di Luciano Gallino Repubblica 18.11.14
UNO
dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la
liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro (cnl), in attesa
di una legge — di cui il governo parlerà, sembra, a gennaio — che ne
sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto
alla contrattazione aziendale e territoriale. D’altra parte la strada
verso tale esito nefasto era già stata tracciata dagli accordi
interconfederali del giugno 2011 e del novembre 2012 (non firmato dalla
Cgil). In essi venivano assegnate al cnl dei compiti del tutto marginali
rispetto alla sua funzione storica: che sta nel difendere la quota
salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a
quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari.
Grazie al progressivo indebolimento del cnl, dal 1990 al 2013 tale quota
è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55. Si
tratta di oltre 100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno
ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso
all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Questo
spostamento di reddito dal ai profitti e alle rendite ha pure
contribuito alla contrazione della domanda interna. Un top manager può
pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma
quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà
mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti.
Oltre
che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze
aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle
imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante
accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni
cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una
ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul
Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in
chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze
rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante
altre che arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per
pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto
della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa
1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il
numero di “lalavoro voratori poveri” aumenterà in Italia in notevole
misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a
parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un
tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base
salariale per tutti.
Va però notato che il regime di bassi salari,
introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la
modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese
italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime
della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti
fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo.
Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in
poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare
entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è
il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15.
Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato:
l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola
sin dagli anni 90.
Varando delle leggi sul lavoro che consentono un
uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione
che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno
efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella
condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto
per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la
legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su
cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più
in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti,
innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è
strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è
in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di
quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del
lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a
livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e
per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di
catturare un ologramma con una canna da pesca. Qualsiasi bene o servizio
un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola.
La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri
prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri
in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo
elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa
italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di
un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali
complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate,
interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un
componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia
cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non
previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi
inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa
finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro
aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali,
temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e
magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori
poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da
spartirsi.
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