D. A. F. Sade: Storielle, a cura di Antonio Veneziani, Elliot, Roma, pagg. 62, € 8,50
Risvolto
A duecento anni dalla morte del marchese
de Sade è veramente il caso di affermare, come sosteneva lui stesso:
“Non è il mio modo di pensare che ha fatto la mia rovina, ma il modo di
pensare degli altri”. Le Storielle, vere e divertenti perle,
poco conosciute e ancor meno lette, sono state dimenticate per lungo
tempo, certo anche in rapporto alle vicende biografiche dell’autore,
famoso più per la sua empietà, oscenità e perversione che per il suo
reale valore letterario.
Questa scia di scandalo ancora l’accompagna, ma negli ultimi anni,
finalmente, il marchese de Sade ha avuto approfondimenti critici
importanti. I suoi scritti sono diventati luogo di incontro e scontro
tra psicanalisti e semiologi, tra sociologi e studiosi di morale, tra
puristi e innovatori dello stile. Per Sade, assurto a prototipo della
letteratura licenziosa e trasgressiva, si è sempre dimenticata la zona
“leggera” della quale questi microracconti fanno parte. Le Storielle
sono autentiche sassate contro l’ipocrisia, sferzate poetiche contro il
moralismo che si trasformano in maschere, che fanno sobbalzare il
lettore per sagacia e per improvvise illuminazioni. Questi dagherrotipi
in parole sono come le ciliegie, uno tira l’altro, e lasciano in bocca
un retrogusto di godibilità e in testa una spassosa leggerezza.
Il bicentenario del «divin marchese» (1740-1814)
Sade, il vizio della scrittura
Le mostre e i libri per l'anniversario ne fanno apprezzare il ruolo di «rivelatore ideologico» e quello più fine, di autore
di Daniela Gallingani Il Sole Domenica 23.11.14
In
occasione del bicentenario della morte di Sade, avvenuta il 2 dicembre
1814, pare giunto il momento di sgombrare il campo dai pregiudizi che
hanno condizionato questi due secoli di interpretazione della sua opera.
In particolare, quello relativo al suo ruolo di «rivelatore ideologico»
di dinamiche culturali e di processi storici di matrici diverse e
spesso contrastanti.
In una simile prospettiva, si stanno
moltiplicando in tutta Europa mostre, convegni, seminari, in un rituale
commemorativo previsto per i grandi scrittori.
E finalmente sono in
prevalenza la scrittura di Sade e la genesi delle sue opere al centro di
questi eventi, in una continuità virtuale con la rivoluzione iniziata
nel 1947 con la pubblicazione di Jean-Jacques Pauvert dell'Histoire de
Juliette, e che raggiungerà l'apice nel 1990, con l'edizione del l'opera
completa nella Bibliothèque de la Pléiade, a cura da Michel Delon.
Furono,
in effetti, l'Affaire d'Arcueil (1768) e l'Affaire de Marseille (1772),
che l'avevano visto protagonista di orge sfrenate e di disdicevoli
violenze compiute su giovani donne, servi e nobili a un tempo, a fare da
subito di Sade l'immagine stessa del male, sì da renderlo appunto, via
via, l'ispiratore del Terrore e il difensore del sensualismo più
sfrenato, giungendo, sotto il Consolato, a essere strumentalizzato sia
dai monarchici che dai repubblicani.
Persino nel carcere di Charenton
dove venne rinchiuso, fu ritenuto colpevole di diffondere, con le
rappresentazioni teatrali che organizzava, una perniciosa contaminazione
morale che unicamente il carcere appunto, si auspicava, avrebbe potuto
ostacolare per sempre.
Paradossalmente, soltanto quando si incominciò
a declinare il sadismo e il masochismo dal punto di vista medico e
patologico, Sade iniziò ad apparire più colui che aveva osato «mettere
in scena» il sadismo che non il sadico per eccellenza. Ma anche il
Novecento non si liberò del tutto dai condizionamenti ideologici che
avevano investito da sempre l'opera di Sade. Da Apollinaire a Paulhan
fino ai Surrealisti, Sade è la «vittima assoluta», il prototipo del
rivoluzionario radicale e trasgressivo che avrebbe determinato la presa
della Bastiglia, la vittima innocente dei poteri che si erano alternati
tra Sette e Ottocento, il paladino di un immaginario erotico che aveva
in Justine la donna nuova, colei che «possedeva le ali per rinnovare
l'universo intero».
