domenica 23 novembre 2014

Ancora Sade

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D. A. F. Sade: Storielle, a cura di Antonio Veneziani, Elliot, Roma, pagg. 62, € 8,50

Risvolto
A duecento anni dalla morte del marchese de Sade è veramente il caso di affermare, come sosteneva lui stesso: “Non è il mio modo di pensare che ha fatto la mia rovina, ma il modo di pensare degli altri”. Le Storielle, vere e divertenti perle, poco conosciute e ancor meno lette, sono state dimenticate per lungo tempo, certo anche in rapporto alle vicende biografiche dell’autore, famoso più per la sua empietà, oscenità e perversione che per il suo reale valore letterario.
Questa scia di scandalo ancora l’accompagna, ma negli ultimi anni, finalmente, il marchese de Sade ha avuto approfondimenti critici importanti. I suoi scritti sono diventati luogo di incontro e scontro tra psicanalisti e semiologi, tra sociologi e studiosi di morale, tra puristi e innovatori dello stile. Per Sade, assurto a prototipo della letteratura licenziosa e trasgressiva, si è sempre dimenticata la zona “leggera” della quale questi microracconti fanno parte. Le Storielle sono autentiche sassate contro l’ipocrisia, sferzate poetiche contro il moralismo che si trasformano in maschere, che fanno sobbalzare il lettore per sagacia e per improvvise illuminazioni. Questi dagherrotipi in parole sono come le ciliegie, uno tira l’altro, e lasciano in bocca un retrogusto di godibilità e in testa una spassosa leggerezza.

Il bicentenario del «divin marchese» (1740-1814)
Sade, il vizio della scrittura

Le mostre e i libri per l'anniversario ne fanno apprezzare il ruolo di «rivelatore ideologico» e quello più fine, di autore
di Daniela Gallingani Il Sole Domenica 23.11.14
In occasione del bicentenario della morte di Sade, avvenuta il 2 dicembre 1814, pare giunto il momento di sgombrare il campo dai pregiudizi che hanno condizionato questi due secoli di interpretazione della sua opera. In particolare, quello relativo al suo ruolo di «rivelatore ideologico» di dinamiche culturali e di processi storici di matrici diverse e spesso contrastanti.

