giovedì 13 novembre 2014

Ancora il libro di Francesco Germinario sull'ideologia della destra radicale nel dopoguerra


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I guardiani dello status quo
Passato e presente . I miti della destra radicale sono ancorati a una visione della realtà sociale come una fotocopia delle gerarchie presenti in natura inquinate però dalla modernità. Un’analisi dell’ideologia neofascista contemporanea a partire da un volume di Francesco Germinario

Carlo Vercelli, il Manifesto 13.11.2014 
Fran­ce­sco Ger­mi­na­rio è uno dei più impor­tanti stu­diosi della destra estrema nel nostro Paese. Gra­zie anche alla Fon­da­zione Miche­letti di Bre­scia, che da diversi lustri va inda­gando su quell’universo mole­co­lare nel quale si agi­tano pro­ta­go­ni­sti il cui agire è spesso sot­to­trac­cia, comun­que car­sico, pos­siamo avere un qua­dro sto­rico, ma anche cro­na­chi­stico, ade­rente ai suoi con­creti svi­luppi. Biso­gna dare atto a Ger­mi­na­rio di avere recu­pe­rato la lezione, pur­troppo incom­piuta, di Franco Ferar­resi, poli­to­logo e ricer­ca­tore che alla com­pren­sione delle dina­mi­che della destra anti­de­mo­cra­tica si era ripe­tu­ta­mente impe­gnato, scom­pa­rendo tut­ta­via pre­ma­tu­ra­mente quasi vent’anni fa e lasciando quindi inter­rotto il suo lavoro. 
L’acribia con la quale Ger­mi­na­rio si è dedi­cato allo stu­dio, in quanto fonti, della libel­li­stica e dei testi di quell’area poli­tica non ha molti pari, data anche l’irritante abra­si­vità delle tesi soste­nu­tevi e il crip­tico irra­zio­na­li­smo che le accom­pa­gna. Da almeno vent’anni segue quindi la sua pro­du­zione edi­to­riale, sospesa tra samiz­dat e pam­phlet, oltre che la tra­iet­to­ria di per­so­naggi e gruppi d’area. Con il suo nuovo libro dedi­cato a Tra­di­zione, mito, sto­ria. La cul­tura poli­tica della destra radi­cale e i suoi teo­rici (Carocci, pp. 214, euro 18) l’autore ci per­mette di fare un po’ di ordine in merito a quel che c’era, e a quel che resta sul piano cul­tu­rale, di una realtà dai tratti altri­menti molto sfuggenti. 

Il mer­cato della rappresentanza 
Il punto di par­tenza è quello della morte, e la fasci­na­zione per essa, che costi­tui­sce anche il punto d’arrivo. La destra radi­cale post­bel­lica si costi­tui­sce infatti sulla scorta di una neces­sità impel­lente, rie­la­bo­rare e supe­rare il lutto per la scon­fitta totale del 1945. Non può pre­scin­dere da que­sto faglia perio­diz­zante, essendo l’elemento sto­rico che più di qual­siasi altra cosa la rende dif­fe­rente sia dalla destra rivo­lu­zio­na­ria e popu­li­sta della fine dell’Ottocento sia dai fasci­smi come dal nazi­smo in quanto regimi «di massa». Se la prima e i secondi si inse­ri­scono a pieno titolo nei pro­cessi di nazio­na­liz­za­zione delle col­let­ti­vità, con­ten­dendo alla sini­stra il «mer­cato» della rap­pre­sen­tanza di ceti e classi che sono ora la nuova ossa­tura degli Stati nazio­nali, per la destra radi­cale post­bel­lica il per­corso sem­bra invece essere segnato in senso esat­ta­mente oppo­sto. Al rifiuto della società bor­ghese, e quindi della «medio­crità» libe­rale, insieme al diniego della demo­cra­zia, «sifi­lide dello spi­rito moderno» (Pino Rauti), si coniuga il pri­mato dell’azione su quello dell’elaborazione intel­let­tuale e culturale. 