In parallelo, poi, con l'affievolirsi degli
estremismi avanguardisti del primo Novecento, Sade ritrovò una
mitizzazione capace di esprimere a pieno la negatività dei tempi, che lo
dipingeva come il responsabile della morte dell'individuo, dei suoi
valori e dei suoi principi.
Occorreva prendere Sade sul serio,
proclamavano i "nouveaux philosophes", da Klossowski a Bataille e a
Lacan, da Foucault al gruppo di «Tel Quel», perché Sade – affermavano –
«ci concerne tutti e appartiene alla modernità del XX secolo». Ancora
una volta, però, si confondeva l'«uomo Sade» con l'«uomo sadiano», un
mostro concettuale che emigrava trasversalmente dalla filosofia, alla
storia, dall'estetica alla politica, indagato mediante le categorie
della follia, della perversione, del desiderio e che faceva assurgere il
sadismo a potente strumento di analisi della società postmoderna,
dominata dal potere economico e dall'alienazione.
Così, di nuovo, è
la specificità della scrittura di Sade che continua a essere trascurata,
insieme alla sua valenza autorale. Uno scrittore, Sade che, al
contrario – e ora finalmente viene sottolineato – corregge più volte i
suoi manoscritti; si nutre della lettura ossessiva dei testi più
disparati; si cimenta in un esercizio sfrenato di riappropriazione, e
talora di plagio, di ogni genere letterario, dalla novella al dialogo
filosofico, dal romanzo epistolare al pamphlet, spesso distorcendoli,
trasformandoli e quasi brutalizzandoli a suo piacimento, come avviene
anche per la Storia, che è implacabilmente sottomessa, quasi malmenata
dalla scrittura sadiana.
La retorica classica, alla base
dell'architettura delle Cent Vingt Iournées, i finti parallelismi di
Aline et Valcour, i molteplici punti di vista che si alternano nella
costruzione del Voyage en Italie, o i riti culinari che duplicano le
turpi azioni dei convitati del Castello di Silling, sono impietosamente
rimanipolati per spostare continuamente il centro della narrazione e
impedirne una conclusione e una interpretazione univoche.
Eppure,
l'enorme mise en scène ordita da Sade in nome dell'eccesso e
dell'iperbole sembrano paradossalmente scontrarsi con un limite, una
sorta di inappagamento infinito e continuamente rievocato, rappresentato
via via da un castello, da un sotterraneo, da una prigione, comunque da
uno spazio chiuso e circolare in cui tutto diventa lecito, e nel quale
un lettore desideroso di essere soddisfatto da ogni dettaglio, viene
implacabilmente convocato, con la parola e con lo sguardo. I limiti
della Rivoluzione, dello Stato, della Religione e della Ragione, si
traducono in un discorso volutamente ripetitivo e ossessivo che disegna e
denuncia le rovine di un mondo immobile nella sua inadeguatezza.
Immobile come il Portrait imaginaire di Man Ray, in cui il viso di
pietra di Sade ci restituisce il progetto implacabile di un testimone
inflessibile e insopportabile delle contraddizioni del suo tempo e dei
vizi della modernità.
A Parigi Le peripezie di un rotolo
di Stefano Salis Il Sole Domenica 23.11.14
È
notte e fa freddo nel carcere della Bastiglia. In pieno centro di
Parigi, il suo più illustre prigioniero, il marchese maledetto, Alphonse
De Sade, non teme il gelo; piuttosto l'occhio dei guardiani. Molto
probabilmente, però, loro, non sanno cosa stia facendo. Tutte le notti
di questo freddo ottobre-novembre 1785, alla luce tremula e fioca di una
candela, con fatica ed energia, il marchese compie il suo più vero più
efferato e più reiterato delitto: scrivere. Scrive su minuscoli pezzi di
carta, da una parte e dall'altra. Una grafia piccolissima, precisa, ed
elegantissima, viste le condizioni in cui la pagina è vergata. I
foglietti gli arrivano clandestinamente, pochi alla volta, con la
complicità della moglie e di qualche sodale: sono rettangoli di appena
11,2 cm di larghezza nei quali si dovrà squadernare l'intero catalogo
delle deviazioni sessuali. Sta nascendo, ricopiato pazientemente notte
per notte, il testo delle 120 giornate di Sodoma. Nessuno deve vedere:
giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, i fogli sono incollati (con una
strana mistura, fabbricata anche con la sua urina) e formano un rotolo.
