o alla coalizione
rimane in bilico. Sostenere che «l’impianto del patto è più che mai
solido, nonostante le differenze», come recita il comunicato congiunto,
sa di verità d’ufficio. E non riesce a coprire la sconfitta del leader
del centrodestra. La legislatura «dovrà proseguire fino al 2018»,
concordano i «pattisti». Ma il rapporto ineguale tra i contraenti è
vistoso. La legislatura continuerà nel segno di Renzi. Berlusconi può
solo inseguire. In affanno.
Il leader: Silvio ci seguirà. Vuole stare al tavolo anche nella partita del Colle
«Ognuno ha messo i suoi ingredienti. Ora tutti spingono il carrello»
Corriere 13.11.14
ROMA A sera, dopo l’incontro con la delegazione di Forza Italia
capeggiata da Silvio Berlusconi, Matteo Renzi ha il tempo di rilassarsi
un poco con i suoi, prima di prepararsi ad affrontare la riunione della
Direzione del suo partito.
Nello staff del presidente del Consiglio circola questa battuta,
piuttosto cruda, ma che spiega con una certa efficacia la situazione: «È
come se fossimo in un supermercato con il nostro carrello. Ci abbiamo
messo il 3 per cento per Alfano, i capilista bloccati per Berlusconi e
adesso tutti spingono quel carrello. E questo era quello che ci
interessava». Detta così, forse, suona un po’ brutale, ma piuttosto
realistica. Perché se è vero che l’ex Cavaliere ieri ha detto «no» al 3
per cento e al premio di lista, è anche vero, come ha spiegato ai
collaboratori e ai fedelissimi il premier, che «ci ha assicurato che non
farà imboscate e che garantirà che i tempi vengano rispettati».
«Del resto — ha aggiunto Renzi — nessuno si aspettava che ci dicesse di
sì, non poteva farlo, dopo aver ricompattato il suo partito, altrimenti
Forza Italia si sarebbe nuovamente divisa e Fitto sarebbe tornato alla
carica. Insomma, immaginare che Berlusconi fosse disponibile a darci di
più era francamente impossibile, ma va bene così». Il presidente del
Consiglio è soddisfatto, non dispera di ottenere qualcosina di più
durante l’iter parlamentare, ma anche se ciò non dovesse accadere,
pazienza. È riuscito a fare un accordo con la sua maggioranza di governo
sul premio alla lista (cosa a cui teneva sopra ogni altra cosa, perché è
il bipartitismo, in realtà, l’obiettivo finale a cui tende Renzi) e nel
contempo non ha provocato la rottura del patto del Nazareno, anche se
quell’intesa si è andata modificando nel tempo.
«Non dimentichiamoci — ha spiegato ancora ai suoi il premier — che
Berlusconi ci ha anche promesso che andrà avanti con noi sulla riforma
del Senato, che non si sfilerà e pure questo è un punto molto
importante». Dunque «si può procedere celermente, secondo i tempi
stabiliti, senza rinvii e stoppando qualsiasi tattica dilatoria, cosa
che era il nostro primo obiettivo».
Per il resto, il premier non è preoccupato per il fatto che Fi voterà a
favore solo di determinati punti della riforma elettorale. Sa che sulla
soglia del 3 per cento i voti saranno molti di più di quelli dello
stretto confine della maggioranza di governo. Per esempio, perché Sel e
Fratelli d’Italia dovrebbero dire «no» a uno sbarramento che consente a
queste due forze politiche di presentarsi da sole? Quanto al premio di
lista, il premier ritene di non avere problemi nemmeno su quel fronte. È
convinto che su quel punto il suo partito sarà compatto e che qualche
apporto potrebbe venire anche dai banchi dell’opposizione.
Per farla breve, il premier è convinto che la riforma elettorale «verrà
approvata entro la fine dell’anno al Senato ed entro febbraio del 2015
alla Camera». Ma non ostenta un po’ troppa sicurezza il presidente del
Consiglio? Una fetta della minoranza del Partito democratico potrebbe
dargli del filo da torcere al Senato: «Già, ma questa volta — ha
spiegato ai più stretti collaboratori — dovranno farlo con il voto
palese, mettendoci la faccia e assumendosi le loro responsabilità».
Inclusa quella di far fallire una delle riforme che Giorgio Napolitano
aveva posto come condizione per accettare il suo secondo mandato.
Renzi, che non è certo un ingenuo, sa bene che sia nel Pd che dentro
Forza Italia c’era e c’è chi vuole mandare all’aria tutto e le mosse del
vertice di maggioranza di lunedì e dell’incontro di ieri con comunicato
incorporato sono servite proprio a sventare queste manovre. Come sa,
perché l’ex Cavaliere glielo ha confermato ieri, che Berlusconi vuole
stare al tavolo in cui si deciderà la successione a Napolitano: «Lui —
ha spiegato ai suoi — mi ha detto di avere tutto l’interesse a essere
dentro questa partita». Nei corridoi di Montecitorio, dopo
quell’incontro, circola voce che questo sia l’assillo di Berlusconi.