In una simile prospettiva, si stanno moltiplicando in tutta Europa mostre, convegni, seminari, in un rituale commemorativo previsto per i grandi scrittori.
E finalmente sono in prevalenza la scrittura di Sade e la genesi delle sue opere al centro di questi eventi, in una continuità virtuale con la rivoluzione iniziata nel 1947 con la pubblicazione di Jean-Jacques Pauvert dell'Histoire de Juliette, e che raggiungerà l'apice nel 1990, con l'edizione del l'opera completa nella Bibliothèque de la Pléiade, a cura da Michel Delon.
Furono, in effetti, l'Affaire d'Arcueil (1768) e l'Affaire de Marseille (1772), che l'avevano visto protagonista di orge sfrenate e di disdicevoli violenze compiute su giovani donne, servi e nobili a un tempo, a fare da subito di Sade l'immagine stessa del male, sì da renderlo appunto, via via, l'ispiratore del Terrore e il difensore del sensualismo più sfrenato, giungendo, sotto il Consolato, a essere strumentalizzato sia dai monarchici che dai repubblicani.
Persino nel carcere di Charenton dove venne rinchiuso, fu ritenuto colpevole di diffondere, con le rappresentazioni teatrali che organizzava, una perniciosa contaminazione morale che unicamente il carcere appunto, si auspicava, avrebbe potuto ostacolare per sempre.
Paradossalmente, soltanto quando si incominciò a declinare il sadismo e il masochismo dal punto di vista medico e patologico, Sade iniziò ad apparire più colui che aveva osato «mettere in scena» il sadismo che non il sadico per eccellenza. Ma anche il Novecento non si liberò del tutto dai condizionamenti ideologici che avevano investito da sempre l'opera di Sade. Da Apollinaire a Paulhan fino ai Surrealisti, Sade è la «vittima assoluta», il prototipo del rivoluzionario radicale e trasgressivo che avrebbe determinato la presa della Bastiglia, la vittima innocente dei poteri che si erano alternati tra Sette e Ottocento, il paladino di un immaginario erotico che aveva in Justine la donna nuova, colei che «possedeva le ali per rinnovare l'universo intero».
In parallelo, poi, con l'affievolirsi degli estremismi avanguardisti del primo Novecento, Sade ritrovò una mitizzazione capace di esprimere a pieno la negatività dei tempi, che lo dipingeva come il responsabile della morte dell'individuo, dei suoi valori e dei suoi principi.
Occorreva prendere Sade sul serio, proclamavano i "nouveaux philosophes", da Klossowski a Bataille e a Lacan, da Foucault al gruppo di «Tel Quel», perché Sade – affermavano – «ci concerne tutti e appartiene alla modernità del XX secolo». Ancora una volta, però, si confondeva l'«uomo Sade» con l'«uomo sadiano», un mostro concettuale che emigrava trasversalmente dalla filosofia, alla storia, dall'estetica alla politica, indagato mediante le categorie della follia, della perversione, del desiderio e che faceva assurgere il sadismo a potente strumento di analisi della società postmoderna, dominata dal potere economico e dall'alienazione.
Così, di nuovo, è la specificità della scrittura di Sade che continua a essere trascurata, insieme alla sua valenza autorale. Uno scrittore, Sade che, al contrario – e ora finalmente viene sottolineato – corregge più volte i suoi manoscritti; si nutre della lettura ossessiva dei testi più disparati; si cimenta in un esercizio sfrenato di riappropriazione, e talora di plagio, di ogni genere letterario, dalla novella al dialogo filosofico, dal romanzo epistolare al pamphlet, spesso distorcendoli, trasformandoli e quasi brutalizzandoli a suo piacimento, come avviene anche per la Storia, che è implacabilmente sottomessa, quasi malmenata dalla scrittura sadiana.
La retorica classica, alla base dell'architettura delle Cent Vingt Iournées, i finti parallelismi di Aline et Valcour, i molteplici punti di vista che si alternano nella costruzione del Voyage en Italie, o i riti culinari che duplicano le turpi azioni dei convitati del Castello di Silling, sono impietosamente rimanipolati per spostare continuamente il centro della narrazione e impedirne una conclusione e una interpretazione univoche.
Eppure, l'enorme mise en scène ordita da Sade in nome dell'eccesso e dell'iperbole sembrano paradossalmente scontrarsi con un limite, una sorta di inappagamento infinito e continuamente rievocato, rappresentato via via da un castello, da un sotterraneo, da una prigione, comunque da uno spazio chiuso e circolare in cui tutto diventa lecito, e nel quale un lettore desideroso di essere soddisfatto da ogni dettaglio, viene implacabilmente convocato, con la parola e con lo sguardo. I limiti della Rivoluzione, dello Stato, della Religione e della Ragione, si traducono in un discorso volutamente ripetitivo e ossessivo che disegna e denuncia le rovine di un mondo immobile nella sua inadeguatezza. Immobile come il Portrait imaginaire di Man Ray, in cui il viso di pietra di Sade ci restituisce il progetto implacabile di un testimone inflessibile e insopportabile delle contraddizioni del suo tempo e dei vizi della modernità.


