Il cattolicesimo europeo ha reagito in maniera contraddittoria alla Grande Guerra. Da una parte, Benedetto XV, e con lui la Santa Sede, sposa una linea neutrale, dall’altra ogni episcopato nazionale giustifica l’intervento armato. La Grande Guerra fa tornare alla ribalta il tema del rapporto della chiesa con il mondo. Infatti, l’impegno in prima linea di circa 25mila tra pretisoldato e cappellani militari che offrono un contributo alla guerra, ha avuto conseguenze inimmaginabili sulla loro vita. Per la prima volta i preti si trovano immersi nel mondo con i relativi drammi umani. Mentre nella formazione seminaristica del tempo prevale la logica di creare istituzioni isolate dal mondo nel conflitto, l’incontro-scontro con la cruda realtà fa emergere un senso profondo di condivisione verso l’umanità sofferente. Niente è più come prima. La Grande Guerra modificherà infatti il rapporto tra «Chiesa e mondo» visti in contrapposizione, imponendo la nuova concezione di «Chiesa nel mondo» che troverà piena consapevolezza solo nel Concilio Vaticano II.
martedì 25 novembre 2014
Crociata o massacro? Le contraddizioni della Chiesa cattolica nella Prima guerra mondiale
Risvolto
Il cattolicesimo europeo ha reagito in maniera contraddittoria alla Grande Guerra. Da una parte, Benedetto XV, e con lui la Santa Sede, sposa una linea neutrale, dall’altra ogni episcopato nazionale giustifica l’intervento armato. La Grande Guerra fa tornare alla ribalta il tema del rapporto della chiesa con il mondo. Infatti, l’impegno in prima linea di circa 25mila tra pretisoldato e cappellani militari che offrono un contributo alla guerra, ha avuto conseguenze inimmaginabili sulla loro vita. Per la prima volta i preti si trovano immersi nel mondo con i relativi drammi umani. Mentre nella formazione seminaristica del tempo prevale la logica di creare istituzioni isolate dal mondo nel conflitto, l’incontro-scontro con la cruda realtà fa emergere un senso profondo di condivisione verso l’umanità sofferente. Niente è più come prima. La Grande Guerra modificherà infatti il rapporto tra «Chiesa e mondo» visti in contrapposizione, imponendo la nuova concezione di «Chiesa nel mondo» che troverà piena consapevolezza solo nel Concilio Vaticano II.
Il cattolicesimo europeo ha reagito in maniera contraddittoria alla Grande Guerra. Da una parte, Benedetto XV, e con lui la Santa Sede, sposa una linea neutrale, dall’altra ogni episcopato nazionale giustifica l’intervento armato. La Grande Guerra fa tornare alla ribalta il tema del rapporto della chiesa con il mondo. Infatti, l’impegno in prima linea di circa 25mila tra pretisoldato e cappellani militari che offrono un contributo alla guerra, ha avuto conseguenze inimmaginabili sulla loro vita. Per la prima volta i preti si trovano immersi nel mondo con i relativi drammi umani. Mentre nella formazione seminaristica del tempo prevale la logica di creare istituzioni isolate dal mondo nel conflitto, l’incontro-scontro con la cruda realtà fa emergere un senso profondo di condivisione verso l’umanità sofferente. Niente è più come prima. La Grande Guerra modificherà infatti il rapporto tra «Chiesa e mondo» visti in contrapposizione, imponendo la nuova concezione di «Chiesa nel mondo» che troverà piena consapevolezza solo nel Concilio Vaticano II.
Uomini di dio nelle trincee I cattolici divisi dalla grande guerra tra patriottismo e volontà di pace
di Paolo Mieli Corriere 25.11.14
Papa
Benedetto XV (al secolo Giacomo Della Chiesa) diede la celebre
definizione della Prima guerra mondiale come un’«inutile strage» in una
«Nota ai capi dei popoli belligeranti» resa pubblica il 1° agosto del
1917, in occasione dei tre anni dall’esplosione del conflitto. «Nessuno
può immaginare» — scriveva il Pontefice esortando i governanti dei Paesi
in armi a cercare immediatamente «una pace giusta e duratura» — «quanto
si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali se altri
mesi ancora o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio
sanguinoso». Per poi esortare i «capi dei popoli belligeranti» a
giungere «quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la
quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage». Parole che
attestavano uno stato d’animo diverso da quello che aveva pervaso la sua
allocuzione al concistoro, il 22 gennaio 1915. Nel 1915 il Papa si era
limitato a fare riferimento ai criteri di un esercizio della forza
«proporzionale» e della giusta causa di una guerra. Aveva chiesto che le
regioni invase non venissero «devastate più di quanto sia strettamente
richiesto dalle ragioni dell’occupazione militare», e che non fossero
«feriti, senza vera necessità, gli animi degli abitanti in ciò che han
di più caro, come i sacri templi, i ministri di Dio, i diritti della
religione e della fede».
