giovedì 20 novembre 2014

Costruire un precario carisma politico nell'epoca del bonapartismo postmoderno

Christian Salmon: La politica nell'era dello storytelling, Fazi

Risvolto
L’homo politicus tradizionale è un animale in via di estinzione? Prima la rivoluzione neoliberista degli anni Ottanta, poi l’avvento della rete e della società della comunicazione: i politici sono ormai sottoposti alle ingerenze di entità esterne, come il mercato, e chiamati a dire la loro in continuazione, a mettere la faccia – e il corpo – a disposizione dei media.
Il loro lavoro è sempre più una performance per catalizzare l’attenzione e suscitare emozioni intrattenendo un elettorato sempre più vorace. Non sarà che in questo nuovo circo politico-mediatico proprio i governanti finiscono vittime di un gioco sacrificale?

Christian Salmon è scrittore e membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage (CNRS). Nel 1993 ha fondato, con la collaborazione di più di trecento intellettuali provenienti da ogni parte del mondo (tra cui Salman Rushdie, Jacques Derrida, Toni Morrison, Javier Marìas e gli italiani Antonio Tabucchi, Claudio Magris, Vincenzo Consolo), il Parlamento internazionale degli scrittori. Autore di diversi volumi, in italiano sono stati tradotti Intervista con Milan Kundera (minimum fax, 1999) e Diventare minoritari. Per una nuova politica della letteratura (con Joseph Hanimann, Bollati Boringhieri, 2004).
Dopo l’uscita di Storytelling in Francia, gli è stata affidata una rubrica sul quotidiano «Le Monde» per parlare proprio del fenomeno descritto nel libro.
                


Da Andersen ai talk show la fiaba del politico nudo 

Nell’era dellostorytellingla sua credibilità è affidata agli abiti falsi cuciti per lui dagli spin doctor. Il nuovo pamphlet di Christian Salmon
Christian Salmon La Stampa 20 11 2014
In questo libro tratteggio il ritratto collettivo di una nuova generazione di politici che, al di là delle affiliazioni partitiche, riunisce come in un’unica foto di famiglia capi di Stato come Bill Clinton, George W. Bush, Tony Blair, Silvio Berlusconi, Nicolas Sarkozy, José Luis Zapatero, e di cui Manuel Valls in Francia e Matteo Renzi in Italia sono gli ultimi avatar. Questi uomini di Stato sono «prodotti» politici dotati di una forte identità di marca e raccontano una storia in grado di nutrire la famelica agenda dei media. Inviano dei segnali all’opinione pubblica. Dei segnali d’ottimismo in piena crisi di fiducia, dei segnali di volontarismo mentre ci troviamo in una situazione di perdita della sovranità, dei segnali di serietà e di rigore all’indirizzo dei mercati. Ciò che questi uomini di Stato di nuova generazione hanno in comune è proprio l’essere il prodotto di un paradosso: sono chiamati a governare nel contesto del declino della sovranità statale. 

