Risvolto
Le metafore animali accompagnano da sempre l’evoluzione della civiltà
politica, ora rassicurando gli uomini sulla loro incontestabile
superiorità naturale, ora, al contrario, invitandoli a prendere atto
delle ineguagliabili soluzioni escogitate dal mondo animale per la
soluzione di conflitti e per l’organizzazione della vita sociale. Un
ricchissimo patrimonio di simboli, favole, allegorie, metafore – dal
lupo al gregge, dalla volpe alle api – si è formato e trasformato in un
fitto dialogo con le istituzioni politiche, passando spesso al vaglio di
interpreti d’eccezione come Hans Blumenberg, Jacques Derrida, Michel
Serres. Oggi la svolta sembra essere data dall’ingresso degli animali in
un circuito cognitivo in gran parte nuovo, che si interroga sui temi
della tecnica, del potere, della sovranità e della post-sovranità,
proponendo scenari inquietanti e toccando i confini dell’ibrido e del
post-umano.
Bruno Accarino insegna Filosofia morale presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Ha curato le edizioni italiane di scritti di Georg Simmel e di Helmuth Plessner. Tra i lavori pubblicati per Mimesis sono da ricordare Le frontiere del senso. Da Kant a Weber: male radicale e razionalità moderna (2005), il volume collettaneo Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner (2009) e Ostilità. Il mosaico del conflitto (2011).
Bruno Accarino insegna Filosofia morale presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Ha curato le edizioni italiane di scritti di Georg Simmel e di Helmuth Plessner. Tra i lavori pubblicati per Mimesis sono da ricordare Le frontiere del senso. Da Kant a Weber: male radicale e razionalità moderna (2005), il volume collettaneo Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner (2009) e Ostilità. Il mosaico del conflitto (2011).
Da Aristotele a Orwell tutta la nostra parte bestiale
Se per la concezione cristiana siamo agnelli, secondo Hobbes diventiamo lupi e solo una belva più feroce riesce a proteggerci Perché, tra filosofia e letteratura, non possiamo ancora fare a meno di paragonarci agli animali
di Roberto Esposito Repubblica 10.11.14
SE C’È una questione della quale non siamo mai venuti a capo è quella
dell’animale. Eppure è quella che forse più di ogni altra dovrebbe
riguardarci, dal momento che noi stessi siamo animali. Per giunta
politici, come ha per primo spiegato Aristotele. Ciò su cui abbiamo
invece centrato l’attenzione è la nostra superiorità di specie.
Chiederci se l’animale parla, pensa o soffre, lo pone nella nostra
prospettiva, fissandolo alla sua mancanza rispetto a quanto noi invece
abbiamo. Mentre noi siamo nella storia, che possiamo mutare, egli resta
inchiodato ad un ambiente naturale che non può eccedere. Perciò
l’animale vive, ma non esiste; crepa, ma non muore, come ritiene
Heidegger affermando che è “povero di mondo”, rispetto a noi che, soli
tra le specie viventi, ne siamo costruttori.
Questi interrogativi, già posti in un memorabile libro di Derrida,
L’animale che dunque sono, curato da Gianfranco Dalmasso per Jaca Book,
tornano adesso in tre saggi recenti. Il primo è di Felice Cimatti,
Filosofia dell’animalità ( Laterza), dove tale genitivo è situato sul
margine che allo stesso tempo ci assimila e ci distingue dalla nostra
alterità. La cecità sull’animale è una cecità su noi stessi. Mentre lo
imprigiona nel nostro sguardo, ci impedisce di cogliere ciò che davvero
siamo, la nostra medesima forma di vita. La distanza metafisica che
poniamo tra noi e lui è la stessa che incidiamo in noi stessi,
separandoci dalla nostra parte corporea. L’esito di questa “macchina
antropogenica” è l’abisso scavato nei confronti del mondo animale. Ma
anche la rinuncia alla corporeità, relegata in una condizione inferiore e
sottomessa alla nostra parte propriamente personale. Tale esclusione
non ha solo un rilievo filosofico ed etico. Essa ha sempre esercitato un
potente effetto biopolitico, o zoopolitico, come lo definisce Bruno
Accarino in Zoologia politica. Favole, mostri, macchine ( Mimesis).