Il rotolo viene messo in sicuro nella cella: sotto il pavimento, nelle
fessure delle pietre. Ogni notte la furtiva scena si ripete.
Il
marchese al carcere ci è abituato. Imprigionato per la prima volta nel
1740 a 23 anni passerà ben 27 anni della sua vita dietro le sbarre di
undici prigioni e fortezze differenti. All'epoca, per essere carcerati
basta poco: una lettera, recante la firma del re e di un suo
funzionario, che ti dichiari malvisto e il gioco è fatto. Al marchese di
queste lettere ne sono arrivate diverse. La sua carriera di carcerato è
molto più solida di quella di scrittore: ogni tanto riesce a far uscire
clandestinamente dalla cella qualche scritto, qualche lettera d'amore,
qualche invettiva. Ma questa volta no. Le cose andranno peggio di come
ha previsto. Ironia della sorte, e della storia, De Sade viene
improvvisamente rilasciato il 2 luglio del 1789. Non ha tempo però di
raccogliere le sue cose, soprattutto la più preziosa, il rotolo delle
120 giornate, che ormai ha raggiunto i dodici metri di lunghezza. Esce e
arringa la folla: distruggetela, questa prigione! Pochi giorni dopo la
Bastiglia cade sotto la sferza dei rivoluzionari: il rotolo è perduto.
Per sempre? come tale lo riterrà il suo autore, fino alla morte o...
Sì,
qualcuno degli insorti lo trova, capisce che si tratta di un pezzo da
collezione (i bibliofili riconoscono sempre la leccornia) e lo vende
alla nobile famiglia dei Villeneuve-Trans. Ecco che il manoscritto,
pezzo unico ed eccezionale, resta in mani private, per tre generazioni.
Le peripezie non sono finite. Nel 1904 il rotolo viene venduto a un
sessuologo berlinese Iwan Bloch, che ne capisce il valore, soprattutto,
dal suo punto di vista, scientifico. Lo trascrive: nasce il catalogo dei
comportamenti "sadici". Gli strafalcioni e gli errori materiali di
Bloch sono molti, ma almeno, finalmente, il testo vede un'edizione
pubblica. Non è finita. Il rotolo è ricomprato nel 1929 dal nobile
Charles de Noailles che ne fa predisporre una nuova edizione, nel 1935.
Una nipote di de Noailles fa poi l'errore di prestarlo a un editore,
sedicente suo amico. Fiutato l'affare, l'editore lo rivende al più
grande collezionista di erotica di sempre: lo svizzero Gérard Nordmann:
siamo nel 1982. Inizia una battaglia legale per il riottenimento del
rotolo, promossa dall'editore Carlo Perrone, erede de Noailles. I
tribunali francese e svizzero arrivano a conclusioni opposte. L'epilogo,
però, è vicino. E arriva, a suon di euro. Il più grande collezionista
di manoscritti al mondo, Gérard Lhéritier, media tra i contendenti e,
sborsando 7 milioni di euro (!), se lo compra e lo riporta finalmente in
Francia dove, per la prima volta (un solo passaggio pubblico
precedente, alla Fondazione Bodmer nel 2004), lo espone, fino al 18
gennaio al pubblico nel suo nuovo Institut des Lettres et Manuscrits
inaugurato per l'occasione in rue de l'Université. Così, oggi, il rotolo
di De Sade troneggia nella sala centrale della mostra, sala alla quale
si arriva dopo avere visto altri capolavori di bibliofilia (i
predecessori del libertinismo, intellettuale ed erotico) e prima di
vedere gli esiti più belli della sua influenza (dal punti di vista della
bibliofilia), con i surrealisti. È una mostra che emoziona, che
istruisce e che racconta. E che, una volta di più, ci fa vedere quante
meraviglie contengano questi miracolosi oggetti di carta. Spero di
averne restituito un briciolo: perché il consiglio non può essere che
andare a vedere di persona.