A Parigi Le peripezie di un rotolo

di Stefano Salis Il Sole Domenica 23.11.14
È notte e fa freddo nel carcere della Bastiglia. In pieno centro di Parigi, il suo più illustre prigioniero, il marchese maledetto, Alphonse De Sade, non teme il gelo; piuttosto l'occhio dei guardiani. Molto probabilmente, però, loro, non sanno cosa stia facendo. Tutte le notti di questo freddo ottobre-novembre 1785, alla luce tremula e fioca di una candela, con fatica ed energia, il marchese compie il suo più vero più efferato e più reiterato delitto: scrivere. Scrive su minuscoli pezzi di carta, da una parte e dall'altra. Una grafia piccolissima, precisa, ed elegantissima, viste le condizioni in cui la pagina è vergata. I foglietti gli arrivano clandestinamente, pochi alla volta, con la complicità della moglie e di qualche sodale: sono rettangoli di appena 11,2 cm di larghezza nei quali si dovrà squadernare l'intero catalogo delle deviazioni sessuali. Sta nascendo, ricopiato pazientemente notte per notte, il testo delle 120 giornate di Sodoma. Nessuno deve vedere: giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, i fogli sono incollati (con una strana mistura, fabbricata anche con la sua urina) e formano un rotolo. Il rotolo viene messo in sicuro nella cella: sotto il pavimento, nelle fessure delle pietre. Ogni notte la furtiva scena si ripete.


Il marchese al carcere ci è abituato. Imprigionato per la prima volta nel 1740 a 23 anni passerà ben 27 anni della sua vita dietro le sbarre di undici prigioni e fortezze differenti. All'epoca, per essere carcerati basta poco: una lettera, recante la firma del re e di un suo funzionario, che ti dichiari malvisto e il gioco è fatto. Al marchese di queste lettere ne sono arrivate diverse. La sua carriera di carcerato è molto più solida di quella di scrittore: ogni tanto riesce a far uscire clandestinamente dalla cella qualche scritto, qualche lettera d'amore, qualche invettiva. Ma questa volta no. Le cose andranno peggio di come ha previsto. Ironia della sorte, e della storia, De Sade viene improvvisamente rilasciato il 2 luglio del 1789. Non ha tempo però di raccogliere le sue cose, soprattutto la più preziosa, il rotolo delle 120 giornate, che ormai ha raggiunto i dodici metri di lunghezza. Esce e arringa la folla: distruggetela, questa prigione! Pochi giorni dopo la Bastiglia cade sotto la sferza dei rivoluzionari: il rotolo è perduto. Per sempre? come tale lo riterrà il suo autore, fino alla morte o...
Sì, qualcuno degli insorti lo trova, capisce che si tratta di un pezzo da collezione (i bibliofili riconoscono sempre la leccornia) e lo vende alla nobile famiglia dei Villeneuve-Trans. Ecco che il manoscritto, pezzo unico ed eccezionale, resta in mani private, per tre generazioni. Le peripezie non sono finite. Nel 1904 il rotolo viene venduto a un sessuologo berlinese Iwan Bloch, che ne capisce il valore, soprattutto, dal suo punto di vista, scientifico. Lo trascrive: nasce il catalogo dei comportamenti "sadici". Gli strafalcioni e gli errori materiali di Bloch sono molti, ma almeno, finalmente, il testo vede un'edizione pubblica. Non è finita. Il rotolo è ricomprato nel 1929 dal nobile Charles de Noailles che ne fa predisporre una nuova edizione, nel 1935. Una nipote di de Noailles fa poi l'errore di prestarlo a un editore, sedicente suo amico. Fiutato l'affare, l'editore lo rivende al più grande collezionista di erotica di sempre: lo svizzero Gérard Nordmann: siamo nel 1982. Inizia una battaglia legale per il riottenimento del rotolo, promossa dall'editore Carlo Perrone, erede de Noailles. I tribunali francese e svizzero arrivano a conclusioni opposte. L'epilogo, però, è vicino. E arriva, a suon di euro. Il più grande collezionista di manoscritti al mondo, Gérard Lhéritier, media tra i contendenti e, sborsando 7 milioni di euro (!), se lo compra e lo riporta finalmente in Francia dove, per la prima volta (un solo passaggio pubblico precedente, alla Fondazione Bodmer nel 2004), lo espone, fino al 18 gennaio al pubblico nel suo nuovo Institut des Lettres et Manuscrits inaugurato per l'occasione in rue de l'Université. Così, oggi, il rotolo di De Sade troneggia nella sala centrale della mostra, sala alla quale si arriva dopo avere visto altri capolavori di bibliofilia (i predecessori del libertinismo, intellettuale ed erotico) e prima di vedere gli esiti più belli della sua influenza (dal punti di vista della bibliofilia), con i surrealisti. È una mostra che emoziona, che istruisce e che racconta. E che, una volta di più, ci fa vedere quante meraviglie contengano questi miracolosi oggetti di carta. Spero di averne restituito un briciolo: perché il consiglio non può essere che andare a vedere di persona.