L’infinita differenza di rango tra uomo ed animale è sempre servita a
discriminare alcune tipologie umane, assimilate ad animali, per
schiacciarle in una condizione subalterna. Di procedure di
bestializzazione dell’uomo ne abbiamo conosciute tante. Schiavi,
barbari, selvaggi, sono tutte stazioni di un unico percorso che ha
costruito il potere di alcuni uomini su altri, ridotti a og- getto di
asservimento, deportazione, sterminio. Le stesse metafore animali, di
cui è piena la nostra tradizione culturale, sono state usate, e
rovesciate, in relazione agli scopi di volta in volta prefissi. Così la
favola di La Fontaine del lupo e dell’agnello è stata di continuo
riscritta spostando la linea di separazione tra i due protagonisti. Se
per la concezione cristiana gli uomini possono diventare tutti agnelli,
sottomessi alla cura del pastore di anime, per Hobbes, sono tutti lupi,
tanto che, per proteggerli, è necessario convocare un altro, più
minaccioso, animale, il mitico Leviatano.
Se la tradizione umanistica istituisce un limite insuperabile tra storia
umana e natura animale, già con Cartesio le bestie vengono considerate
macchine viventi, destinate al servizio dell’uomo. Ma tale prospettiva
escludente sul mondo animale non ha mai potuto del tutto cancellare un
altro sguardo, più profondo, capace di cogliere nella differenza un
elemento comune. Ciò consente non solo un’animalizzazione dell’uomo, ma
anche un’umanizzazione dell’animale. Basti pensare al Centauro di
Machiavelli, ai cavalli di Leonardo o, in ambito letterario,
all’assimilazione fatale che unisce il destino di Achab a quello della
balena in Moby Dick.
L’immagine dell’animale, insomma, volta a definire la nostra identità
per contrasto, non ha mai cessato di insidiarla. Tanto più quando non
corrisponde a una singola bestia, ma a un insieme indistinto come una
mandria, un branco, uno sciame. Allora l’animale, più che rassicurarci
con la sua diversità, c’inquieta ed ossessiona. Si pensi al film Gli
uccelli di Hitchcock, quando il loro improvviso e malefico turbinio
invade lo schermo, lacerando la visione. Esso, prima ancora che
impaurirci, crea un disturbo nel nostro apparato percettivo, mettendolo a
contatto con qualcosa d’incomprensibile. È un’esperienza non lontana
dall’inquietudine che l’avvento della società di massa ha prodotto in un
mondo politico ancora governato da logiche elitarie. E del resto non
corre un rischio del genere perfino la democrazia, quando prevale
un’indifferenziata spinta populista? Era quanto sosteneva Nietzsche
paragonando, da un punto di vista aristocratico, la democrazia a un
gregge che richiede di essere guidato da capi superiori. Anche se La
fattoria degli animali di Orwell rappresenta, più giustamente, una
metafora del mondo totalitario.
Ma se non possiamo disfarci della nostra parte animale, se perfino la
nostra organizzazione politica ne risulta coinvolta, tanto vale
assumerne, oltre i rischi, anche le potenziali risorse. È quanto appunto
ci suggerisce nel suo libro, Epifania animale. L’oltreuomo come
rivelazione (Mimesis), Roberto Marchesini. Egli auspica un doppio
movimento. Di immedesimazione, in ragione della radice comune che ci
lega all’animale. E di distanziamento, quale riconoscimento della sua
specifica identità. L’animale non è l’abisso ancestrale da cui
proveniamo e da cui dobbiamo violentemente strapparci, ma ciò che anche,
da sempre, siamo. Non la sagoma minacciosa che ci guarda dal fondo del
passato, ma il profilo imprevedibile che si delinea nel nostro futuro.
Oggi, nel regime biopolitico che tutti viviamo, l’antica formula
aristotelica va ripensata in senso postmetafisico. Essere animali
politici significa che ciò che è in gioco nella politica è la stessa
vita biologica: la nascita, la morte, la salute, il lavoro, la
migrazione saranno sempre più al centro di ogni relazione e di ogni
conflitto politico.
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