Il personaggio. Indomito e nobile
di Giuseppe Scaraffia Il Sole Domenica 23.11.14
Era
stato un bambino biondo, altero e insufflato che il mondo doveva
soddisfare i suoi capricci. Quando un augusto compagno di giochi, forte
del suo rango, gli aveva fatto una prepotenza, Donatien Alphonse
François non aveva esitato a tempestarlo di pugni. "La crudeltà, ben
lontana dall'essere un vizio, è il primo sentimento impresso in noi
dalla natura."
Allontanato dei genitori, Sade venne mandato dalla
nonna che lo viziò teneramente, accentuando i suoi difetti. Poi fu
affidato a uno zio abate, uomo colto, raffinato e libertino. Madame de
Sade veniva da una ricca famiglia di recente nobiltà, lieta d'unirsi ai
discendenti dalla Laura di Petrarca. Il marchese era innamorato della
giovane sposa e desiderava molto dei figli. Lei lo ricambiava con foga.
Nelle lettere lui lodava il «bellissimo» deretano e l'anima di Pélagie.
La
sua prima detenzione, nel 1763, per "eccessi di dissolutezza" non
incrinò la solidarietà di Pélagie. Nel 1772 la suocera era diventata la
sua maggiore persecutrice. Al genero non erano bastate le attrici
scandalosamente esibite nel castello, nè le prostitute seviziate. Poco
dopo la nascita del terzo figlio, era fuggito in Italia con la giovane,
innocente cognata.
Malgrado tutte le colpe del marito, la docile e
sgraziata moglie non lo abbandonava, sempre pronta a tacitare col denaro
le vittime dell'aggressivo erotismo del consorte. «Avete immaginato di
far miracoli riducendomi a un'atroce astinenza, l'accusava Sade, ...è
stato uno sbaglio: mi avete infiammato la mente, inducendomi a creare
dei fantasmi che dovrò realizzare». Però restava sempre un padre. Al
teorico dell'incesto la figlia pareva goffa e banale, "una buona, grossa
massaia".
La storia fece irruzione nella cella della Bastiglia nel
1789, proprio quando Sade era riuscito a ottenere, sublime paradosso,
una serratura interna. Nel saccheggio degli insorti andò
(momentaneamente) smarrito anche lo sterminato serpente di carta delle
120 giornate di Sodoma.
Giunto al manicomio di Charenton con un
ordine di carcerazione di "durata illimitata", per i reati di sodomia,
avvelenamento e libertinaggio, Sade vi sarebbe rimasto fino all'anno
seguente, quando la rivoluzione lo liberò. Abbandonate le ultime
esitazioni, l'ex-marchese era entrato nella sezione delle Picche di
Place Vendome. Pur adorando il re, detestava gli abusi della monarchia.
«Cosa sono? Un aristocratico o un repubblicano? Ditemelo voi, per
favore, perchè, per quel che mi riguarda, non ne capisco niente».
Il
terribile inverno del '95 lo sorprese sprovvisto di tutto. L'inchiostro
si gelava nel calamaio e Sade era costretto a tenerlo a bagnomaria. Nel
'97 furono pubblicate la Nuova Justine e Juliette, in cui risuona l'eco
della ferocia politica di quei giorni.
Nel 1801 il marchese fu
arrestato e imprigionato, probabilmente su delazione del suo editore,
benchè negasse la paternità di Juliette . L'obesità dei carcerati aveva
cancellato quasi completamente la sua svelta figura. Soltanto gli occhi
conservavano una strana luminosità, "come una brace morente tra i
carboni spenti". Due anni dopo, su richiesta della famiglia, ansiosa di
privarlo delle ultime proprietà Sade venne trasferito al manicomio di
Charenton.
