La mediasfera, con i suoi talk show e i suoi social network, i suoi editoriali e le sue breaking news, la sua drammaturgia, il suo ritmo 24/7, i suoi commentatori, i suoi portavoce, i suoi leader di opinione e i suoi community manager, costituisce il teatro della sovranità perduta. Gli uomini dello Stato «insovrano» vi sono convocati non più con la maestà dei sovrani di un tempo, ma come impostori esposti al pubblico ludibrio. Sono costantemente sottoposti a un processo di verifica e a un obbligo di performance. L’insovranità si manifesta fin nelle vicende della loro vita intima… Ciò che li minaccia, ormai, non è più solo l’impopolarità o la perdita del potere, ma il burn out professionale, l’esaurimento, il male di quelli che hanno spremuto fino all’ultima delle proprie possibilità… L’Homo politicus che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli è destinato a scomparire. Cerca la sua strada altrove, alla cieca, in quella zona grigia dove la politica perde i suoi diritti. L’esercizio del potere politico è circondato da sospetti; circostanza che conferisce alla scena politica il suo carattere di farsa felliniana, di commedia degli errori. In realtà, «il re è nudo», e si vede. [...]
Il celebre racconto di Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore non smette di narrare a generazioni di bambini le trappole e i misteri della sovranità. Ma quello che, due secoli fa, aveva valore di avvertimento, è diventato ormai una semplice constatazione. «Il re è nudo», si sente dire sempre più spesso. La metafora di Andersen rischiara ormai la scena della sovranità perduta. Ricordiamo semplicemente che nella storia si parla di un imperatore che amava i begli abiti al punto da cambiarsi ogni ora. Informati di questa mania, due furfanti cercano di trarne profitto. Si presentano a corte e propongono all’imperatore di tessere per lui una stoffa magica, intrecciata con fili d’oro, che ha la stupefacente proprietà di risultare invisibile a tutti quelli che non possiedono le doti morali richieste dalla loro funzione. Una stoffa «smart» ante litteram, in qualche modo capace di captare e analizzare un segnale e di rispondere in modo adeguato. Il re ordina subito un nuovo abito fatto con questa stoffa. Questo fashion addicted aveva per una volta una scusa: tali preziose vesti gli avrebbero consentito di distinguere i collaboratori intelligenti da quelli imbecilli.
I due furfanti fanno portare due telai e si mettono a lavoro tenendo per sé la seta della miglior qualità e l’oro richiesti per gli abiti. Impaziente, l’imperatore chiede a diversi suoi ministri di andare a controllare e di tenerlo informato sullo stato di avanzamento del lavoro. Uno dopo l’altro questi constatano che non c’è proprio nessuna stoffa ma, temendo di passare per degli idioti, si guardano bene dall’ammetterlo. A sua volta anche l’imperatore fa la stessa esperienza, e anche lui preferisce estasiarsi davanti alla stoffa invisibile piuttosto che fare la figura dell’imbecille. Arriva il momento di prepararsi per una cerimonia. L’imperatore non riesce a sottrarsi e deve indossare lo splendido abito. I due imbroglioni lo aiutano a vestirsi vantandogli la qualità e la bellezza della stoffa, di una leggerezza tale da essere a malapena percepibile sulla pelle.
Così svestito, l’imperatore si mette alla testa di una processione seguito dai suoi ciambellani, che fingono di reggere lo strascico del suo mantello. La leggenda dell’abito magico l’aveva preceduto nel regno. Così quando si presenta senza veli davanti ai suoi sudditi nessuno osa affermare che è nudo. La mistificazione continua a funzionare perché tutti temono di passare per sciocchi, fin quando un bambino, all’oscuro del sotterfugio, rompe il sortilegio gridando: «Ma il re è nudo!». La terribile evidenza si diffonde così tra la folla e ciascuno ripete mormorando le parole del bambino al proprio vicino. A poco a poco tutti si arrendono all’evidenza: il re è proprio nudo mentre continua a sfilare davanti ai suoi sudditi nella più umile delle tenute.
I vestiti nuovi dell’imperatore prende un nuovo senso nell’era del declino della sovranità statale. Al centro del racconto c’è un re più preoccupato della sua immagine che degli affari di Stato. Poco accorto, affida a due imbroglioni la gestione della sua immagine, un po’ come un capo di Stato che oggi fa appello agli esperti di comunicazione. Gli imbroglioni di Andersen, come gli spin doctors dei nostri giorni, sono convinti che solo la percezione conti e che abbiano il potere di influenzarla grazie al filo d’oro degli elementi discorsivi, al tessuto delle storie e alla seta dei sondaggi. Il re è nudo ma gli abiti falsi dello storytelling lo rendono degno di ammirazione e gli consentono di smascherare gli «imbecilli» che non credono al potere della comunicazione.