Il personaggio. Indomito e nobile

di Giuseppe Scaraffia Il Sole Domenica 23.11.14
Era stato un bambino biondo, altero e insufflato che il mondo doveva soddisfare i suoi capricci. Quando un augusto compagno di giochi, forte del suo rango, gli aveva fatto una prepotenza, Donatien Alphonse François non aveva esitato a tempestarlo di pugni. "La crudeltà, ben lontana dall'essere un vizio, è il primo sentimento impresso in noi dalla natura."
Allontanato dei genitori, Sade venne mandato dalla nonna che lo viziò teneramente, accentuando i suoi difetti. Poi fu affidato a uno zio abate, uomo colto, raffinato e libertino. Madame de Sade veniva da una ricca famiglia di recente nobiltà, lieta d'unirsi ai discendenti dalla Laura di Petrarca. Il marchese era innamorato della giovane sposa e desiderava molto dei figli. Lei lo ricambiava con foga. Nelle lettere lui lodava il «bellissimo» deretano e l'anima di Pélagie.
La sua prima detenzione, nel 1763, per "eccessi di dissolutezza" non incrinò la solidarietà di Pélagie. Nel 1772 la suocera era diventata la sua maggiore persecutrice. Al genero non erano bastate le attrici scandalosamente esibite nel castello, nè le prostitute seviziate. Poco dopo la nascita del terzo figlio, era fuggito in Italia con la giovane, innocente cognata.
Malgrado tutte le colpe del marito, la docile e sgraziata moglie non lo abbandonava, sempre pronta a tacitare col denaro le vittime dell'aggressivo erotismo del consorte. «Avete immaginato di far miracoli riducendomi a un'atroce astinenza, l'accusava Sade, ...è stato uno sbaglio: mi avete infiammato la mente, inducendomi a creare dei fantasmi che dovrò realizzare». Però restava sempre un padre. Al teorico dell'incesto la figlia pareva goffa e banale, "una buona, grossa massaia".
La storia fece irruzione nella cella della Bastiglia nel 1789, proprio quando Sade era riuscito a ottenere, sublime paradosso, una serratura interna. Nel saccheggio degli insorti andò (momentaneamente) smarrito anche lo sterminato serpente di carta delle 120 giornate di Sodoma.
Giunto al manicomio di Charenton con un ordine di carcerazione di "durata illimitata", per i reati di sodomia, avvelenamento e libertinaggio, Sade vi sarebbe rimasto fino all'anno seguente, quando la rivoluzione lo liberò. Abbandonate le ultime esitazioni, l'ex-marchese era entrato nella sezione delle Picche di Place Vendome. Pur adorando il re, detestava gli abusi della monarchia. «Cosa sono? Un aristocratico o un repubblicano? Ditemelo voi, per favore, perchè, per quel che mi riguarda, non ne capisco niente».
Il terribile inverno del '95 lo sorprese sprovvisto di tutto. L'inchiostro si gelava nel calamaio e Sade era costretto a tenerlo a bagnomaria. Nel '97 furono pubblicate la Nuova Justine e Juliette, in cui risuona l'eco della ferocia politica di quei giorni.
Nel 1801 il marchese fu arrestato e imprigionato, probabilmente su delazione del suo editore, benchè negasse la paternità di Juliette . L'obesità dei carcerati aveva cancellato quasi completamente la sua svelta figura. Soltanto gli occhi conservavano una strana luminosità, "come una brace morente tra i carboni spenti". Due anni dopo, su richiesta della famiglia, ansiosa di privarlo delle ultime proprietà Sade venne trasferito al manicomio di Charenton.
Nel testamento del 1806 chiese di essere seppellito in un bosco. Sopra le sue spoglie avrebbero dovuto seminare delle ghiande, in modo che, appena si fosse riformata la vegetazione, «le tracce della mia tomba scompaiano dalla faccia della terra...». Quando morì, il 2 dicembre 1814, lasciò il ricordo di un vecchio signore dai modi squisiti, che pronunciava le peggiori sconcezze con una voce dolcissima, mentre disegnava sulla sabbia del cortile delle figure oscene.