Trentuno mesi dopo — mette bene in evidenza
lo storico e sacerdote don Bruno Bignami in La Chiesa in trincea. I
preti nella Grande guerra di imminente pubblicazione per i tipi di
Salerno editrice — Benedetto XV «evitava (volutamente) due termini:
l’espressione “guerra giusta” e il concetto di patria». E parlava di
«inutile strage» dopo aver già definito il conflitto «suicidio
dell’Europa civile» (4 marzo 1916) e «la più fosca tragedia della follia
umana» (4 dicembre 1916). Don Giovanni Minzoni, il prete romagnolo che
sarà ucciso dai fascisti il 23 agosto del 1923, testimoniò che la Nota
pontificia dell’agosto 1917 aveva suscitato un «gran nervosismo». Padre
Giovanni Semeria, cappellano militare presso il Comando supremo del
generale Luigi Cadorna, nelle Nuove memorie di guerra (Amatrix), a
proposito di quel documento, scrisse che «i Francesi lo trovarono troppo
poco antitedesco e i Tedeschi troppo poco severo colla Francia
anticlericale».
Il cattolico Tommaso Gallarati Scotti riferì che la
parola del Papa aveva sollevato una «tempesta di ire» all’interno del
Comando supremo dell’esercito italiano. La Santa Sede «fu vista come
nemica dell’Italia», qualche generale, «solitamente non ostile alla
Chiesa e di temperamento moderato», usò frasi minacciose all’indirizzo
del Pontefice: «Bisogna impiccarlo!». Don Carmine Cortese, cappellano
militare dell’ottavo reggimento Alpini Val Natisone, prese nota nel suo
diario della discussione con un maggiore che aveva definito Benedetto XV
«delinquente, tisico, deforme, che non tarderà tanto a scendere nella
tomba». Per poi passare ad accuse dal carattere più marcatamente
politico: Giacomo Della Chiesa sarebbe stato, a giudizio di quel
maggiore, un «austrofilo» che faceva «gli interessi della Germania». E
non furono accuse affidate esclusivamente alle pagine segrete delle
lettere o dei taccuini personali. In un discorso pronunciato il 23
ottobre 1917 (il giorno prima della disfatta di Caporetto) il ministro
degli Esteri italiano, Sidney Sonnino, disse esplicitamente che il Papa
aveva stilato una Nota di «ispirazione germanica».
Fino a quel
momento il fenomeno dei cattolici favorevoli all’intervento era stato di
una qualche entità. Dall’ottobre del 1914 la Lega democratica cristiana
di Eligio Cacciaguerra, Giuseppe Donati ed Eugenio Vaina de Pava si
schierò dalla parte degli interventisti. Furono soprattutto Donati e
Vaina, scrive Bruno Bignami, «a vedere nella guerra l’occasione per
affermare la democrazia nella vita interna dell’Italia e a livello
internazionale». Il tutto sarebbe dovuto passare attraverso
l’umiliazione dell’Austria, «cancrena d’Europa». E alla Lega si
avvicinarono molti giovani cattolici tra cui don Primo Mazzolari, futuro
cappellano militare che poi però avrebbe duramente criticato la
condotta degli ufficiali: «l’esercito, non c’è scampo, è il rifugio
degli imbecilli», scrisse sul suo diario. Fu cappellano militare anche
Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII. Tra i preti che si
arruolarono ce ne fu uno, don Annibale Carletti, che nel 1916 guadagnò
la medaglia d’oro per aver partecipato alla difesa eroica di Passo
Buole. Interventista fu — dopo qualche incertezza iniziale — Filippo
Meda, il primo esponente politico cattolico ad assumere (nel 1916) un
incarico ministeriale nell’Italia unita. Meda e i suoi collaboratori
giustificarono il loro passaggio dal neutralismo all’interventismo con
la riprovazione dell’ingiusta aggressione dei tedeschi al Belgio, la
scoperta degli sproporzionati metodi bellici usati dagli Imperi
centrali, e del «valore della guerra come strumento di maturazione dei
popoli», nonché l’interesse della patria «che non poteva vedere
indifferenti i cattolici». Così il vescovo di Recanati, monsignor
Alfonso Maria Andreoli, diede alle stampe una «Notificazione al clero e
al popolo» dai toni iper patriottici: «Oh! Che questa cara patria così
privilegiata da Dio, raggiunga altresì il primato delle armi e della
vittoria, nel duro cimento di quest’ora fatidica, perché siano rese
all’Italia le terre italiane, che per noi sono fatte». E il cardinale
Pietro Maffi, arcivescovo di Pisa — che già nel 1911 aveva esaltato la
guerra di Libia — adesso, nel 1915, pubblicava un opuscolo intitolato
Fede e patria , il cui sottotitolo, Discorsi patriottici per una più
grande Italia , stava a testimoniare un’adesione incondizionata alla
causa dell’intervento. Grande interprete di questa corrente cattolica a
favore dell’entrata in guerra fu don Illemo Camelli (ex socialista),
ispiratore dei giornali «La Provincia» e «La Squilla». Oppositore
dell’ingresso nel grande conflitto fu invece il deputato Guido Miglioli,
con il suo giornale «L’Azione». E i due, Camelli e Miglioli, furono
coprotagonisti del «caso Cazzani» che mise in luce un forte contrasto
nel mondo cattolico.
