Matteo Pasquinelli: Algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, ombre corte
Risvolto
L'immaginario politico e l'idea di futuro sembrano oggi cancellati
dall'imperativo dell'austerity. Ma quale sarebbe il vero passaggio
rivoluzionario, si chiedevano un tempo Deleuze e Guattari: ritirarsi dal
mercato globale o, al contrario, andare ancora più lontano, "accelerare
il processo"? L'economia è in crisi, ma la tecnologia continua a
evolvere sotto i nostri occhi: i social network sono sempre più
pervasivi, la logistica delle merci sempre più veloce e digitalizzata,
servizi segreti e finanza usano algoritmi sempre più sofisticati per
analizzare e prevedere i comportamenti di massa. E se l'impasse politica
fosse legata all'incapacità di comprendere le nuove astrazioni del
capitale e del lavoro, gli algoritmi che controllano le relazioni
sociali tanto quanto il tempo collettivo congelato dalla finanza in
futures e derivati? Un nuovo nomos tecnologico sembra prendere forma a
livello planetario, dove i poteri tradizionali degli Stati nazione si
intrecciano con le grandi corporation della rete. Un ex direttore della
Cia lo ha riassunto in modo cinico ma efficace: "Uccidiamo persone sulla
base dei metadati".
Rispondendo al recente Manifesto accelerazionista e rilanciando la tesi
del capitalismo cognitivo, gli autori del presente libro sostengono che
lo sviluppo tecnologico possa essere ridisegnato in senso
rivoluzionario, che l'astrazione più estrema dell'intelligenza debba
diventare arma politica e che il futuro sia da riconquistare come
terreno visionario.
Dispositivi politici per rompere le maglie strette della Rete
Algoritmi del capitale. I social network e i Big Data sono da considerare gli esempi che meglio di altri illustrano le tendenze del capitalismo
Benedetto Vecchi, 11.11.2014
A Matteo Pasquinelli va riconosciuto il merito di una costante attenzione critica verso la Rete. E in particolare, da alcuni anni a questa parte, sul legame ormai imprescindibile tra le attività in Rete e i processi di produzione della ricchezza. Sia che si parli dei «meccanismi di cattura» messi in campo dalle imprese che del doppio legame tra finanza, net-economy e cooperazione sociale dentro e fuori la Rete, Pasquinelli ha lavorato alla elaborazione di un’adeguata cassetta per gli attrezzi per la critica del «capitalismo da espropriazione».
Di questa prassi teorica sono testimoni i libri Animal Spirits: A Bestiary of the Commons (Nai), Media Activism: Strategie e pratiche della comunicazione indipendente (DeriveApprodi), nonché i numerosi saggi pubblicati su riviste francesi, portoghesi, spagnole, tedesche e statunitensi. È merito suo anche la traduzione e diffusione nei siti Internet italiani del «manifesto per l’accelerazionismo», testo di un gruppo di intellettuali e militanti europei dal quale prende avvio questo volume collettivo sugli Algoritmi del capitale (ombre corte). Un manifesto che ruota attorno alla centralità della macchina informatica nello sviluppo economico e nella vita sociale.
Già perché i computer e le rete che li collegano hanno una particolarità che spesso viene posta sullo sfondo della riflessione e della analisi del capitalismo contemporaneo: il computer è infatti una «macchina universale», che può cioè svolgere più operazioni a seconda di come possono programmate. Può infatti presiedere l’automazione di una fabbrica, svolgere funzioni amministrative, ma può anche facilitare la comunicazione sociale in quanto strumento comunicativo individuale o come media. Questa sua «universalità» ha due conseguenze destabilizzanti per le gerarchie sociali: la centralità della componente immateriale (il software) e l’accelerazione dei processi lavorativi e comunicativi alimentano infatti una trasformazione continua delle relazioni sociali, che può essere colta, non nella sua cristallizzazione quanto nel suo divenire.