La perdita di sovranità dello Stato provocata dalla globalizzazione neoliberista s’accompagna da trent’anni a una sovraesposizione mediatica che confina con la divorazione. L’una si nutre dell’altra. Sembrerebbe proprio che la perdita di sovranità degli Stati abbia bisogno di capi di Stato privati della loro credibilità. La politica così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi due secoli è arrivata al capolinea. L’Homo politicus è ancora attaccato allo Stato ma la sovranità statale fugge dappertutto. La globalizzazione l’ha privato dei suoi poteri e dei suoi attributi. Il racconto dei media lo descrive come assoggettato a desideri tirannici. I potenti non hanno più le sembianze dei sovrani ma quelle di soggetti di conversazione, personaggi di serie tv sui quali proiettiamo i nostri desideri contraddittori. La presidenza è diventata un puro oggetto fantasma, il teatro della sovranità perduta. E, paradossalmente, è questa demistificazione radicale che ci affascina, che fa spettacolo… 
La mediasfera, con i suoi talk show e i suoi social network, i suoi editoriali e le sue breaking news, la sua drammaturgia, il suo ritmo 24/7, i suoi commentatori, i suoi portavoce, i suoi leader di opinione e i suoi community manager, costituisce il teatro della sovranità perduta. Gli uomini dello Stato «insovrano» vi sono convocati non più con la maestà dei sovrani di un tempo, ma come impostori esposti al pubblico ludibrio. Sono costantemente sottoposti a un processo di verifica e a un obbligo di performance. L’insovranità si manifesta fin nelle vicende della loro vita intima… Ciò che li minaccia, ormai, non è più solo l’impopolarità o la perdita del potere, ma il burn out professionale, l’esaurimento, il male di quelli che hanno spremuto fino all’ultima delle proprie possibilità… L’Homo politicus che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli è destinato a scomparire. Cerca la sua strada altrove, alla cieca, in quella zona grigia dove la politica perde i suoi diritti. L’esercizio del potere politico è circondato da sospetti; circostanza che conferisce alla scena politica il suo carattere di farsa felliniana, di commedia degli errori. In realtà, «il re è nudo», e si vede. [...]
Il celebre racconto di Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore non smette di narrare a generazioni di bambini le trappole e i misteri della sovranità. Ma quello che, due secoli fa, aveva valore di avvertimento, è diventato ormai una semplice constatazione. «Il re è nudo», si sente dire sempre più spesso. La metafora di Andersen rischiara ormai la scena della sovranità perduta. Ricordiamo semplicemente che nella storia si parla di un imperatore che amava i begli abiti al punto da cambiarsi ogni ora. Informati di questa mania, due furfanti cercano di trarne profitto. Si presentano a corte e propongono all’imperatore di tessere per lui una stoffa magica, intrecciata con fili d’oro, che ha la stupefacente proprietà di risultare invisibile a tutti quelli che non possiedono le doti morali richieste dalla loro funzione. Una stoffa «smart» ante litteram, in qualche modo capace di captare e analizzare un segnale e di rispondere in modo adeguato. Il re ordina subito un nuovo abito fatto con questa stoffa. Questo fashion addicted aveva per una volta una scusa: tali preziose vesti gli avrebbero consentito di distinguere i collaboratori intelligenti da quelli imbecilli. 
I due furfanti fanno portare due telai e si mettono a lavoro tenendo per sé la seta della miglior qualità e l’oro richiesti per gli abiti. Impaziente, l’imperatore chiede a diversi suoi ministri di andare a controllare e di tenerlo informato sullo stato di avanzamento del lavoro. Uno dopo l’altro questi constatano che non c’è proprio nessuna stoffa ma, temendo di passare per degli idioti, si guardano bene dall’ammetterlo. A sua volta anche l’imperatore fa la stessa esperienza, e anche lui preferisce estasiarsi davanti alla stoffa invisibile piuttosto che fare la figura dell’imbecille. Arriva il momento di prepararsi per una cerimonia. L’imperatore non riesce a sottrarsi e deve indossare lo splendido abito. I due imbroglioni lo aiutano a vestirsi vantandogli la qualità e la bellezza della stoffa, di una leggerezza tale da essere a malapena percepibile sulla pelle. 