Monsignor Giovanni Cazzani, vescovo di Cremona,
ebbe l’onore di una citazione da parte di Benedetto XV il quale, in
un’intervista rilasciata nel giugno del 1915 (poco dopo l’entrata in
guerra dell’Italia) al giornale francese «La Liberté», rivelò che il
presule lombardo lo aveva informato del fatto che l’esercito italiano
aveva preso in ostaggio diciotto preti austriaci. Secondo il Papa quella
cattura dei sacerdoti rientrava nella categoria degli «eccessi» da
riprovare, visto che non era «permesso a nessuno, per qualsiasi motivo,
di violare la giustizia». Il presidente del Consiglio Antonio Salandra
andò su tutte le furie per questa sortita di Benedetto XV. Monsignor
Cazzani a quel punto rivelò che la notizia gli era stata data
dall’autorità militare di Cremona, che si era rivolta a lui per chiedere
indicazioni a proposito di una ventina di preti goriziani prigionieri
che chiedevano di poter celebrare la messa.
Negli anni successivi
Cazzani prese le distanze prima da Camelli (per i suoi supposti legami
con i massoni della Lega patriottica) e poi dall’«Azione» di Miglioli,
che il 9 settembre del 1916 fu da lui sconfessata «per la sua vicinanza
alle posizioni socialiste». Ma i dissidi proseguirono anche dopo la fine
della guerra, allorché «La Provincia» (ispirata, come si è detto, da
don Camelli) il 31 dicembre 1918 riferì dell’«animata discussione di
monsignor Cazzani con i parroci di Cremona durante i tradizionali auguri
natalizi»: alcuni preti avevano accusato il vescovo di «tradimento del
sentimento patriottico attraverso il sostegno all’opera di Miglioli».
Gli avevano altresì rimproverato di aver finanziato «L’Azione» con soldi
della Cassa ecclesiastica, e soprattutto di aver «spostato i preti
della diocesi non con la preoccupazione della cura spirituale delle
parrocchie, ma con un occhio alle necessità elettorali dell’onorevole
Miglioli». L’articolo concludeva con queste feroci parole: «Ogni crisi
di clero è crisi di pastore: l’attuale crisi cattolica è crisi del
vescovo». Un’esortazione quasi esplicita alla rimozione di Cazzani dalla
sede vescovile di Cremona. E lui, dai suoi, fece rispondere per le
rime: «L’amor di patria non è monopolio dei signorotti della democrazia
della “Provincia”, della “Squilla” o dei preti da esse lodati
(riferimento quasi esplicito a don Camelli, ndr ); e se questi giornali
non credono all’amor patrio del vescovo e di quanti stanno con lui, noi
siamo da ciò autorizzati a dire che nessuna fede merita quelli che da
essi millantano». Cazzani rimase poi al suo posto, non si compromise con
il fascismo e, anzi, difese in più occasioni don Primo Mazzolari che
con il fascismo si scontrò e divenne in seguito partigiano.