Le verità immutabili 

Il pen­siero del radi­ca­li­smo neo­fa­sci­sta si vuole offrire all’osservatore nella sua pre­sunta qua­lità di insieme coe­rente di gesti, inten­den­dosi come una sorta di tota­lità ope­rante, che non neces­sita di moventi e moti­va­zioni, essendo già di per se stesso un per­corso com­piuto di intui­zioni. Nelle affer­ma­zioni dei suoi esten­sori non è il con­cetto – e quindi la com­pren­sione cri­tica – ciò che denota la facoltà del sapiente ma la per­ce­zione di una dimen­sione tra­scen­den­tale, che sopra­vanza la prassi quo­ti­diana. Esi­ste una verità ori­gi­na­ria (quella per cui è nella Natura, con la maiu­scola, che dimora la giu­sti­zia e che ogni costru­zione sociale ha i carat­teri della mani­po­la­zione, cer­cando di livel­lare le dise­gua­glianze, altri­menti in sé non solo ine­li­mi­na­bili ma giu­ste per­ché neces­sa­rie) che deve essere cer­cata e quindi rive­lata ma mai creata. Poi­ché se una verità viene gene­rata essa non è più auten­tica, pri­mi­ge­nia, bensì postic­cia. Esat­ta­mente ciò che la sto­ria va facendo, svel­lendo le dif­fe­renze «natu­rali» tra gli uomini, quindi la gerar­chia che è sot­tesa alle loro relazioni. 
Ripri­sti­nare le scale di dise­gua­glianza è ciò che il radi­ca­li­smo chiama «Tra­di­zione». Tale, quest’ultima, per­ché patri­mo­nio indi­strut­ti­bile e immo­di­fi­ca­bile. Tra­di­zione e verità, due facce della mede­sima meda­glia, ripo­sano nella loro dimen­sione tra­scen­dente, meta­sto­rica, per­tanto oltre la sto­ria umana mede­sima. La feroce e impla­ca­bile cri­tica che viene fatta della società bor­ghese e allo stesso capi­ta­li­smo mette in rilievo la fra­gi­lità del legame sociale, basato sull’utilitarismo. Per riva­lu­tare la potenza dei fasci­smi e del nazi­smo, il cui fon­da­mento è quello raz­zi­sta, l’unico in grado di rico­no­scere le abis­sali distanze tra uomini, rista­bi­lendo, in virtù del prin­ci­pio di dise­gua­glianza, le scale di dif­fe­renza «natu­rali», la destra radi­cale deve però com­piere una mano­vra spe­ri­co­lata, con­se­gnan­dosi all’immobilismo poli­tico. Per Ger­mi­na­rio il noc­ciolo duro dell’area, da dopo­guerra in poi, si è costruito intorno a que­sto paradigma. 
Il neo­fa­sci­smo intel­let­tuale non può più pen­sarsi come arti­co­la­zione di un movi­mento col­let­tivo, ripie­gando sem­mai sull’aristocraticismo come approdo obbli­gato per chi deve ela­bo­rare il senso del tra­di­mento delle masse mede­sime. Per­ché è da que­sto che sono deri­vate le apo­ca­lissi dei regimi tota­li­tari. Si tran­sita così da una destra di mobi­li­ta­zione, sedotta dalle solu­zioni popu­li­ste, già postasi in chiave com­pe­ti­tiva rispetto all’attrattivita del comu­ni­smo (così nella Ger­ma­nia di Wei­mar, e non solo) ad un microu­ni­verso auto­re­fe­ren­ziato, testi­mo­niale, volu­ta­mente peri­fe­rico e mino­ri­ta­rio. Con­di­zioni, que­ste, cer­cate per­ché volute e quindi non subite. Neces­sa­rie per rior­ga­niz­zarne le file. Che Julius Evola sia da subito la matrice di tale approdo non può certo sor­pren­dere. In que­sto autore la dimen­sione impo­li­tica diventa vero e pro­prio «mito inca­pa­ci­tante». Lad­dove l’incapacità rimanda da subito all’impossibilità di iden­ti­fi­care un sog­getto sto­rico per la tra­sfor­ma­zione rivo­lu­zio­na­ria, peren­ne­mente vati­ci­nata. Se per­mane e si raf­forza il mito di una società orga­nica, fatta di parti in per­fetta armo­nia, dispo­ste ver­ti­cal­mente, dove si nutre l’orrore per la mol­te­pli­cità e la varietà sociale, intese come cor­ru­zione della Natura mede­sima, e se si pro­fessa come unica dif­fe­renza pos­si­bile quella ari­sto­cra­tica, avanza anche l’idea che qual­siasi ten­ta­tivo di con­fron­tarsi con la sto­ria — così come i regimi del XX secolo fecero — sia un tra­gico adat­tarsi al «gioco osceno» che obbliga a tra­dire la Tra­di­zione. La quale riposa nella testi­mo­nianza degli ini­ziati, non nella mobi­li­ta­zione col­let­tiva. Anche da ciò deriva il per­corso di un’altra icona di area sulla cui figura l’autore si sof­ferma ripe­tu­ta­mente, quel Franco Freda che, insieme ad altri, teo­rizza e pra­tica la «comu­nità mili­tante» non come aggre­ga­zione di per­sone bensì soprat­tutto come vis­suto esi­sten­ziale con­di­viso.
L’«Ordine» al quale l’intellettualità neo­fa­sci­sta e neo­na­zi­sta si rifà, a que­sto punto, si fonda a sua volta su di un tempo senza sto­ria, cioè privo di scor­ri­mento, di fatti, di eventi, di pro­ta­go­ni­sti che abbiano un qual­che senso fon­dante. Non si tratta di un pas­sato che deve nostal­gi­ca­mente tor­nare bensì di un depo­sito ance­strale che deve essere fatto riemergere. 

