martedì 18 novembre 2014

Alle elezioni la sfida è Salvini-Grillo, mentre sarebbe Boccia il coordinatore della sinistra PD. Allegria



Le elezioni di “midterm” un test per Renzi e per la tenuta del suo governo

Se Salvini sconfiggerà Grillo, il voto regionale risolverà alcuni problemi al premier ma gliene creerà di nuovi

di Stefano Folli Repubblica 18.11.14

ILNOVEMBREd i Renzi non è fatto solo di alluvioni, screzi sulla riforma del lavoro, rivolta nelle periferie e qualche passo indietro nei sondaggi. C’è anche un miniappuntamento elettorale domenica prossima che è quasi un “midterm” nostrano, sia pure molto circoscritto.
Si vota come è noto in Emilia Romagna e in Calabria, due segmenti significativi dell’Italia di oggi. Troppo poco, certo, per confermare o smentire la mappa politica emersa nelle elezioni europee di maggio. Ma abbastanza per richiamare l’attenzione del premier di ritorno dall’Australia. Ovvio che la tendenza all’espansione dei consensi prima o poi doveva arrestarsi e in fondo le percentuali di Renzi restano alte, grazie anche all’assenza di alternative. Tuttavia l’impressione è che l’opinione pubblica, a questo punto, abbia voglia di vederci chiaro nel fenomeno politico del 2014.
Il giudizio sul personaggio diventa più maturo, meno condizionato dal dinamismo mediatico. E le difficoltà dell’autunno, in qualche caso più drammatiche del previsto, servono a misurare meglio i fatti del governo dopo le parole. Renzi sa che la prima fase del suo mandato si è esaurita per sempre. Ma proprio per questo ha bisogno di verificare il rapporto con gli elettori. Le regionali in Emilia Romagna e Calabria arrivano al momento opportuno: non sono un “test” troppo rischioso, ma nemmeno irrilevante. Vincere, e vincere bene, può rappresentare il modo migliore per proiettarsi con fiducia verso le scadenze di fine anno.
D’altra parte, le polemiche con le autorità regionali sulle cause del dissesto territoriale dicono molto circa la fragilità della situazione. Il successo di Renzi nei primi mesi di governo è stato rapido e impetuoso, ma può incrinarsi quasi alla stessa velocità. Chissà se il presidente del Consiglio si è ricordato in questi giorni delle altalenanti fortune di un ottimo riformatore come Gerhard Schroeder, che nel 2002 fu rieletto cancelliere in Germania anche in virtù del modo serio e tempestivo con cui affrontò le inondazioni di quell’anno, mettendo proprio i piedi nell’acqua, ma nel 2005 non seppe gestire con la stessa serietà un’analoga emergenza e ne pagò le conseguenze. In altre parole, a Renzi serve qualche risultato tangibile, che non sia solo l’arabesco infinito del patto con Berlusconi. Ma serve anche un conforto elettorale. E l’unico possibile passa oggi da Bologna e Reggio Calabria. Due regioni dove il centrosinistra è atteso domenica alla vittoria, ma poi si tratterà di valutare le cifre e il merito dell’affermazione.
La Calabria, dopo l’inquietante tramonto della giunta Scopelliti, dovrebbe aggiungersi con agio al conto delle regioni governate dal centrosinistra. Per Renzi sarà una notizia da valorizzare con la dovuta enfasi, visto che fino a pochi mesi fa non era scontata. Del resto, il centrodestra è diviso e i nomi presentati non proprio di primo piano. I grillini non incidono e la nuova Lega non è ancora arrivata così a Sud.
Quanto all’Emilia Romagna, il discorso è più complicato. S’intende che il candidato del Pd, Bonaccini, è favorito. Ma sarà interessante contare i voti e misurare il peso dell’astensione. Se c’è una parte d’Italia dove i quadri del partito tradizionale, il partito per cui Livia Turco piange in tv, sono ancora solidi, quella è l’Emilia Romagna. E se c’è un pezzo d’Italia centrale in cui Salvini può fare le prove generali per superare Berlusconi e dare legittimità alla sua ambizione di guidare l’intero centrodestra, esso ha ancora i contorni della regione “rossa”. Lunedì potrebbe essere proprio Salvini la figura che si pone in prospettiva come alternativa al centrosinistra. Soprattutto se, come è plausibile, avrà sconfitto Grillo ed ereditato una fetta consistente dei suoi consensi. Come dire che il piccolo “midterm” risolverà alcuni problemi a Renzi, ma gliene creerà di nuovi.