I racconti Sapeva anche essere tenero

di Chiara Pasetti Il Sole Domenica 23.11.14
Il conte Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), conosciuto anche con il soprannome attribuitogli dagli scrittori decadenti della fine del XIX secolo di «divin marchese», è stato uno dei protagonisti sotterranei della vita letteraria dell'Ottocento. Le sue opere, benché circolassero clandestinamente (e nelle biblioteche fossero à l'enfer, ossia non consultabili) a causa dei crimini commessi dai suoi personaggi, che l'opinione pubblica attribuiva, a torto, a lui, vennero lette con grande attenzione dagli autori di quel secolo, su cui ebbero una forte influenza; in particolare, da Baudelaire e Flaubert, il quale dichiarava di voler tenere sul comodino dei suoi ospiti tutti i libri del «grande Sade», e da «pensatore e demoralizzatore» quale era ne apprezzava moltissimo il pessimismo totale («un po' rancoroso come quello di tutti i moralisti», secondo il giudizio di Antonio Veneziani), condito da sagacia, ironia e da una vena iconoclasta particolarmente vivida, e invitava gli amici a essere come il marchese, «filosofi e uomini di spirito». 

In occasione dell'anniversario della sua morte, avvenuta duecento anni fa nel ricovero per malati mentali di Charenton in cui era rinchiuso dal 1803, esce ora una sua raccolta di Storielle (tratte da Historiettes, Contes et Fabliaux), per molto tempo passate sotto silenzio; ritrovate e pubblicate postume nel 1926 a cura di Maurice Heine, che come tutti i surrealisti ne apprezzava lo spirito di rivolta contro ogni forma di tirannia, vennero composte in carcere nel 1788 come molte altre sue opere, tra cui le ben più celebri Cent Vingt Journées de Sodome.
Come scrive il curatore Veneziani, sono dodici raccontini che costituiscono delle «piccole perle, ora divertenti, ora sognanti, sapide e liberatorie», che sfatano il giudizio negativo spesso attribuito al suo stile di scrittura, definito da molti critici sciatto e ripetitivo. Qui de Sade dà prova di una narrazione raffinata e pulita, che coinvolge il lettore per l'originalità delle vicende e per i guizzi improvvisi. Ma soprattutto, queste Storielle mostrano un altro volto dell'autore «nero e terribile». Il torbido sensualismo presente nei testi più noti, la sessualità perversa, le oscenità e le prosperità del vizio, la stravaganza morbosa e l'atmosfera sulfurea e malata, da «tenebroso harem di larve crudeli», tutti «fiori del male» dell'«atroce e sanguinoso bestemmiatore», lasciano qui il posto a una spassosa leggerezza, che si compiace del piacere di scrivere e di divertire, e che rispetta tutti i gusti e le fantasie, anche quelle più bizzarre, perché trova che siano originate «da un principio di delicatezza». La frenesia di Justine, i personaggi femminili e maschili tormentati e viziosi, tragici e delittuosi, qui non trovano spazio, e de Sade si concede una promenade più rilassata e, appunto, delicata, che incontra vescovi impantanati e cocchieri costretti alla bestemmia, istitutori trasgressivi e allievi ingenui, verginelle istruite alla virtù che istigano invece perversioni di mariti libidinosi, e "maisons de passe" dove si godono senza pericolo «i piaceri della voluttà». Il tutto condotto da una vena beffarda che serpeggia in ogni storia, e che richiama alla mente il giudizio di Apollinaire sul divin marchese, «lo spirito più libero che sia mai esistito a tutt'oggi», un ironico libertino che, come lui stesso aveva confessato, ha concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito (e non solo!), ma... «non ho mai fatto tutto quello che ho concepito e mai lo farò». Gli crediamo?