Nel testamento del 1806 chiese di essere seppellito in un
bosco. Sopra le sue spoglie avrebbero dovuto seminare delle ghiande, in
modo che, appena si fosse riformata la vegetazione, «le tracce della mia
tomba scompaiano dalla faccia della terra...». Quando morì, il 2
dicembre 1814, lasciò il ricordo di un vecchio signore dai modi
squisiti, che pronunciava le peggiori sconcezze con una voce dolcissima,
mentre disegnava sulla sabbia del cortile delle figure oscene.
I racconti Sapeva anche essere tenero
di Chiara Pasetti Il Sole Domenica 23.11.14
Il
conte Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), conosciuto anche
con il soprannome attribuitogli dagli scrittori decadenti della fine del
XIX secolo di «divin marchese», è stato uno dei protagonisti
sotterranei della vita letteraria dell'Ottocento. Le sue opere, benché
circolassero clandestinamente (e nelle biblioteche fossero à l'enfer,
ossia non consultabili) a causa dei crimini commessi dai suoi
personaggi, che l'opinione pubblica attribuiva, a torto, a lui, vennero
lette con grande attenzione dagli autori di quel secolo, su cui ebbero
una forte influenza; in particolare, da Baudelaire e Flaubert, il quale
dichiarava di voler tenere sul comodino dei suoi ospiti tutti i libri
del «grande Sade», e da «pensatore e demoralizzatore» quale era ne
apprezzava moltissimo il pessimismo totale («un po' rancoroso come
quello di tutti i moralisti», secondo il giudizio di Antonio Veneziani),
condito da sagacia, ironia e da una vena iconoclasta particolarmente
vivida, e invitava gli amici a essere come il marchese, «filosofi e
uomini di spirito».
In occasione dell'anniversario della sua morte,
avvenuta duecento anni fa nel ricovero per malati mentali di Charenton
in cui era rinchiuso dal 1803, esce ora una sua raccolta di Storielle
(tratte da Historiettes, Contes et Fabliaux), per molto tempo passate
sotto silenzio; ritrovate e pubblicate postume nel 1926 a cura di
Maurice Heine, che come tutti i surrealisti ne apprezzava lo spirito di
rivolta contro ogni forma di tirannia, vennero composte in carcere nel
1788 come molte altre sue opere, tra cui le ben più celebri Cent Vingt
Journées de Sodome.
Come scrive il curatore Veneziani, sono dodici
raccontini che costituiscono delle «piccole perle, ora divertenti, ora
sognanti, sapide e liberatorie», che sfatano il giudizio negativo spesso
attribuito al suo stile di scrittura, definito da molti critici sciatto
e ripetitivo. Qui de Sade dà prova di una narrazione raffinata e
pulita, che coinvolge il lettore per l'originalità delle vicende e per i
guizzi improvvisi. Ma soprattutto, queste Storielle mostrano un altro
volto dell'autore «nero e terribile». Il torbido sensualismo presente
nei testi più noti, la sessualità perversa, le oscenità e le prosperità
del vizio, la stravaganza morbosa e l'atmosfera sulfurea e malata, da
«tenebroso harem di larve crudeli», tutti «fiori del male» dell'«atroce e
sanguinoso bestemmiatore», lasciano qui il posto a una spassosa
leggerezza, che si compiace del piacere di scrivere e di divertire, e
che rispetta tutti i gusti e le fantasie, anche quelle più bizzarre,
perché trova che siano originate «da un principio di delicatezza». La
frenesia di Justine, i personaggi femminili e maschili tormentati e
viziosi, tragici e delittuosi, qui non trovano spazio, e de Sade si
concede una promenade più rilassata e, appunto, delicata, che incontra
vescovi impantanati e cocchieri costretti alla bestemmia, istitutori
trasgressivi e allievi ingenui, verginelle istruite alla virtù che
istigano invece perversioni di mariti libidinosi, e "maisons de passe"
dove si godono senza pericolo «i piaceri della voluttà». Il tutto
condotto da una vena beffarda che serpeggia in ogni storia, e che
richiama alla mente il giudizio di Apollinaire sul divin marchese, «lo
spirito più libero che sia mai esistito a tutt'oggi», un ironico
libertino che, come lui stesso aveva confessato, ha concepito tutto ciò
che si può concepire in questo ambito (e non solo!), ma... «non ho mai
fatto tutto quello che ho concepito e mai lo farò». Gli crediamo?