Così Renzi e Bersani ora siglano la pace sul nuovo Jobs act
Le assicurazioni dell’ex segretario sulla fiducia hanno riaperto i contatti tra i due “avversari”. Sullo sfondo la partita del Quirinale

di Goffredo De Marchis Repubblica 18.11.14

ROMA La battuta su Mediaset come vero obbiettivo da salvare attraverso il patto del Nazareno era davvero solo una battuta. Certo, l’accusa di intelligenza col nemico non è mai indolore. Ma in realtà un dialogo tra Matteo Renzi e l’area che gravita intorno a Bersani esiste e produce qualche risultato a cominciare dalle modifiche al Jobs Act. L’ex segretario ha detto chiaramente a Milano, all’assemblea di Area Riformista, che non sono ammesse derive di tipo sfascista dentro al Pd: «Noi voteremo la fiducia, questo governo è il nostro governo, il Pd è anche il nostro partito». Parole che non solo escludono la scissione ma segnano la distanza da un’ala sinistra molto più radicale nella sua lotta al segretario rappresentata da Pippo Civati, Stefano Fassina e Gianni Cuperlo, quest’ultimo plasticamente non invitato alla riunione milanese.
Il punto più basso dei rapporti tra Renzi e Bersani, nella loro lunga storia conflittuale, è stato toccato alla Leopolda. Quando il premier aveva praticamente invitato i dissidenti ad andarsene dal Partito democratico. «Non vogliamo un partito di reduci, non restituiremo il Pd del 41 per cento a quelli che hanno preso il 25». Boato della sala e tutti hanno pensato a Bersani. Da quel giorno, tre settimane fa, i due fronti hanno fatto dei passi di riavvicinamento. Il premier, in particolare. Voleva a tutti i costi confermare il testo della riforma del lavoro uscito dal Senato col voto di fiducia e invece ha fatto retromarcia accettando la mediazione dei bersaniani Guglielmo Epifani, Cesare Damiano e del capogruppo del Pd Roberto Speranza. Una “concessione” meditata e che punta a vari bersagli. Per iniziare, l’approvazione del Jobs Act senza una spaccatura dirompente del Pd. Un tentativo di dividere la minoranza tra dialoganti e oltranzisti. Dividere amici e avversari è uno dei suoi “sport” preferiti. In prospettiva, last but not least, stringere un’alleanza con un pezzo del partito per le elezione del nuovo capo dello Stato, la grande partita del prossimo anno. «E noi, tutti insieme, siamo molto più di 101», fa notare maliziosamente un bersaniano evocando la bocciatura di Romano Prodi che fu anche la fine della segreteria Bersani. E molti di più dei parlamentari rimasti a Silvio Berlusconi, questo è il messaggio.
La minoranza prova a rimanere unita per avere più forza. Francesco Boccia, che in questa fase viene visto a Palazzo Chigi come un pericolo serio per il suo ruolo chiave di presidente della commissione Bilancio di Montecitorio e per le sue capacità sui conti pubblici, da settimane dice che serve un «coordinamento politico» degli oppositori interni di Renzi. Altrimenti ci si condanna all’irrilevanza. Ma il fronte fatica a trovare una via comune e di conseguenza un leader riconosciuto. Oggi c’è un nuovo tentativo di unità con la presentazione di otto emendamenti alla legge di stabilità firmati da Alfredo D’Attorre, bersaniano, Fassina, Cuperlo, Civati e bindiani. «Emendamenti condivisibili, alcuni dei quali perfettamente in linea con le nostre tesi», dice Speranza. Ma il capogruppo non crede ai messaggi del “no a tutti i costi”. «Ho detto in faccia a Renzi che io punto a creare un’alternativa al renzismo. Ma dentro al Pd. E non facendo cadere il governo », sottolinea Speranza. Il capogruppo e i bersaniani non possono del resto non rivendicare il successo del cambio di strategia di Renzi sul Jobs Act. «È Renzi che sta cambiando verso nei rapporti con noi - fa notare D’Attorre -. Ma questo non indebolisce la nostra battaglia. Sul lavoro confermiamo che non saremmo intervenuti sull’articolo 18 e sull’Italicum non accettiamo un Parlamento che sarebbe composto in larghissima parte da nominati. Oltre che la fretta di approvarlo che genera il sospetto di un voto anticipato ». Ma un’altra fetta della minoranza continua a immaginare il no alla fiducia sul Jobs Act. Cuperlo sostiene che le modifiche non bastano, non esclude categoricamente la scissione e alcuni vedono dietro di lui la mano di Massimo D’Alema, certamente il più feroce dei critici del premier. Così è difficile comporre il quadro di una minoranza unita, davvero compatta su una sola linea politica da seguire nei confronti di Renzi. E in grado di farlo scivolare.


