mercoledì 12 novembre 2014

Fare il Partito del Lavoro con Civati e Vendola. La carota della soglia al 3% e l'opposizione di Sua Maestà

Da Milano a Parigi prove di intesa tra Sel e sinistra pd
di Alessandro Trocino Corriere 12.11.14

Prove tecniche di alleanza tra minoranza Pd e Sel? Domani alla Sala Congressi della Provincia di Milano, alla vigilia dello sciopero generale della Fiom, si incontrano in un convegno Pippo Civati, tra i più duri oppositori nel Pd di Matteo Renzi, il leader di Sel Nichi Vendola e Stefano Fassina, da tempo in rotta con la maggioranza del Partito democratico. Convegno dal titolo «Fate il lavoro non fate la crisi». E il 21 novembre, a Parigi, alla Fondazione Jean Jaurès, si incontrano Fabrizio Barca con Nicola Fratoianni (Sel) e la ricercatrice Ludovica Ioppolo. Convegno intitolato: «La sinistra italiana di fronte alla crisi» e organizzato dal circolo Pd di Parigi insieme a Sel.

Un «laboratorio» nella minoranza pd Chiti e Mucchetti lanciano Articolo 1
di Lorenzo Salvia Corriere 12.11.14
ROMA È il primo passo verso una scissione interna al Pd? «Per carità, la prima condizione è proprio che non sia una cosa del genere». Allora state per fare una corrente, anzi è il ritorno del correntone? «Nemmeno per sogno. Di correnti ce ne sono pure troppe, semmai mancano i partiti». Vannino Chiti — senatore del Pd, tra i leader della minoranza che ha contrastato a Palazzo Madama la riforma costituzionale — annuncia «l’imminente nascita» di Articolo 1. Niente scissione, niente corrente. Ma allora che cos’è? «Un laboratorio culturale e politico per riflettere sui due principi contenuti nel primo articolo della nostra Carta: il lavoro, che va riformato ma senza mettere i diritti contro l’occupazione quasi fosse un ricatto; e la sovranità, con una democrazia che deve essere resa più moderna, ma che appartiene pur sempre al popolo». Quella di ieri doveva essere la giornata decisiva, con la registrazione del nome. Ma il parto è rimandato di qualche giorno per chiarire non solo i dettagli ma anche il vero obiettivo di Articolo 1. Chiti dice di aver ricevuto una ventina di «manifestazioni di interesse», per il momento solo dal Senato dove come noto la maggioranza ha un margine risicato. «Ci sono i Pd Paolo Corsini, Massimo Mucchetti e Walter Tocci — racconta — il grillino dissidente Tommaso Campanella, l’ex ministro Mario Mauro, Loredana De Petris di Sel. Come vede non ci sono confini partitici, io mi auguro che arrivi pure qualcuno da Forza Italia». L’associazione dovrebbe essere aperta non solo ai senatori ma anche ai deputati e, più in generale, a chi non è in politica. L’idea era nata proprio nei giorni in cui al Senato si discuteva la riforma costituzionale. «Ma non volevamo dare l’idea di essere legati ad un tema contingente, per quanto importante». 