Questo non significa che le macchine non abbiano più nessun ruolo. Continuano, ovviamente, a svolgere una funzione di governo del lavoro vivo, definendo intensità, velocità e divisione tecnica del processo produttivo, ma il centro nella produzione della ricchezza si sposta sempre più nella definizione dei programmi informatici che danno il ritmo e mettono in forma le relazioni tra macchine e essere umano. Allo stesso tempo, consentono di accumulare e elaborare informazioni e dati indispensabili ai processi di valorizzazione del capitale, sia come merci da vendere in forma aggregata sia come «conoscenza» generica da usare nell’innovazione dei prodotti e dei processi lavorativi. Esemplificativi a questo proposito sono i social network e lo sviluppo dei Big Data, veri e propri laboratori dove produzione di merci e complementare alla produzione di contenuti informativi, a loro volta «impacchettati» e «spacchettati» per alimentare altri settori produttivi. Ma anche realtà dove le macchine svolgono un ruolo ancillare rispetto la produzione dei contenuti, merce diffusissima, ma resa scarsa dalle norme dominanti sulla proprietà intellettuale, che legittimano l’espropriazione di quel comune che è la comunicazione sociale.
Il valore del volume curato da Matteo Pasquinelli non sta però solo nel riproporre temi e nodi teorici del cosiddetto capitalismo cognitivo. Rilevanti sono infatti le domande che alcuni degli autori pongono e anche le risposte che tentano di elaborare. Quel che emerge nei processi di «astrazione» dei processi produttivi e la rilevanza del computer in quanto macchina universale è l’apparente costituzione di una «totalità» che non consente contraddizioni e dunque la formazione di un «soggetto» politico antagonista. Alla tecnostruttura del capitale non c’è via d’uscita, se non la sottrazione e la costituzione di spazi sociali liberati dalla logica del profitto che hanno tuttavia l’ambizione di garantire il reddito a chi vi partecipa. Questa è una delle derive affrontate nel volume. Una visione tuttavia parziale e provocatoriamente impolitica, che compare qua e là nelle pagine del libro, ma che ha comunque forti echi nei movimenti sociali. Al moloch della produzione capitalistica viene talvolta contrapposta un «fare società» che prende congedo dalle strutture di dominio e governo capitalista.
Punto di forza di tale elaborazione è la moltiplicazione di figure sociali che passano continuamente il confine tra vita e lavoro, assegnando a quest’ultimo una dimensione coercitiva che nega ogni possibile processo di liberazione. Punto debole è il rifiuto di considerare il capitalismo come un rapporto sociale che definisce gerarchie e rapporti di forza (e dunque di potere) nella società. Un rapporto sociale che non si esaurisce sul posto di lavoro, ma che investe l’insieme delle relazioni sociali. Il «fare società» auspicato dai movimenti sociali è destinato a esemplificare uno «stile di vita» che funzione come motore sia nella sfera del consumo che nei processi di innovazione sociale.
Da questo punto di vista, la sottrazione al moloch della produzione è destinata ad alimentare processi di spoliticizzazione dell’agire sociale: un esito disastroso per i movimenti sociali, che puntano invece a una politicizzazione dell’agire sociale. Allo stesso tempo non è dato per scontato che una maggiore socializzazione e automazione del processo produttivo garantisca la formazione delle condizioni di una fuoriuscita dal capitalismo. La realtà, infatti, attesta che proprio in questa contingenza mostra una forma di dispotismo nelle relazioni sociali che tutto fa presagire, eccetto la fuoriuscita dal capitalismo.
Non si tratta dunque, attendere che lo sviluppo capitalistica raggiunga il suo acme affinché si creino le condizioni per il suo superamento, né di ritrarsi di fronte la tendenza «totalitaria» del processo produttivo. Più realisticamente, agli «algoritmi del capitale» vanno contrapposti dispositivi politici tesi a destrutturare la gabbia del lavoro salariato. Nei quali non c’è un solo protagonista — il knowledge workers o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa — ma l’insieme delle figure lavorative. E’ questa la sfida da giocare, affinché si determini l’auspicato errore di sistema degli algoritmi del capitale.