Un coordinamento delle minoranze L’invito di Boccia raccoglie consensi

di Monica Guerzoni 

Corriere 18.11.14

ROMA «Il carro di Renzi è stracolmo e io sono l’unico che ne è sceso...». Con lo stesso balzo con cui ha lasciato la maggioranza del Partito democratico per sistemarsi all’opposizione, Francesco Boccia è passato dal ruolo di ala destra a quello di «mister» dell’ala sinistra. La lealtà al governo, giura, non è in discussione, ma il presidente della commissione Bilancio lavora per mettere su un «carretto» nuovo. Una squadretta di outsider della minoranza che possa un giorno affrontare sul campo la nazionale renziana.
Il sogno è ambizioso e Boccia lo sa. Ma poiché non gli sono sfuggiti i sondaggi che danno il premier in crisi, sente che il momento è questo. Sull’ Huffington Post ha lanciato un appello ai compagni spronandoli a unire le forze in un «coordinamento dei non renziani». Oggi il debutto: una conferenza stampa per presentare gli otto emendamenti congiunti alla legge di Stabilità scritti da Fassina e firmati, tra gli altri, da Cuperlo, D’Attorre, Civati, Zoggia e dalla bindiana Margherita Miotto. Quello sugli 80 euro sembra studiato per agganciare Sinistra e libertà e, spera Boccia, persino grillini e leghisti.
«Apriamo il cantiere della nuova sinistra pd», sprona Barbara Pollastrini. «I gufi aprono le ali...», è la sintesi di Civati. E anche Rosy Bindi ricorre alla metafora ornitologica cara al premier: «Chi pone alcune questioni non è un gufo, è solo più in sintonia con quella parte di Paese reale che non si sente accolta dal Pd». Quella parte di Paese, Boccia la chiama sinistra. Proprio lui che — gli ricorda la moglie Nunzia De Girolamo quando ha voglia di sfotterlo — «un tempo era la destra del Pd e adesso, miracoli di Renzi, si trova dalla parte opposta». Francesco ci ride su e spiega il paradosso: «Non è una cosa così strana, con il Pd che si è messo a guardare a destra. Un partito che si rifiuta di tassare le multinazionali del web e che non va nelle periferie, né fisicamente, né con le politiche redistributive di Fassina...». La convention di sabato a Milano ha segnato l’avvicinamento di Area riformista a Renzi e la domanda che molti si fanno è: da che parte sta Bersani? «Pier Luigi sa quanto gli voglio bene, magari è entrato in maggioranza a sua insaputa», risponde Boccia. «Battuta affettuosa» per ricordare come Cuperlo non sia stato invitato dalla corrente che lo votò alle primarie. «Sono passati con Renzi, come i turchi di Orfini — è la lettura di Boccia —. Io non li critico, ma non pensino che il nostro è un mondo frammentato e di solisti». Davide Zoggia sogna in grande e vede una «prateria» per quella sinistra che non ha voglia di cedere alla «omologazione totale» e che si prepara ad aprire il fronte del congresso anticipato. «È indispensabile un momento di confronto con le primarie», incalza D’Attorre. Certo, ci vorrebbe un leader... L’identikit di Zoggia porta dritto a Nicola Zingaretti, il quale avrebbe in agenda diverse iniziative a carattere nazionale.