Così svestito, l’imperatore si mette alla testa di una processione seguito dai suoi ciambellani, che fingono di reggere lo strascico del suo mantello. La leggenda dell’abito magico l’aveva preceduto nel regno. Così quando si presenta senza veli davanti ai suoi sudditi nessuno osa affermare che è nudo. La mistificazione continua a funzionare perché tutti temono di passare per sciocchi, fin quando un bambino, all’oscuro del sotterfugio, rompe il sortilegio gridando: «Ma il re è nudo!». La terribile evidenza si diffonde così tra la folla e ciascuno ripete mormorando le parole del bambino al proprio vicino. A poco a poco tutti si arrendono all’evidenza: il re è proprio nudo mentre continua a sfilare davanti ai suoi sudditi nella più umile delle tenute. 
I vestiti nuovi dell’imperatore prende un nuovo senso nell’era del declino della sovranità statale. Al centro del racconto c’è un re più preoccupato della sua immagine che degli affari di Stato. Poco accorto, affida a due imbroglioni la gestione della sua immagine, un po’ come un capo di Stato che oggi fa appello agli esperti di comunicazione. Gli imbroglioni di Andersen, come gli spin doctors dei nostri giorni, sono convinti che solo la percezione conti e che abbiano il potere di influenzarla grazie al filo d’oro degli elementi discorsivi, al tessuto delle storie e alla seta dei sondaggi. Il re è nudo ma gli abiti falsi dello storytelling lo rendono degno di ammirazione e gli consentono di smascherare gli «imbecilli» che non credono al potere della comunicazione. 
L’imperatore di Andersen è un magnifico ritratto dei nostri capi di Stato indeboliti. Spogliati del potere di agire, che è scivolato dalle loro mani in quelle delle multinazionali e dei mercati finanziari, la loro autorità è appesa al fragile filo della credenza collettiva. A essere eletto non è tanto chi riesce a convincere della propria capacità di agire, ma del suo potere illusionistico. «Yes we can». «Insieme tutto è possibile». «Il cambiamento è adesso».
In questo libro tratteggio il ritratto collettivo di una nuova generazione di politici che, al di là delle affiliazioni partitiche, riunisce come in un’unica foto di famiglia capi di Stato come Bill Clinton, George W. Bush, Tony Blair, Silvio Berlusconi, Nicolas Sarkozy, José Luis Zapatero, e di cui Manuel Valls in Francia e Matteo Renzi in Italia sono gli ultimi avatar. Questi uomini di Stato sono «prodotti» politici dotati di una forte identità di marca e raccontano una storia in grado di nutrire la famelica agenda dei media. Inviano dei segnali all’opinione pubblica. Dei segnali d’ottimismo in piena crisi di fiducia, dei segnali di volontarismo mentre ci troviamo in una situazione di perdita della sovranità, dei segnali di serietà e di rigore all’indirizzo dei mercati. Ciò che questi uomini di Stato di nuova generazione hanno in comune è proprio l’essere il prodotto di un paradosso: sono chiamati a governare nel contesto del declino della sovranità statale. 
La perdita di sovranità dello Stato provocata dalla globalizzazione neoliberista s’accompagna da trent’anni a una sovraesposizione mediatica che confina con la divorazione. L’una si nutre dell’altra. Sembrerebbe proprio che la perdita di sovranità degli Stati abbia bisogno di capi di Stato privati della loro credibilità. La politica così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi due secoli è arrivata al capolinea. L’Homo politicus è ancora attaccato allo Stato ma la sovranità statale fugge dappertutto. La globalizzazione l’ha privato dei suoi poteri e dei suoi attributi. Il racconto dei media lo descrive come assoggettato a desideri tirannici. I potenti non hanno più le sembianze dei sovrani ma quelle di soggetti di conversazione, personaggi di serie tv sui quali proiettiamo i nostri desideri contraddittori. La presidenza è diventata un puro oggetto fantasma, il teatro della sovranità perduta. E, paradossalmente, è questa demistificazione radicale che ci affascina, che fa spettacolo… 
La mediasfera, con i suoi talk show e i suoi social network, i suoi editoriali e le sue breaking news, la sua drammaturgia, il suo ritmo 24/7, i suoi commentatori, i suoi portavoce, i suoi leader di opinione e i suoi community manager, costituisce il teatro della sovranità perduta. Gli uomini dello Stato «insovrano» vi sono convocati non più con la maestà dei sovrani di un tempo, ma come impostori esposti al pubblico ludibrio. Sono costantemente sottoposti a un processo di verifica e a un obbligo di performance. L’insovranità si manifesta fin nelle vicende della loro vita intima… Ciò che li minaccia, ormai, non è più solo l’impopolarità o la perdita del potere, ma il burn out professionale, l’esaurimento, il male di quelli che hanno spremuto fino all’ultima delle proprie possibilità… L’Homo politicus che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli è destinato a scomparire. Cerca la sua strada altrove, alla cieca, in quella zona grigia dove la politica perde i suoi diritti. L’esercizio del potere politico è circondato da sospetti; circostanza che conferisce alla scena politica il suo carattere di farsa felliniana, di commedia degli errori. In realtà, «il re è nudo», e si vede. [...]