Il diagramma di flusso della libertà
Tempi presenti. Il volume collettivo «Gli algoritmi del capitale» affronta il nodo del rapporto degli esseri umani con le macchine all’interno della produzione di ricchezza e della comunicazione on-line. Una discussione a più voci a partire dal «manifesto per una politica accelerazionista»
Andrea Fumagalli, il Manifesto 11.11.2014
Il rapporto tra macchine e capitalismo è strettamente connesso e imprescindibile. Il capitalismo come sistema di produzione (accumulazione) e di organizzazione del lavoro (comando) nasce con la nascita della macchina moderna. L’evoluzione del capitalismo si può descrivere come processo di evoluzione della struttura macchinica. Gilles Deleuze nel 1990, in un’intervista con Toni Negri, affermava: «Ad ogni tipo di società (…) si può far corrispondere un tipo di macchina: le macchine semplici o dinamiche per le società di sovranità, le macchine energetiche per quelle disciplinari, le cibernetiche e i computer per le società di controllo. Ma le macchine non spiegano nulla, si devono invece analizzare i concatenamenti collettivi di cui le macchine non sono che un aspetto». «Le macchine non spiegano nulla», diceva Deleuze. A ragione, dal momento che l’evoluzione del capitalismo è dettato dalla dialettica del rapporto sociale tra macchina (capitale) e lavoro, un rapporto, come ci ricordava il Tronti di Operai e capitale in cui il capitale (a differenza del lavoro) non può prescindere dal lavoro vivo umano. Ma forse, anche a torto, se analizziamo la recente evoluzione del «macchinico», neologismo che, sviluppato dal Gilbert Simondon e dallo stesso Deleuze, ci è utile per discutere criticamente la possibile (auspicabile?) metamorfosi del divenire umano delle macchine.
La variabile del tempo
Questo è il tema di fondo che innerva la raccolta di saggi, curata da Matteo Pasquinelli, Gli Algoritmi del Capitale, (Ombre Corte, pp. 190, Euro 18,00). Si tratta di un contributo molto importante e utile perché, nel solco della metodologia d’analisi che viene dall’operaismo, si cerca di indagare quella che possiamo definire in termini marxiani la nuova «composizione organica del capitale». Il tema della trasformazione delle macchine nel passaggio dal capitalismo fordista a quello biocognitivo è stato negli ultimi anni messo un po’ da parte a vantaggio della doverosa analisi del divenire della composizione tecnica del lavoro. Non si vuole con ciò affermare che non sia stato affrontato, tutt’altro. Il saggio di Matteo Pasquinelli «Capitalismo macchinico e plusvalore di rete. Note sull’economia politica della macchina di Turing» né è la conferma. Con estrema chiarezza, Pasquinelli ricostruisce il filo rosso che dalla macchina industriale, perno della produzione materiale, porta alla macchina di Turing, emblema della macchina virtuale, perno della valorizzazione del general intellect.
Il tema delle trasformazione della macchine nel macchinico non può essere analizzato se non in relazione al tempo e al lavoro vivo ad esso connesso.
La variabile tempo e soprattutto la costante accelerazione del tempo è una delle chiave di volta dell’organizzazione capitalistica della produzione. Macchina e tempo sono sempre strettamente connessi e il progresso tecnologico non è altro che la tendenza alla riduzione del tempo di produzione. Ma se tale obiettivo ai tempi del cronometro della fabbrica si poteva coniugare con una possibile riduzione anche del tempo di lavoro (come la storia del Novecento ci insegna), seppur a scapito dell’equilibrio ambientale, oggi l’accelerazione indotta dai tempi del computer non solo non può evitare la catastrofe ambientale ma può anche indurre quella sociale.
Il tema dell’accelerazionismo viene affrontata nella prima parte del volume, con la presentazione per la prima volta in italiano del Manifesto per una politica accelerazionista di Alex Williams e Nick Srnicek (Mpa). La tesi è suggestiva. Partendo dalla considerazione che il capitalismo non è altro che il processo di accelerazione dell’automazione (concetto ben diverso da velocità, come sottolinea Toni Negri nel suo contributo: il primo indica una tendenza dinamica, la seconda una variabile statica), oggi caratterizzata dalla tecnologie digitali, cercare di inseguirlo è inutile e inoltre perdente.