Sade non fu mai messo all’Indice
In Francia si fece 28 anni di carcere, le sue opere erano un caso editoriale che dura tutt’ora
di Francesco Margiotta Broglio Corriere 1.12.14
Nel 1947, per la prima volta, varie opere di Sade vengono pubblicate a Parigi con il nome e l’indirizzo di un editore, Jean-Jacques Pauvert, che inizia con La storia di Juliette ovvero le prosperità del vizio , apparsa in origine nel 1797 con il falso luogo «In Olanda» e arricchita da cento incisioni. Di essa l’autore negò la paternità, ma i librai non esitarono a tradirlo, mentre du Ravel dichiarò che egli aveva superato se stesso con uno scritto ancora più detestabile di quell’infame «capolavoro di corruzione» rappresentato da Justine (1791), sorella di Juliette, che sarà seguito dai 4 volumi della Nuova Justine . Nel marzo 1801 Sade viene nuovamente arrestato (in tutto saranno 28 i suoi anni di carcere) e il manoscritto di Juliette viene sequestrato dalla polizia, ma i librai parigini nel 1802 fanno a gara per ristampare e diffondere le sue opere. Si trattava, e così sarà fino al 1947, di edizioni clandestine o di tirature molto ridotte.
Pauvert, che aveva sfidato tabù sociali e leggi sulla censura pubblicando 24 volumi di Sade, venne «severamente condannato» nel 1957 dal tribunale di Parigi per aver stampato opere contrarie al buon costume (delle quali vennero ordinate la confisca e la distruzione), denunciate dalla Commissione per i libri prevista dalle leggi: tra i testimoni Paulhan, Bataille, Cocteau, Bréton. L’anno successivo l’editore, difeso da un principe del foro, Maurice Garçon, accademico di Francia, verrà assolto in appello per l’acclarata nullità della decisione della Commissione per l’assenza di alcuni suoi membri.
Come ha scritto lo stesso Pauvert, per la prima volta «veniva riconosciuto il diritto di esistere all’opera più scandalosa di tutti i tempi», ma il 21 dicembre 1958 la Francia di de Gaulle approverà una legge che ripristinava la censura con misure definite da Garçon più dure di quelle di Napoleone, in quanto con la scusa di tutelare l’infanzia esse davano il potere al ministro dell’Interno di predisporre una lista di libri proibiti. Dopo qualche garanzia per gli editori negli anni Sessanta, il nuovo codice penale del 1994 introdurrà pene severe contro libri o audiovisivi che diffondessero messaggi violenti o pornografici violando la dignità umana: ancora Garçon qualificherà le relative norme «il capolavoro della Censura».
Gli ultimi anni Novanta del Novecento vedranno però l’opera di Sade consacrata nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard, a cura di Michel Delon. Gli studi su di lui si erano, peraltro, moltiplicati, come l’attenzione dei più accreditati intellettuali mondiali.
Colpisce comunque che negli anni trascorsi dal tempo di Sade, scomparso esattamente due secoli fa il 2 dicembre 1814, la Chiesa di Roma non paia essersi accorta dei suoi scritti particolarmente violenti contro la religione. Negli «Indici dei libri proibiti» pubblicati dal papato in questo lasso di tempo (l’ultimo è del 1948, nel 1966 l’ Index verrà eliminato) mai l’autore o qualcuna delle sue opere blasfeme si rinviene nella nota collezione quasi completa di normative, documenti, elenchi di scritti pubblicata a Ginevra e a Montréal dal De Bujanda. Non mancano Voltaire e Rousseau, Casanova e d’Annunzio, Beccaria, Sartre e Simone de Beauvoir, Zola e Balzac, Fogazzaro e Moravia, Gioberti e Rosmini, Croce e Gentile, George Sand e Ada Negri, che certo non appartengono al «mondo alla rovescia» del nostro marchese. Sade peraltro era un grande conoscitore della Bibbia e la sua «religione» appare «molto più complessa e paradossale di una antiteologia che si contentasse di proclamare tutto il contrario dei valori della Chiesa» (Vilmer).