Sade non fu mai messo all’Indice
In Francia si fece 28 anni di carcere, le sue opere erano un caso editoriale che dura tutt’ora
di Francesco Margiotta Broglio Corriere 1.12.14
Nel 1947, per la prima volta, varie opere di Sade vengono pubblicate a
Parigi con il nome e l’indirizzo di un editore, Jean-Jacques Pauvert,
che inizia con La storia di Juliette ovvero le prosperità del vizio ,
apparsa in origine nel 1797 con il falso luogo «In Olanda» e arricchita
da cento incisioni. Di essa l’autore negò la paternità, ma i librai non
esitarono a tradirlo, mentre du Ravel dichiarò che egli aveva superato
se stesso con uno scritto ancora più detestabile di quell’infame
«capolavoro di corruzione» rappresentato da Justine (1791), sorella di
Juliette, che sarà seguito dai 4 volumi della Nuova Justine . Nel marzo
1801 Sade viene nuovamente arrestato (in tutto saranno 28 i suoi anni di
carcere) e il manoscritto di Juliette viene sequestrato dalla polizia,
ma i librai parigini nel 1802 fanno a gara per ristampare e diffondere
le sue opere. Si trattava, e così sarà fino al 1947, di edizioni
clandestine o di tirature molto ridotte.
Pauvert, che aveva sfidato tabù sociali e leggi sulla censura
pubblicando 24 volumi di Sade, venne «severamente condannato» nel 1957
dal tribunale di Parigi per aver stampato opere contrarie al buon
costume (delle quali vennero ordinate la confisca e la distruzione),
denunciate dalla Commissione per i libri prevista dalle leggi: tra i
testimoni Paulhan, Bataille, Cocteau, Bréton. L’anno successivo
l’editore, difeso da un principe del foro, Maurice Garçon, accademico di
Francia, verrà assolto in appello per l’acclarata nullità della
decisione della Commissione per l’assenza di alcuni suoi membri.
Come ha scritto lo stesso Pauvert, per la prima volta «veniva
riconosciuto il diritto di esistere all’opera più scandalosa di tutti i
tempi», ma il 21 dicembre 1958 la Francia di de Gaulle approverà una
legge che ripristinava la censura con misure definite da Garçon più dure
di quelle di Napoleone, in quanto con la scusa di tutelare l’infanzia
esse davano il potere al ministro dell’Interno di predisporre una lista
di libri proibiti. Dopo qualche garanzia per gli editori negli anni
Sessanta, il nuovo codice penale del 1994 introdurrà pene severe contro
libri o audiovisivi che diffondessero messaggi violenti o pornografici
violando la dignità umana: ancora Garçon qualificherà le relative norme
«il capolavoro della Censura».
Gli ultimi anni Novanta del Novecento vedranno però l’opera di Sade
consacrata nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard, a
cura di Michel Delon. Gli studi su di lui si erano, peraltro,
moltiplicati, come l’attenzione dei più accreditati intellettuali
mondiali.
Colpisce comunque che negli anni trascorsi dal tempo di Sade, scomparso
esattamente due secoli fa il 2 dicembre 1814, la Chiesa di Roma non paia
essersi accorta dei suoi scritti particolarmente violenti contro la
religione. Negli «Indici dei libri proibiti» pubblicati dal papato in
questo lasso di tempo (l’ultimo è del 1948, nel 1966 l’ Index verrà
eliminato) mai l’autore o qualcuna delle sue opere blasfeme si rinviene
nella nota collezione quasi completa di normative, documenti, elenchi di
scritti pubblicata a Ginevra e a Montréal dal De Bujanda. Non mancano
Voltaire e Rousseau, Casanova e d’Annunzio, Beccaria, Sartre e Simone de
Beauvoir, Zola e Balzac, Fogazzaro e Moravia, Gioberti e Rosmini, Croce
e Gentile, George Sand e Ada Negri, che certo non appartengono al
«mondo alla rovescia» del nostro marchese. Sade peraltro era un grande
conoscitore della Bibbia e la sua «religione» appare «molto più
complessa e paradossale di una antiteologia che si contentasse di
proclamare tutto il contrario dei valori della Chiesa» (Vilmer).