Quello
di monsignor Cazzani non fu l’unico caso di dissidio nel mondo della
Chiesa. «Il Messaggero» avviò una campagna contro il vescovo di Nepi e
Sutri, monsignor Giuseppe Bernardo Doebbing, un francescano di origini
tedesche, accusandolo di aver invitato i suoi preti a pregare per la
vittoria della Germania e di aver addirittura «promosso attività di
spionaggio». Il consiglio comunale di Nepi e una rappresentanza dei
cittadini di Sutri chiesero al governo la revoca de ll’ exequatur
(formula con cui lo Stato, prima del Concordato, concedeva l’esecutività
ad atti della Santa Sede) e l’allontanamento di Doebbing. Il collegio
dei parroci lo difese, invece, con veemenza. Un magistrato inoltrò al
ministero di Grazia e giustizia la richiesta della sua rimozione. E il
caso era già all’analisi degli organi ministeriali competenti quando, il
14 marzo 1916, giunse all’improvviso la notizia della morte di
Doebbing. Simile il caso del vescovo di Tivoli, monsignor Gabriele
Vettori, denunciato per antipatriottismo dal sindaco della sua città,
secondo il quale avrebbe «esiliato» alcuni sacerdoti perché, essendo
«patriottici», la pensavano in modo diverso dal suo. Si occupò del caso
il procuratore generale di Roma, che, dopo un accurato esame, assolse il
vescovo con formula piena: i «sacerdoti patriottici» in realtà erano
stati mandati via perché «ricevevano in canonica donne con troppa
frequenza creando scandalo tra la gente». Ma il Papa si sentì in dovere
di tornare sulla questione, il 6 dicembre 1915, «promuovendo» monsignor
Vettori alla diocesi di Pistoia e Prato. Venne trascinato in giudizio
con capi di imputazione assai somiglianti anche il titolare della
diocesi di Albenga, monsignor Angelo Cambiaso, che, dopo una complessa
istruttoria, fu assolto per insufficienza di prove. E il vescovo di
Portogruaro, monsignor Francesco Isola, accusato di «austriacantismo»,
fu cacciato dalla diocesi a furor di popolo. Il capo di imputazione era
interamente basato sulla sua predica di Natale del 1917 nella quale
aveva parlato di «valoroso esercito austriaco». Ma anche nel suo caso il
processo che ne seguì si concluse con un’assoluzione.
Il parroco di
Soresina — la patria di Miglioli, in provincia di Cremona — don
Zaccaria Priori, fu sospettato di attività disfattiste per essersi
uniformato alle critiche alla guerra di Benedetto XV. Il procuratore
generale di Brescia propose addirittura di sequestrare le rendite del
beneficio parrocchiale di cui don Priori era titolare. Don Carlo Gamba,
parroco di Casalbuttano, fu accusato di aver dato sostegno a Miglioli e
di aver provocato quelli che il decreto del Guardasigilli Ettore Sacchi
(4 ottobre 1917) definiva «fatti pregiudizievoli all’interesse
nazionale». Così come don Michele Favero, insegnante presso i barnabiti
di Cremona. E anche laddove non poteva esserci l’influenza di Miglioli,
piovvero accuse su preti e parroci. Il parroco di Poppi (Toscana), don
Luigi Sereni, fu accusato di «apologia di reato» e di «diffusione di
notizie false intorno alla guerra». Nel Lodigiano, don Luigi Salamina e
don Giorgio Savoldelli furono ritenuti responsabili di una
manifestazione antimilitarista che si era tenuta a Codogno il 23 aprile
del 1917. Altri preti furono accusati di aver dato una mano
all’organizzazione di proteste delle mogli che avevano mariti alle armi:
a Castiglione d’Adda, Fombio, Guardamiglio, S. Rocco al Porto,
Castelnuovo Bocca d’Adda. Simili manifestazioni si ebbero in quello
stesso periodo a Busto Arsizio per concludersi con una due giorni a
Milano (1° e 2 maggio), nel corso della quale, racconta Bruno Bignami,
«gruppi di donne provenienti dalla campagna, percorsero le strade della
circonvallazione e scagliarono sassi contro le fabbriche di armi». Al
grido di «abbasso la guerra», costrinsero gli operai ad abbandonare il
lavoro e sfilarono per le vie del capoluogo lombardo con una
manifestazione davvero imponente che non passò inosservata. Il
socialista Filippo Turati sospettò (con qualche ragione) che vi fosse lo
«zampino dei preti» e scrisse ad Anna Kuliscioff: «Vogliono far cessare
la guerra subito; rivogliono i loro uomini, ce l’hanno con Milano che
volle la guerra e che ora porta via loro tutto… e vogliono fare la pelle
ai signori, fra i quali — beninteso — siamo anche noi».
Poi la
guerra finì e tra i sacerdoti che si erano arruolati, trecentocinquanta
furono sospesi a divinis perché sotto le armi erano «cambiati». Qualcuno
lasciò la Chiesa (o fu spinto a farlo) come quel don Carletti che
avevamo incontrato come eroe decorato nel 1916. Don Mazzolari ed il
vescovo Cazzani fecero l’impossibile per indurlo a restare tra loro. Ma
quella guerra interiore don Carletti ormai l’aveva perduta.
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