Motivo in più perché il leader di Fi non rompa il patto. Motivo in più
perché Renzi si senta sufficientemente tranquillo.
Il nuovo linguaggio che divide la sinistra
di Massimo Nava Corriere 13.11.14
L’effetto più evidente di polemiche e contrapposizioni fra Matteo Renzi e la coppia sindacale Landini-Camusso, è di avere aperto negli ambiti più diversi — partito, sindacato, elettori Pd, intellettuali, giornali — una riflessione su che cosa sia oggi la sinistra, o meglio, su che cosa voglia dire fare (o poter fare) cose di sinistra, rispetto alla crisi del Paese e in rapporto al quadro di trattati e politiche europee.
Se l’effetto fosse solo questo, la riflessione, per quanto lacerante, si potrebbe rivelare utile, sia per il governo che deve prendere decisioni continuando a dichiararsi «di sinistra» e appartenente alla grande famiglia riformista, sia per il sindacato e per la minoranza pd che intravedono nella scelte del presidente Renzi una sorta di diluizione di ideali e soprattutto troppe dimenticanze sui bisogni dei ceti più deboli.
Ciò che si vede meno e che rischia di avere effetti più sgradevoli, non solo per la sinistra, è una sorta di strisciante rivoluzione del linguaggio con cui si tendono a definire valori, categorie sociali, classi di età, diritti. Il nuovo linguaggio divide con una certa interessata disinvoltura ciò che è sinonimo di giovane o di vecchio, di moderno o di antico, di conservatore o progressista. Lentamente, si tende a condizionare la morale corrente, definendo anche ciò che è buono, onesto, utile per il Paese.
Giustamente, come ha detto ironicamente Renzi, a nessuno verrebbe in mente di infilare un gettone nell’iPhone, ma possiamo provare a definire un po’ più nel merito il concetto di modernità? È di sicuro moderna una politica che informatizzi la burocrazia, diffonda la banda larga, semplifichi la fiscalità, riformi istituzioni obsolete come il Senato. Ma è sinonimo di modernità ridurre diritti conquistati in decenni, tagliare pensioni finanziate con i contributi, tassare fondi alimentati dai risparmi e, in ultima analisi, definire il tutto come sacrificio «necessario» e la critica come una difesa del «privilegio»?
Ha senso alimentare, anziché la solidarietà fra generazioni, una sorta di conflitto generazionale che ha per conseguenza, praticamente in ogni ambito sociale e di lavoro un’esaltazione del giovane (che per forza è quindi anche «moderno») rispetto alla inutilità dell’esperienza e alla necessaria rottamazione di ogni forma di vecchiaia?
È possibile, poiché potrebbe essere considerata un’operazione di modernità, che di questo passo si passi all’attacco della sanità pubblica, confondendo sacrosante esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa con l’erogazione di servizi e diritti.
Già si sente teorizzare il concetto di vecchiaia come «costo sociale»: ne consegue che l’allungamento della vita non è una conquista moderna della medicina e del progresso, bensì un privilegio dell’Occidente e dei ceti più benestanti che potranno permettersi cure private e pensioni elevate.
Esempi del genere si potrebbero fare anche guardando all’Europa. Anche un bambino, che normalmente non ha una grande padronanza del linguaggio, oggi comprende che le parole usate per definire le politiche europee di questi anni raccontano un’Europa che esiste soltanto nella fantasia dei dépliant o nella testa di alcuni burocrati, per lo più residenti a Berlino e Bruxelles.
Con il termine «austerità» si sono autorizzate e imposte le politiche più rovinose e sciagurate, salvo poi esaltare in corsa la «crescita» che non c’è e non potrà mai esserci con queste politiche monetarie, con queste regole, con questa «modernità» di un’Europa che appare invece molto più vecchia, finendo oggi per assomigliare a quella degli Stati nazionali in conflitto, dei potentati finanziari, delle mire espansionistiche e di dominio del Paese più forte. Esempi di stravolgimento del significato delle parole, meno comprensibili ai più, ma ben noti a tecnici e addetti ai lavori, si potrebbero fare quando vengono definiti Paesi «virtuosi» quelli che hanno imposto lacrime e sangue ai cittadini senza essere usciti dalla crisi e aggravando il proprio debito pubblico. Oppure quando si prendono per oro colato le valutazioni delle agenzie di rating, ossia la «moderna» versione degli editti imperiali o delle bolle papali cui sono obbligati a uniformarsi le comunità, i fedeli, i sudditi.