Il celebre racconto di Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore non smette di narrare a generazioni di bambini le trappole e i misteri della sovranità. Ma quello che, due secoli fa, aveva valore di avvertimento, è diventato ormai una semplice constatazione. «Il re è nudo», si sente dire sempre più spesso. La metafora di Andersen rischiara ormai la scena della sovranità perduta. Ricordiamo semplicemente che nella storia si parla di un imperatore che amava i begli abiti al punto da cambiarsi ogni ora. Informati di questa mania, due furfanti cercano di trarne profitto. Si presentano a corte e propongono all’imperatore di tessere per lui una stoffa magica, intrecciata con fili d’oro, che ha la stupefacente proprietà di risultare invisibile a tutti quelli che non possiedono le doti morali richieste dalla loro funzione. Una stoffa «smart» ante litteram, in qualche modo capace di captare e analizzare un segnale e di rispondere in modo adeguato. Il re ordina subito un nuovo abito fatto con questa stoffa. Questo fashion addicted aveva per una volta una scusa: tali preziose vesti gli avrebbero consentito di distinguere i collaboratori intelligenti da quelli imbecilli. 
I due furfanti fanno portare due telai e si mettono a lavoro tenendo per sé la seta della miglior qualità e l’oro richiesti per gli abiti. Impaziente, l’imperatore chiede a diversi suoi ministri di andare a controllare e di tenerlo informato sullo stato di avanzamento del lavoro. Uno dopo l’altro questi constatano che non c’è proprio nessuna stoffa ma, temendo di passare per degli idioti, si guardano bene dall’ammetterlo. A sua volta anche l’imperatore fa la stessa esperienza, e anche lui preferisce estasiarsi davanti alla stoffa invisibile piuttosto che fare la figura dell’imbecille. Arriva il momento di prepararsi per una cerimonia. L’imperatore non riesce a sottrarsi e deve indossare lo splendido abito. I due imbroglioni lo aiutano a vestirsi vantandogli la qualità e la bellezza della stoffa, di una leggerezza tale da essere a malapena percepibile sulla pelle. 
Così svestito, l’imperatore si mette alla testa di una processione seguito dai suoi ciambellani, che fingono di reggere lo strascico del suo mantello. La leggenda dell’abito magico l’aveva preceduto nel regno. Così quando si presenta senza veli davanti ai suoi sudditi nessuno osa affermare che è nudo. La mistificazione continua a funzionare perché tutti temono di passare per sciocchi, fin quando un bambino, all’oscuro del sotterfugio, rompe il sortilegio gridando: «Ma il re è nudo!». La terribile evidenza si diffonde così tra la folla e ciascuno ripete mormorando le parole del bambino al proprio vicino. A poco a poco tutti si arrendono all’evidenza: il re è proprio nudo mentre continua a sfilare davanti ai suoi sudditi nella più umile delle tenute. 
I vestiti nuovi dell’imperatore prende un nuovo senso nell’era del declino della sovranità statale. Al centro del racconto c’è un re più preoccupato della sua immagine che degli affari di Stato. Poco accorto, affida a due imbroglioni la gestione della sua immagine, un po’ come un capo di Stato che oggi fa appello agli esperti di comunicazione. Gli imbroglioni di Andersen, come gli spin doctors dei nostri giorni, sono convinti che solo la percezione conti e che abbiano il potere di influenzarla grazie al filo d’oro degli elementi discorsivi, al tessuto delle storie e alla seta dei sondaggi. Il re è nudo ma gli abiti falsi dello storytelling lo rendono degno di ammirazione e gli consentono di smascherare gli «imbecilli» che non credono al potere della comunicazione. 
L’imperatore di Andersen è un magnifico ritratto dei nostri capi di Stato indeboliti. Spogliati del potere di agire, che è scivolato dalle loro mani in quelle delle multinazionali e dei mercati finanziari, la loro autorità è appesa al fragile filo della credenza collettiva. A essere eletto non è tanto chi riesce a convincere della propria capacità di agire, ma del suo potere illusionistico. «Yes we can». «Insieme tutto è possibile». «Il cambiamento è adesso».