Non si rinviene traccia di Sade nella documentazione conservata negli
archivi romani della «Congregazione dell’Indice», soppressa nel 1917 da
Benedetto XV con l’attribuzione delle relative competenze a quella del
Sant’Uffizio. Non è agevole, quindi, spiegare i silenzi della Chiesa,
che non possono essere dovuti né a distrazione dei censori
ecclesiastici, né alla scarsa notorietà o alla paternità non
immediatamente dichiarata di alcuni scritti, né, ancora, al fatto che le
opere lascive sarebbero ricadute in una generica e originaria condanna.
Opere del genere infatti, in diverse epoche, si ritrovano tra quelle
condannate. Si aggiunga che alla sua morte, nonostante le diverse
disposizioni testamentarie, Sade ebbe diritto ai funerali religiosi e
venne sepolto nel cimitero del manicomio di Charenton in una tomba senza
nome, ma con solo una grande croce di pietra. Le autorità di polizia
furono tranquillizzate: metà dei suoi numerosi manoscritti vennero da
esse sequestrati e dati alle fiamme, l’altra metà chiusi in un baule e
consegnati alla famiglia che, fino alla quinta generazione dei Sade, si
guardò bene dall’aprirlo.
Solo di recente è stato ritrovato ed esposto a Parigi al Museo dei
manoscritti il famoso rouleau , un insieme di fogli clandestini
incollati tra loro sui quali Sade aveva trascritto Le 120 giornate di
Sodoma e che restarono nella sua cella alla Bastiglia quando venne
trasferito a Charenton e, dopo la presa della fortezza nel 1789,
finirono in mani private.
C’è la diffusa convinzione che tutta l’opera di Sade si iscriva «nel
pensiero del suo secolo», rielaborando «assunti ampiamente diffusi della
filosofia illuministica soprattutto nel suo versante ateo e
materialista» (Gorret). Si è parlato di lui come «figlio maledetto dei
Lumi» (Deprun), ma anche di un suo collegamento con la «dottrina
agostiniano-calvinista-giansenista della totale depravazione dell’uomo»
(Crocker), mentre Barthes lo ha accostato a sant’Ignazio e Lacan a Kant.
Di certo il silenzio ecclesiastico sulle sue opere appare tanto più
stupefacente se si tiene conto che, proprio in Juliette , egli immagina
un episodio nettamente blasfemo e mette in ridicolo papa Braschi (Pio
VI) — alla cui «incoronazione» aveva assistito — facendogli scrivere una
lunga «enciclica», intitolata Di tutte le stravaganze dell’uomo , piena
di dottrina e di riferimenti storici, filosofici e teologici, che
esalta l’assassinio e gli assassini. Quel che è più grave è che Juliette
negozia con il Papa — che lei provoca in tutte le forme e definisce
«fantasma orgoglioso» e «vecchia scimmia» — la dissertazione e i suoi
contenuti in cambio di una «immensa orgia, piena di lussuria e di
libertinaggio» che si sarebbe svolta intorno all’altare di San Pietro
protetto da enormi paraventi. Pio VI, comunque, riconosce che
l’elevazione delle idee di Justine è estremamente rara tra le donne e
conclude il suo testo con queste parole: «Tutti i popoli hanno sgozzato
uomini sugli altari dei loro dei. In ogni tempo l’uomo ha provato
piacere versando il sangue dei suoi simili e… talvolta ha mascherato
questa passione con il velo della giustizia, talvolta con quello della
religione. Ma il fondamento, lo scopo era, senza dubbio alcuno, lo
stupefacente piacere che ne provava». Un testo profondamente… sadico (o
sadista?) che sicuramente non dovette sfuggire ai censori ecclesiastici,
ma che continua, dopo più di due secoli, a poter essere letto senza
tema di pene anche solo spirituali.
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