Boccia “Discussione surreale, il mondo va altrove”
intervista di Luisa Grion Repubblica 18.11.14
ROMA . «E’ tutto sbagliato, la discussione è sbagliata fin dall’inizio. L’economia sta vivendo il momento più drammatico dalla rivoluzione industriale in poi e noi ci interroghiamo, ci dividiamo, mediamo e poi ci dividiamo ancora sull’articolo 18? Questo è un incubo, per favore svegliamoci». Francesco Boccia, Pd, è il presidente della commissione Bilancio della Camera e ha votato «no» al testo emanato alla direzione del suo partito, frutto della mediazione fra minoranza e maggioranza su quelli che saranno i licenziamenti e i reintegri al lavoro nel Jobs act.
Avendo votato no il destino di quel testo le è indifferente?
«E’ una questione di dignità, la dignità del Pd. Per salvarla il documento votato in direzione dovrà entrare così com’è alla Camera. Se così non sarà, se Sacconi riuscirà a far valere la sua interpretazione vorrà dire che sarà contento lui e sarà contenta la destra. Io invece sarò molto arrabbiato e mi chiederò cosa ne sarà di questo partito, o meglio, lo chiederò a Renzi».
Quindi difende la mediazione?
« Si tratta di evitare una sconfitta nella sconfitta, ma quel testo è sbagliato, anzi è tutto
sbagliato».
Partiamo dall’inizio.
«Stiamo vivendo il periodo più difficile nella storia del capitalismo. Saltano i confini degli Stati nazionali, la ricchezza si concentra negli Stati Uniti e in Cina. Due aziende da sole -Amazon e Google - valgono tanto quanto tutta la Borsa di Milano. Dieci multinazionali capitalizzano duemila milardi, muovono e governano due miliardi di persone, incidono sulla diplomazia ai massimi livelli, fino al G20. E noi ci interroghiamo sull’articolo 18? » Secondo una parte del suo partito è il retaggio di un mondo del lavoro che non c’è più.
«E’ un modo vecchio di concepire la politica. Pensiamo davvero che limitare ulteriormente l’articolo 18 oltre quanto già previsto dalla legge Fornero possa, nel mondo di cui parlavo prima, rilanciare l’economia? Tanto più che lo ha detto Poletti - il Jobsc act è a saldo zero: ciò vuol dire che per ogni euro che spendi ne deve entrare un altro. E’ così che pensiamo di estendere le tutele?».
Lei cosa propone?
«Comincerei con il far sì che Amazon e Google paghino le tasse nei paesi dove operano, per esempio. Sicuramente sarebbe meglio recuperare risorse in questo modo che scannarci per poche centinaia di milioni sugli ammortizzatori sociali, o restare appesi alle diatribe sul lavoro fra Damiano da una parte e Sacconi dall’altra».
Renzi non le ha già risposto che su queste tassazioni deve decidere l’Europa?
«Ma io non sono per il pensiero unico, quello al quale la maggioranza del mio partito si sta adeguando. Ora chi fa ragionamenti più complessi di quanto riescono a contenere i tweet a 140 caratteri è considerato un conservatore. Ma io non ci sto, sono per il pensiero lungo e spero, prima o poi, di essere ascoltato».

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