Pianificatori postcapitalisti
Il motivo sta che questa accelerazione si basa oggi, a differenza del passato, sulla compressione e comando della potenza del lavoro cognitivo. Il processo di tendenziale instabilità e quindi autodistruzione dello stesso capitalismo non si fronteggia ponendo barriere alla sua folle corsa, bensì operando per «liberare le forze produttive latenti». A tal fine, è necessario per la sinistra «sviluppare un’egemonia sia nella sfera delle idee che nella sfera delle piattaforme materiali» al fine di creare le premesse per «una pianificazione post-capitalista». (Si noti bene, come ci ricorda nel suo contributo Dier-Whiteford, che tale tentativo aveva già avuto luogo ai tempi dell’Unione Sovietica e del Cile di Allende, ma ancora in un contesto taylorista). «Per far questo, la sinistra deve approfittare di ogni progresso tecnologico e scientifico reso possibile dalla società capitalista». Tre sono gli strumenti concreti: «costruire un’infrastruttura intellettuale», «promuovere una riforma dei mezzi di comunicazione su larga scala» e infine, «ricostruire varie forme di potere di classe».
Toni Negri e Franco Berardi «Bifo» discutono dell’accelerazionismo partendo da due punti diversi, seppur complementari. Negri — pur apprezzando l’innovatività del manifesto nel riconoscere il superamento irreversibile del fordismo, la necessità di agire all’interno di una composizione tecno-politica del capitale e l’esigenza di individuare nuove modalità di organizzazione del lavoro cognitivo — vi nota un eccesso di determinismo tecnologico che «sottovaluta (…) la dimensione cooperativa della produzione (e tanto più la produzione di soggettività), (…) le trasformazioni antropologiche della forza-lavoro». Su questa linea, in modo molto più netto, si pone Bifo: «(Il mpa) sottovaluta completamente gli ostacoli e i limiti che ostacolano e dirottano il processo di soggettivazione» sino a dar corpo a una nuova forma di «immanentismo tecnologico»: «la posizione accelerazionista (…) è una manifestazione estrema della concezione immanentista», in quanto «il loro materialismo radicale implica la natura immanente della possibilità, ma questa immanenza del possibile non implica una necessità logica». Qui, l’inguaribile ottimismo di Negri si scontra con il pessimismo cosmico di Bifo.
Non solo social media
Sul tema Matteo Pasquinelli cerca di sviluppare una mediazione che apre alle altre due parti di cui si compone il libro, recuperando il concetto marxiano di astrazione. Lavoro e capitale si combinano continuamente ad un livello crescente di astrazione, reso possibile dalla trasformazione della macchina in algoritmi linguistici. Ed è proprio il linguaggio che innerva sia il lavoro vivo che il lavoro morto a rappresentare la chiave di volta nel passaggio dal fordismo al capitalismo del general intellect. Non si tratta solo di linguaggio umano, ma di linguaggio artificiale, in grado di definire la base del processo di accumulazione e quindi di valorizzazione. La sfida politica diventa così la necessità di riappropriarsi del linguaggio. Detto in altri termini, riappropriarsi del «comune» (al singolare) prodotto dalla cooperazione sociale a tutti i livelli del processo economico. Su questo tema si soffermano Mercedes Bunz e Stefano Harvey riguardo il lavoro, mentre Tiziana Terranova affronta invece il ruolo svolto dai social media. Nella terza parte del volume, significativamente intitolata «L’autonomia del comune», Carlo Vercellone si interroga sulla necessità di ridefinire un nuovo welfare adeguato a queste trasformazione e Christian Marazzi analizza il ruolo del linguaggio nei mercati finanziari e la possibilità di fondare una «moneta del comune».
Nessun commento:
Posta un commento