L’imperatore di Andersen è un magnifico ritratto dei nostri capi di Stato indeboliti. Spogliati del potere di agire, che è scivolato dalle loro mani in quelle delle multinazionali e dei mercati finanziari, la loro autorità è appesa al fragile filo della credenza collettiva. A essere eletto non è tanto chi riesce a convincere della propria capacità di agire, ma del suo potere illusionistico. «Yes we can». «Insieme tutto è possibile». «Il cambiamento è adesso».
In questo libro tratteggio il ritratto collettivo di una nuova generazione di politici che, al di là delle affiliazioni partitiche, riunisce come in un’unica foto di famiglia capi di Stato come Bill Clinton, George W. Bush, Tony Blair, Silvio Berlusconi, Nicolas Sarkozy, José Luis Zapatero, e di cui Manuel Valls in Francia e Matteo Renzi in Italia sono gli ultimi avatar. Questi uomini di Stato sono «prodotti» politici dotati di una forte identità di marca e raccontano una storia in grado di nutrire la famelica agenda dei media. Inviano dei segnali all’opinione pubblica. Dei segnali d’ottimismo in piena crisi di fiducia, dei segnali di volontarismo mentre ci troviamo in una situazione di perdita della sovranità, dei segnali di serietà e di rigore all’indirizzo dei mercati. Ciò che questi uomini di Stato di nuova generazione hanno in comune è proprio l’essere il prodotto di un paradosso: sono chiamati a governare nel contesto del declino della sovranità statale.
La perdita di sovranità dello Stato provocata dalla globalizzazione neoliberista s’accompagna da trent’anni a una sovraesposizione mediatica che confina con la divorazione. L’una si nutre dell’altra. Sembrerebbe proprio che la perdita di sovranità degli Stati abbia bisogno di capi di Stato privati della loro credibilità. La politica così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi due secoli è arrivata al capolinea. L’Homo politicus è ancora attaccato allo Stato ma la sovranità statale fugge dappertutto. La globalizzazione l’ha privato dei suoi poteri e dei suoi attributi. Il racconto dei media lo descrive come assoggettato a desideri tirannici. I potenti non hanno più le sembianze dei sovrani ma quelle di soggetti di conversazione, personaggi di serie tv sui quali proiettiamo i nostri desideri contraddittori. La presidenza è diventata un puro oggetto fantasma, il teatro della sovranità perduta. E, paradossalmente, è questa demistificazione radicale che ci affascina, che fa spettacolo…
La mediasfera, con i suoi talk show e i suoi social network, i suoi editoriali e le sue breaking news, la sua drammaturgia, il suo ritmo 24/7, i suoi commentatori, i suoi portavoce, i suoi leader di opinione e i suoi community manager, costituisce il teatro della sovranità perduta. Gli uomini dello Stato «insovrano» vi sono convocati non più con la maestà dei sovrani di un tempo, ma come impostori esposti al pubblico ludibrio. Sono costantemente sottoposti a un processo di verifica e a un obbligo di performance. L’insovranità si manifesta fin nelle vicende della loro vita intima… Ciò che li minaccia, ormai, non è più solo l’impopolarità o la perdita del potere, ma il burn out professionale, l’esaurimento, il male di quelli che hanno spremuto fino all’ultima delle proprie possibilità… L’Homo politicus che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli è destinato a scomparire. Cerca la sua strada altrove, alla cieca, in quella zona grigia dove la politica perde i suoi diritti. L’esercizio del potere politico è circondato da sospetti; circostanza che conferisce alla scena politica il suo carattere di farsa felliniana, di commedia degli errori. In realtà, «il re è nudo», e si vede. [...]
Il celebre racconto di Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore non smette di narrare a generazioni di bambini le trappole e i misteri della sovranità. Ma quello che, due secoli fa, aveva valore di avvertimento, è diventato ormai una semplice constatazione. «Il re è nudo», si sente dire sempre più spesso. La metafora di Andersen rischiara ormai la scena della sovranità perduta. Ricordiamo semplicemente che nella storia si parla di un imperatore che amava i begli abiti al punto da cambiarsi ogni ora. Informati di questa mania, due furfanti cercano di trarne profitto. Si presentano a corte e propongono all’imperatore di tessere per lui una stoffa magica, intrecciata con fili d’oro, che ha la stupefacente proprietà di risultare invisibile a tutti quelli che non possiedono le doti morali richieste dalla loro funzione. Una stoffa «smart» ante litteram, in qualche modo capace di captare e analizzare un segnale e di rispondere in modo adeguato. Il re ordina subito un nuovo abito fatto con questa stoffa. Questo fashion addicted aveva per una volta una scusa: tali preziose vesti gli avrebbero consentito di distinguere i collaboratori intelligenti da quelli imbecilli.