Non si rinviene traccia di Sade nella documentazione conservata negli archivi romani della «Congregazione dell’Indice», soppressa nel 1917 da Benedetto XV con l’attribuzione delle relative competenze a quella del Sant’Uffizio. Non è agevole, quindi, spiegare i silenzi della Chiesa, che non possono essere dovuti né a distrazione dei censori ecclesiastici, né alla scarsa notorietà o alla paternità non immediatamente dichiarata di alcuni scritti, né, ancora, al fatto che le opere lascive sarebbero ricadute in una generica e originaria condanna. Opere del genere infatti, in diverse epoche, si ritrovano tra quelle condannate. Si aggiunga che alla sua morte, nonostante le diverse disposizioni testamentarie, Sade ebbe diritto ai funerali religiosi e venne sepolto nel cimitero del manicomio di Charenton in una tomba senza nome, ma con solo una grande croce di pietra. Le autorità di polizia furono tranquillizzate: metà dei suoi numerosi manoscritti vennero da esse sequestrati e dati alle fiamme, l’altra metà chiusi in un baule e consegnati alla famiglia che, fino alla quinta generazione dei Sade, si guardò bene dall’aprirlo.
Solo di recente è stato ritrovato ed esposto a Parigi al Museo dei manoscritti il famoso rouleau , un insieme di fogli clandestini incollati tra loro sui quali Sade aveva trascritto Le 120 giornate di Sodoma e che restarono nella sua cella alla Bastiglia quando venne trasferito a Charenton e, dopo la presa della fortezza nel 1789, finirono in mani private.
C’è la diffusa convinzione che tutta l’opera di Sade si iscriva «nel pensiero del suo secolo», rielaborando «assunti ampiamente diffusi della filosofia illuministica soprattutto nel suo versante ateo e materialista» (Gorret). Si è parlato di lui come «figlio maledetto dei Lumi» (Deprun), ma anche di un suo collegamento con la «dottrina agostiniano-calvinista-giansenista della totale depravazione dell’uomo» (Crocker), mentre Barthes lo ha accostato a sant’Ignazio e Lacan a Kant.
Di certo il silenzio ecclesiastico sulle sue opere appare tanto più stupefacente se si tiene conto che, proprio in Juliette , egli immagina un episodio nettamente blasfemo e mette in ridicolo papa Braschi (Pio VI) — alla cui «incoronazione» aveva assistito — facendogli scrivere una lunga «enciclica», intitolata Di tutte le stravaganze dell’uomo , piena di dottrina e di riferimenti storici, filosofici e teologici, che esalta l’assassinio e gli assassini. Quel che è più grave è che Juliette negozia con il Papa — che lei provoca in tutte le forme e definisce «fantasma orgoglioso» e «vecchia scimmia» — la dissertazione e i suoi contenuti in cambio di una «immensa orgia, piena di lussuria e di libertinaggio» che si sarebbe svolta intorno all’altare di San Pietro protetto da enormi paraventi. Pio VI, comunque, riconosce che l’elevazione delle idee di Justine è estremamente rara tra le donne e conclude il suo testo con queste parole: «Tutti i popoli hanno sgozzato uomini sugli altari dei loro dei. In ogni tempo l’uomo ha provato piacere versando il sangue dei suoi simili e… talvolta ha mascherato questa passione con il velo della giustizia, talvolta con quello della religione. Ma il fondamento, lo scopo era, senza dubbio alcuno, lo stupefacente piacere che ne provava». Un testo profondamente… sadico (o sadista?) che sicuramente non dovette sfuggire ai censori ecclesiastici, ma che continua, dopo più di due secoli, a poter essere letto senza tema di pene anche solo spirituali. 

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