Lo studioso francese Christian Salmon spiega come i protagonisti di oggi, da Obama a Hollande, cerchino il consenso solo con espedienti “narrativi”
“La politica prigioniera dei racconti dei suoi leader”
di Anais Ginori Repubblica 24.11.14
PARIGI SIAMO diventati tutti cannibali. Affamati di storie e colpi di scena, divoriamo i nostri rappresentanti politici come fossero oggetti di consumo, dimenticando che il piatto finale di questo banchetto funesto è la democrazia, il sistema istituzionale che abbiamo faticosamente costruito. «Il dibattito delle idee è passato dall’età della confronto a quello dell’interattivo, del performativo e dello spettrale» racconta Christian Salmon, autore di numerosi saggi su censura e narrazione.
Dopo aver pubblicato qualche anno fa l’illuminante Storytelling, Salmon torna con un nuovo libro dedicato all’assoggettamento dei politici alla narrazione e alla performance. La politica nell’era dello storytelling è un’inchiesta sulla nuova generazione di uomini pubblici, da Bill Clinton a Matteo Renzi, protagonisti di una commedia mediatica permanente che li ha lentamente resi nudi e “potenti impotenti” come scrive Salmon. «La comunicazione politica — continua — non mira più solo a formattare il linguaggio, ma a incantare gli spiriti e sprofondarli in un universo spettrale di cui i politici sono al tempo stesso performer e vittime».
L’obbligo della “narrazione” sta uccidendo la politica?
«Quando ho scritto Storytelling volevo allertare sui pericoli della narrazione nel management, nel marketing, nella comunicazione politica. Ormai è cosa nota. Lo storytelling ha invaso le nostre vite. È una sorta di pensiero magico usato dai comunicatori, una vulgata che scredita ancora di più la parola pubblica. In questo nuovo libro analizzo gli effetti dissolventi e divoranti dello storytelling sull’homo politicus e sulla sfera pubblica».
Siamo assistendo a una ‘cerimonia cannibale’, titolo originale del libro?
«Il dramma che si recita non è altro che il divoramento dell’uomo politico per come l’abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni. Per l’effetto combinato del neoliberismo, le nuove tecnologie e la rivoluzione della comunicazione, la scena politica si è spostata dai luoghi tradizionali dell’esercizio del potere verso quelli performance come i media all news, Internet e i social network».
In cosa consiste la trappola della “insovranità”?
«La simbologia del potere funziona solo con una sovranità reale. La globalizzazione neoliberista e la costruzione europea hanno distrutto la sovranità degli Stati. È scomparso il legame tra l’incarnazione del potere e il potere di agire. Da un lato ci sono po- teri senza volto — i mercati, le agenzie di rating, Bruxelles — e dall’altro volti di impotenti. Lo sviluppo dei social network e dei canali all news non ha fatto altro che aggravare la situazione. Più gli uomini politici sono esposti mediaticamente, più la loro impotenza è lampante. È un circolo vizioso ».
L’uomo politico è diventato un oggetto di consumo?
«Il tempo lungo delle deliberazioni democratiche ha lasciato il posto al tempo reale dei canali di informazione. L’uomo di Stato si presenta ormai più come un oggetto di consumo che come una figura autorevole: è diventato un artefatto della sottocultura di massa e non è più visto come un’istanza produttrice di norme. Un personaggio di serie tv sottomesso all’obbligo della performance».
Esistono delle eccezioni?
«Da Bill Clinton a Nicolas Sarkozy, passando per Tony Blair, George Bush e Barack Obama, ogni capo di Stato è costretto a essere onnipresente fino a banalizzarsi, sovraesposto sotto alla lente d’ingrandimento dei media. Si crea una distanza ravvicinata persino oscena. Siamo passati dal ‘doppio corpo’ del Re studiato da Kantorowicz al ‘corpo aumentato’ dei telepresidenti. È il corpo sudato di Sarkozy, quello spettrale di Berlusconi. È la silhouette lunga di Obama, sottile quanto un logo. Gli uomini politici diventano virtuali, angeli digitali. Subiscono fluttuazioni nei sondaggi con la stessa volatilità di un’azione in Borsa. La simbologia del sovrano scompare».
François Hollande è un pessimo narratore?
«Ha perso la battaglia delle parole, adottando il linguaggio della destra sui temi economici e senza riuscire a proporre un racconto alternativo che sia capace di dare senso alla sua azione. Ha fallito anche sull’immagine. È precipitato nel bagno dell’acido mediatico, com’era già successo a Clinton o a Berlusconi con il bunga bunga. Hollande ormai appare slavato, senza più credibilità.Nudo».
Cosa pensa della sovraesposizione e del successo mediatico di Matteo Renzi?
«Il Titanic aveva un problema di iceberg. Non un problema di comunicazione. L’ha detto Paul Begala (ex consigliere di Clinton, ndr.) a proposito dell’amministrazione Obama. Vale anche per Matteo Renzi. Mi sembra impegnato in una fuga in avanti che può creare un’illusione ma solo momentanea. Fa parte di quello che definisco ‘paradosso del volontarismo impotente’».
In politica, si tenta di mascherare la mancanza di autorità con il volontarismo?
«Il volontarismo è la forma che assume la volontà politica quando il potere è privo di mezzi. Viene esibita una volontà ancora più forte, raddoppiandone l’intensità, per tentare di recuperare credibilità. Ma questa prova di forza non fa altro che accentuare il sentimento di impotenza dello Stato. E si entra così in una spirale di perdita di legittimità».
Qual è la responsabilità dei media?
«La mediasfera è il teatro della sovranità perduta. È la ribalta per uno strip-tease in cui l’homo politicus si spoglia a poco a poco dei suoi poteri, dei suoi attributi, del suo prestigio, della sua maestà, fino a perdere dignità. È il prezzo da pagare per catturare l’attenzione sempre più reticente dell’opinione pubblica. La ribalta di questo spogliarello è la televisione. In verità, l’uomo politico sta forse scomparendo al culmine della sua sovraesposizione mediatica. Parafrasando una formula di Martin Amis, direi: “He has vanished into the front page”. È scomparso in prima pagina».

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