I due furfanti fanno portare due telai e si mettono a lavoro tenendo per sé la seta della miglior qualità e l’oro richiesti per gli abiti. Impaziente, l’imperatore chiede a diversi suoi ministri di andare a controllare e di tenerlo informato sullo stato di avanzamento del lavoro. Uno dopo l’altro questi constatano che non c’è proprio nessuna stoffa ma, temendo di passare per degli idioti, si guardano bene dall’ammetterlo. A sua volta anche l’imperatore fa la stessa esperienza, e anche lui preferisce estasiarsi davanti alla stoffa invisibile piuttosto che fare la figura dell’imbecille. Arriva il momento di prepararsi per una cerimonia. L’imperatore non riesce a sottrarsi e deve indossare lo splendido abito. I due imbroglioni lo aiutano a vestirsi vantandogli la qualità e la bellezza della stoffa, di una leggerezza tale da essere a malapena percepibile sulla pelle.
Così svestito, l’imperatore si mette alla testa di una processione seguito dai suoi ciambellani, che fingono di reggere lo strascico del suo mantello. La leggenda dell’abito magico l’aveva preceduto nel regno. Così quando si presenta senza veli davanti ai suoi sudditi nessuno osa affermare che è nudo. La mistificazione continua a funzionare perché tutti temono di passare per sciocchi, fin quando un bambino, all’oscuro del sotterfugio, rompe il sortilegio gridando: «Ma il re è nudo!». La terribile evidenza si diffonde così tra la folla e ciascuno ripete mormorando le parole del bambino al proprio vicino. A poco a poco tutti si arrendono all’evidenza: il re è proprio nudo mentre continua a sfilare davanti ai suoi sudditi nella più umile delle tenute.
I vestiti nuovi dell’imperatore prende un nuovo senso nell’era del declino della sovranità statale. Al centro del racconto c’è un re più preoccupato della sua immagine che degli affari di Stato. Poco accorto, affida a due imbroglioni la gestione della sua immagine, un po’ come un capo di Stato che oggi fa appello agli esperti di comunicazione. Gli imbroglioni di Andersen, come gli spin doctors dei nostri giorni, sono convinti che solo la percezione conti e che abbiano il potere di influenzarla grazie al filo d’oro degli elementi discorsivi, al tessuto delle storie e alla seta dei sondaggi. Il re è nudo ma gli abiti falsi dello storytelling lo rendono degno di ammirazione e gli consentono di smascherare gli «imbecilli» che non credono al potere della comunicazione.
L’imperatore di Andersen è un magnifico ritratto dei nostri capi di Stato indeboliti. Spogliati del potere di agire, che è scivolato dalle loro mani in quelle delle multinazionali e dei mercati finanziari, la loro autorità è appesa al fragile filo della credenza collettiva. A essere eletto non è tanto chi riesce a convincere della propria capacità di agire, ma del suo potere illusionistico. «Yes we can». «Insieme tutto è possibile». «Il cambiamento è adesso».
Lo studioso francese Christian Salmon spiega
come i protagonisti di oggi, da Obama a Hollande, cerchino il consenso
solo con espedienti “narrativi”
“La politica prigioniera dei racconti dei suoi leader”
di Anais Ginori Repubblica 24.11.14
PARIGI SIAMO diventati tutti cannibali. Affamati di storie e colpi di
scena, divoriamo i nostri rappresentanti politici come fossero oggetti
di consumo, dimenticando che il piatto finale di questo banchetto
funesto è la democrazia, il sistema istituzionale che abbiamo
faticosamente costruito. «Il dibattito delle idee è passato dall’età
della confronto a quello dell’interattivo, del performativo e dello
spettrale» racconta Christian Salmon, autore di numerosi saggi su
censura e narrazione.
Dopo aver pubblicato qualche anno fa l’illuminante Storytelling, Salmon
torna con un nuovo libro dedicato all’assoggettamento dei politici alla
narrazione e alla performance. La politica nell’era dello storytelling è
un’inchiesta sulla nuova generazione di uomini pubblici, da Bill
Clinton a Matteo Renzi, protagonisti di una commedia mediatica
permanente che li ha lentamente resi nudi e “potenti impotenti” come
scrive Salmon. «La comunicazione politica — continua — non mira più solo
a formattare il linguaggio, ma a incantare gli spiriti e sprofondarli
in un universo spettrale di cui i politici sono al tempo stesso
performer e vittime».
L’obbligo della “narrazione” sta uccidendo la politica?
«Quando ho scritto Storytelling volevo allertare sui pericoli della
narrazione nel management, nel marketing, nella comunicazione politica.