Può sembrare banale l’auspicio a chiamare le cose con il loro nome e a dare alle parole il loro corretto significato. Di certo, continuando a fare confusione, si rischiano soltanto contrapposizioni sterili, con il risultato che nessuno comprenda (e tantomeno condivida) il significato della parola cambiamento.
di Massimo Nava Corriere 13.11.14
L’effetto più evidente di polemiche e contrapposizioni fra Matteo Renzi e la coppia sindacale Landini-Camusso, è di avere aperto negli ambiti più diversi — partito, sindacato, elettori Pd, intellettuali, giornali — una riflessione su che cosa sia oggi la sinistra, o meglio, su che cosa voglia dire fare (o poter fare) cose di sinistra, rispetto alla crisi del Paese e in rapporto al quadro di trattati e politiche europee.
Se l’effetto fosse solo questo, la riflessione, per quanto lacerante, si potrebbe rivelare utile, sia per il governo che deve prendere decisioni continuando a dichiararsi «di sinistra» e appartenente alla grande famiglia riformista, sia per il sindacato e per la minoranza pd che intravedono nella scelte del presidente Renzi una sorta di diluizione di ideali e soprattutto troppe dimenticanze sui bisogni dei ceti più deboli.
Ciò che si vede meno e che rischia di avere effetti più sgradevoli, non solo per la sinistra, è una sorta di strisciante rivoluzione del linguaggio con cui si tendono a definire valori, categorie sociali, classi di età, diritti. Il nuovo linguaggio divide con una certa interessata disinvoltura ciò che è sinonimo di giovane o di vecchio, di moderno o di antico, di conservatore o progressista. Lentamente, si tende a condizionare la morale corrente, definendo anche ciò che è buono, onesto, utile per il Paese.
Giustamente, come ha detto ironicamente Renzi, a nessuno verrebbe in mente di infilare un gettone nell’iPhone, ma possiamo provare a definire un po’ più nel merito il concetto di modernità? È di sicuro moderna una politica che informatizzi la burocrazia, diffonda la banda larga, semplifichi la fiscalità, riformi istituzioni obsolete come il Senato. Ma è sinonimo di modernità ridurre diritti conquistati in decenni, tagliare pensioni finanziate con i contributi, tassare fondi alimentati dai risparmi e, in ultima analisi, definire il tutto come sacrificio «necessario» e la critica come una difesa del «privilegio»?
Ha senso alimentare, anziché la solidarietà fra generazioni, una sorta di conflitto generazionale che ha per conseguenza, praticamente in ogni ambito sociale e di lavoro un’esaltazione del giovane (che per forza è quindi anche «moderno») rispetto alla inutilità dell’esperienza e alla necessaria rottamazione di ogni forma di vecchiaia?
È possibile, poiché potrebbe essere considerata un’operazione di modernità, che di questo passo si passi all’attacco della sanità pubblica, confondendo sacrosante esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa con l’erogazione di servizi e diritti.
Già si sente teorizzare il concetto di vecchiaia come «costo sociale»: ne consegue che l’allungamento della vita non è una conquista moderna della medicina e del progresso, bensì un privilegio dell’Occidente e dei ceti più benestanti che potranno permettersi cure private e pensioni elevate.
Esempi del genere si potrebbero fare anche guardando all’Europa. Anche un bambino, che normalmente non ha una grande padronanza del linguaggio, oggi comprende che le parole usate per definire le politiche europee di questi anni raccontano un’Europa che esiste soltanto nella fantasia dei dépliant o nella testa di alcuni burocrati, per lo più residenti a Berlino e Bruxelles.
Con il termine «austerità» si sono autorizzate e imposte le politiche più rovinose e sciagurate, salvo poi esaltare in corsa la «crescita» che non c’è e non potrà mai esserci con queste politiche monetarie, con queste regole, con questa «modernità» di un’Europa che appare invece molto più vecchia, finendo oggi per assomigliare a quella degli Stati nazionali in conflitto, dei potentati finanziari, delle mire espansionistiche e di dominio del Paese più forte. Esempi di stravolgimento del significato delle parole, meno comprensibili ai più, ma ben noti a tecnici e addetti ai lavori, si potrebbero fare quando vengono definiti Paesi «virtuosi» quelli che hanno imposto lacrime e sangue ai cittadini senza essere usciti dalla crisi e aggravando il proprio debito pubblico. Oppure quando si prendono per oro colato le valutazioni delle agenzie di rating, ossia la «moderna» versione degli editti imperiali o delle bolle papali cui sono obbligati a uniformarsi le comunità, i fedeli, i sudditi.
Può sembrare banale l’auspicio a chiamare le cose con il loro nome e a dare alle parole il loro corretto significato. Di certo, continuando a fare confusione, si rischiano soltanto contrapposizioni sterili, con il risultato che nessuno comprenda (e tantomeno condivida) il significato della parola cambiamento.
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