Il para­digma delle origini 

L’ordine poli­tico è cla­mo­ro­sa­mente fal­lito sulle rovine di Ber­lino nel mag­gio del 1945 o a Giu­lino di Mez­ze­gra, il 28 aprile di quello stesso anno. Lì, il tra­di­mento non fu solo dei poli­tici ma della poli­tica tout court, lad­dove essa si rivelò non all’altezza della sfida che il mondo tra­di­zio­na­li­sta aveva avan­zato con­tro la moder­nità. L’unica via morale pra­ti­ca­bile, da quel momento, con­si­ste nella ripe­ti­zione del para­digma della fon­da­zione mede­sima. La sto­ria, invece, è di per se stessa degra­da­zione. Poi­ché la poli­tica non esi­ste come prassi auto­noma ma solo come rea­liz­za­zione dei prin­cipi della Natura. Men­tre il mondo con­tem­po­ra­neo va in dire­zione esat­ta­mente oppo­sta ad essi. 
Cosa rimane, allora, della destra radi­cale, soprat­tutto da un punto di vista teo­re­tico, se l’approdo par­rebbe essere più quello con­tem­pla­tivo, infor­mato ad una fit­ti­zia auto­ri­fles­si­vità dove l’unico obiet­tivo è il riba­dire l’intangibilità di un sapere ini­zia­tico e, per molti aspetti, irrag­giun­gi­bile? Il realtà la sedu­zione del vuoto, in autori come Freda, Evola, ma anche Loc­chi ed altri ancora, è forse una delle chiavi di volta per inten­derne l’attrattività, come anche i limiti strut­tu­rali. Lo sforzo da essi com­piuto è di tra­sporre parte di quell’universo irra­zio­na­li­sta, che aveva preso pro­gres­si­va­mente piede in una parte dell’intellettualità euro­pea, all’insegna della rivolta con­tro il terzo e il quarto stato, con l’inizio del secolo scorso, all’interno di una tra­iet­to­ria autoconservativa. 
La figura che emerge dalle rovine, que­ste ultime decan­tate come una sorta di obbli­gata con­di­zione esi­sten­ziale per il mili­tante radi­cale, è quella del «sol­dato poli­tico», che già gli aedi della rivo­lu­zione con­ser­va­trice ave­vano letto come il sog­getto sto­rico del muta­mento. Lo scacco dell’impoliticità risiede però nel fatto che se un tempo la mili­zia era fun­zio­nale alla sov­ver­sione degli equi­li­bri esi­stenti oggi testi­mo­nia di uno stallo per­si­stente, tra­dot­tosi in immobilismo. 

Ideo­lo­gia dell’antideologia 

Il sol­dato poli­tico è tale nella misura in cui è uno scon­fitto. La sua cifra sta nel docu­men­tare l’impotenza. In realtà, non poche delle pul­sioni pre­senti nel radi­ca­li­smo di destra sono state assor­bite dalla feri­nità che è pre­sente nelle frange più estreme, e radi­cate, del neo­li­be­ri­smo. Il quale, da subito si pre­senta, al pari della vec­chia destra radi­cale, come l’ideologia dell’anti-ideologia. Esso stesso assume quei carat­teri di tota­lità ai quali il radi­ca­li­smo aspi­rava, sur­clas­san­dolo tut­ta­via nella sua capa­cità di tra­sfor­marsi in pen­siero di senso comune, da uti­liz­zare nell’azione. Non è un caso che il neo­con­ser­va­to­ri­smo più acceso, la destra del Tea Party, che ha un carat­tere ora­mai sovra­na­zio­nale, cele­bri la defi­ni­tiva con­sun­zione dell’azione di massa nel momento stesso in cui dice di par­lare per le col­let­ti­vità mede­sime. Se l’ideologia neo­fa­sci­sta e neo­na­zi­sta inten­deva decre­tare la morte della sto­ria, sosti­tuita da un tempo mito­lo­gico, oggi non pos­siamo certo dire che aspetti di tale con­fi­gu­ra­zione non siano pre­senti nella nostra quo­ti­dia­nità. Poi­ché l’ideologia cor­rente cele­bra il pre­sente come unico tempo pos­si­bile e quindi reale. Un tempo anch’esso mito­lo­gico, a ben guar­dare. Non è la destra ari­sto­cra­tica ad essere andata al potere, ma quella oli­gar­chica che, del pari alla prima, con­si­dera ogni forma di demo­cra­zia sociale un impac­cio intol­le­ra­bile. Non è cosa da poco, a ben pensarci

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