Ormai è cosa nota. Lo storytelling ha invaso le nostre vite. È una sorta
di pensiero magico usato dai comunicatori, una vulgata che scredita
ancora di più la parola pubblica. In questo nuovo libro analizzo gli
effetti dissolventi e divoranti dello storytelling sull’homo politicus e
sulla sfera pubblica».
Siamo assistendo a una ‘cerimonia cannibale’, titolo originale del libro?
«Il dramma che si recita non è altro che il divoramento dell’uomo
politico per come l’abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni. Per
l’effetto combinato del neoliberismo, le nuove tecnologie e la
rivoluzione della comunicazione, la scena politica si è spostata dai
luoghi tradizionali dell’esercizio del potere verso quelli performance
come i media all news, Internet e i social network».
In cosa consiste la trappola della “insovranità”?
«La simbologia del potere funziona solo con una sovranità reale. La
globalizzazione neoliberista e la costruzione europea hanno distrutto la
sovranità degli Stati. È scomparso il legame tra l’incarnazione del
potere e il potere di agire. Da un lato ci sono po- teri senza volto — i
mercati, le agenzie di rating, Bruxelles — e dall’altro volti di
impotenti. Lo sviluppo dei social network e dei canali all news non ha
fatto altro che aggravare la situazione. Più gli uomini politici sono
esposti mediaticamente, più la loro impotenza è lampante. È un circolo
vizioso ».
L’uomo politico è diventato un oggetto di consumo?
«Il tempo lungo delle deliberazioni democratiche ha lasciato il posto al
tempo reale dei canali di informazione. L’uomo di Stato si presenta
ormai più come un oggetto di consumo che come una figura autorevole: è
diventato un artefatto della sottocultura di massa e non è più visto
come un’istanza produttrice di norme. Un personaggio di serie tv
sottomesso all’obbligo della performance».
Esistono delle eccezioni?
«Da Bill Clinton a Nicolas Sarkozy, passando per Tony Blair, George Bush
e Barack Obama, ogni capo di Stato è costretto a essere onnipresente
fino a banalizzarsi, sovraesposto sotto alla lente d’ingrandimento dei
media. Si crea una distanza ravvicinata persino oscena. Siamo passati
dal ‘doppio corpo’ del Re studiato da Kantorowicz al ‘corpo aumentato’
dei telepresidenti. È il corpo sudato di Sarkozy, quello spettrale di
Berlusconi. È la silhouette lunga di Obama, sottile quanto un logo. Gli
uomini politici diventano virtuali, angeli digitali. Subiscono
fluttuazioni nei sondaggi con la stessa volatilità di un’azione in
Borsa. La simbologia del sovrano scompare».
François Hollande è un pessimo narratore?
«Ha perso la battaglia delle parole, adottando il linguaggio della
destra sui temi economici e senza riuscire a proporre un racconto
alternativo che sia capace di dare senso alla sua azione. Ha fallito
anche sull’immagine. È precipitato nel bagno dell’acido mediatico,
com’era già successo a Clinton o a Berlusconi con il bunga bunga.
Hollande ormai appare slavato, senza più credibilità.Nudo».
Cosa pensa della sovraesposizione e del successo mediatico di Matteo Renzi?
«Il Titanic aveva un problema di iceberg. Non un problema di
comunicazione. L’ha detto Paul Begala (ex consigliere di Clinton, ndr.) a
proposito dell’amministrazione Obama. Vale anche per Matteo Renzi. Mi
sembra impegnato in una fuga in avanti che può creare un’illusione ma
solo momentanea. Fa parte di quello che definisco ‘paradosso del
volontarismo impotente’».
In politica, si tenta di mascherare la mancanza di autorità con il volontarismo?
«Il volontarismo è la forma che assume la volontà politica quando il
potere è privo di mezzi. Viene esibita una volontà ancora più forte,
raddoppiandone l’intensità, per tentare di recuperare credibilità. Ma
questa prova di forza non fa altro che accentuare il sentimento di
impotenza dello Stato. E si entra così in una spirale di perdita di
legittimità».
Qual è la responsabilità dei media?
«La mediasfera è il teatro della sovranità perduta. È la ribalta per uno
strip-tease in cui l’homo politicus si spoglia a poco a poco dei suoi
poteri, dei suoi attributi, del suo prestigio, della sua maestà, fino a
perdere dignità. È il prezzo da pagare per catturare l’attenzione sempre
più reticente dell’opinione pubblica. La ribalta di questo spogliarello
è la televisione. In verità, l’uomo politico sta forse scomparendo al
culmine della sua sovraesposizione mediatica. Parafrasando una formula
di Martin Amis, direi: “He has vanished into the front page”. È
scomparso in prima pagina».
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