Italicum 2 Il partito sopra il 40% blinda il Parlamento
Tornano le preferenze ma i nominati restano
di Dino Martirano  Corriere 12.11.14
ROMA Il numero magico dell’accordo di maggioranza, il 3% della soglia d’accesso in Parlamento, fa sognare i piccoli della coalizione (dal Ncd al Psi) e dell’opposizione (da Sel a Fratelli d’Italia). Ma anche la data del 2018, ribadita come scadenza naturale della legislatura, galvanizza le forze minori che hanno sottoscritto il patto di Palazzo Chigi (oltre a Pd, Ncd e Psi ci sono Scelta civica, Per l’Italia, Centro democratico e Gruppo autonomie). La diminuzione dei collegi (non più 120 ma un numero compreso tra 75 e 100) non scontenta più di tanto FI e M5S che, viste le quotazioni attuali, potrebbero far eleggere un esercito di capilista nominati dai rispettivi leader. Solo in un Pd vincente, che incasserebbe il premio di maggioranza per il primo partito (340 deputati), si scatenerebbe la guerra delle preferenze tra i secondi e i terzi piazzati nei singoli collegi.
Road map e tempi
Il documento di 34 righe, articolato in 4 punti, costituisce una road map per la legislatura. L’orizzonte temporale (punto 1) è «unicamente quello della scadenza naturale» del 2018 perché «votare prima sarebbe un errore e una sconfitta inaccettabile per tutti». Eppure, la legge elettorale (l’Italicum già passato alla Camera il 12 marzo) dovrà essere approvata «entro dicembre 2014 al Senato e entro febbraio alla Camera».
Premio di maggioranza
Il testo passato alla Camera frutto del patto del Nazareno (Pd-FI) cambia passo. Si alza la soglia di accesso al premio di maggioranza al primo turno (dal 37% al 40%) ma la modifica fondamentale riguarda il «quantum» e il destinatario del premio: che «assegnerà 340 deputati alla lista vincitrice» mentre, in origine, il patto Renzi-Berlusconi prevedeva che il premio «fino a un massimo di 340 deputati» andava alla «coalizione o alla lista vincente che supera il 37%».
Capilista e preferenze
Diminuendo il numero dei collegi (non più 120, oscilleranno tra i 100 e i 75) si asciuga in parte il potere dei segretari di partito che mirano a piazzare i fedelissimi sulle poltrone blindate dei capilista. Con 120 collegi, i posti predeterminati per i tre grandi partiti (Pd, M5S, FI) sono potenzialmente 120. Con soli 75 collegi, aumenta dunque il numero dei seggi da assegnare con le preferenze che però riguarderebbero soprattutto il Pd e il M5S. Mentre in FI (nell’ipotesi che si fermi al 15%, ovvero ottenga circa 66 deputati) non ci sarebbe spazio per candidature non convalidate da Palazzo Grazioli.
Paradossalmente, anche il Ncd di Alfano, che ha incassato pure 10 pluricandidature al posto di 8, eleggerà un numero maggiore di deputati con le preferenze. Se Alfano, per esempio, si «pluricandida» capolista in 10 collegi, alla fine dovrà optare per uno solo posto liberando così 9 seggi per i secondi piazzati (cioè i primi per preferenze).
Tutto questo, però, potrebbe fare a cazzotti con due sentenze della Corte costituzionale: la 203/1975 e la 1/2014 (che ha bocciato il Porcellum) in cui è scritto che «la piena libertà dell’elettore sarebbe garantita attraverso il voto di preferenza» al di là delle liste, anche parzialmente blindate dai partiti. E infatti, negli uffici della I commissione del Senato, convocata oggi per votare il calendario dell’Italicum, c’è stata grande attività di consultazione delle sentenze della Corte alla presenza del presidente Anna Finocchiaro e del senatore Roberto Calderoli.
Sbarramento
Alla soglia di accesso per i piccoli partiti abbassata dall’8 al 3% il documento dedica due righe appena: così «saranno evitati effetti distorsivi nella assegnazione dei seggi a ciascun partito». Con la soglia all’8%, si rischia infatti di tagliare fuori dal Parlamento un quarto della forza elettorale minando il principio di rappresentanza.
Riforme costituzionali
I punti 3 e 4 del documento stabiliscono infine i tempi della riforma costituzionale del Senato (in Aula alla Camera entro il 10 dicembre e approvazione entro gennaio 2015 per poi procedere alla nuova lettura a Palazzo Madama) e del Jobs act (le nuove regole sul lavoro dovranno entrare in vigore il 1° gennaio insieme agli effetti della legge di Stabilità). La tempistica della riforma costituzionale (più lenta della legge elettorale) non consentirebbe però di applicare al nuovo Italicum il «sindacato preventivo di costituzionalità» (proposto da Andrea Giorgis del Pd) per evitare a monte ogni problema con la Consulta. A meno che una norma transitoria riesca a capovolgere la frittata.
Partitini in salvo, ma senza diritto di veto
Con l’Italicum-bis si alza la soglia-premio (40%) e si abbassa quella d’accesso (3%) Il ballottaggio diventa pressoché certo e lo scettro del comando va a un partito e non a una coalizione Ecco le novità dell’intesa con cui la maggioranza sfida Fi
di Sebastiano Messina Repubblica 12.11.14
ROMA Si alza la soglia per il premio di maggioranza (40 per cento), si abbassa quella per entrare in Parlamento (3 per cento). Ma dietro il cambiamento di queste due cifre, l’accordo di maggioranza per la modifica dell’Italicum introduce due novità fondamentali. La prima è che il ballottaggio, il doppio turno, diventa la regola e non più l’eccezione, l’ipotesi eventuale. La seconda è che lo scettro del comando, attraverso un robusto premio di maggioranza, viene consegnato a un partito anziché a una coalizione, e i partiti minori perdono il potere di condizionare il vincitore.
IL PREMIO
Il patto del Nazareno prevedeva un premio di maggioranza che consentisse alla coalizione vincitrice di avere alla Camera 340 seggi su 630, a patto però che essa superasse la soglia del 37 per cento. Una correzione introdotta all’ultimo momento da Renzi, e accettata da Berlusconi due giorni dopo l’incontro, introdusse il ballottaggio tra le prime due coalizioni, nel caso in cui nessuno superasse il 37 per cento, ma in questo caso con un premio ridotto: 327 seggi anziché 340. L’accordo di lunedì sera cambia tutto. L’asticella per aggiudicarsi il premio al primo turno viene alzata al 40 per cento, e non si parla più di coalizioni ma di partiti.
IL BALLOTTAGGIO
E’ ipotizzabile che un partito, alle prossime politiche, superi da solo il 40 per cento? E’ possibile ma non è probabile, perché non è affatto detto che Renzi riesca a ripetere l’exploit delle europee. Se il Pd — o un altro partito — si fermasse al 39,9 per cento, sarebbe inevitabile il ballottaggio. Gli italiani sarebbero chiamati a decidere se affidare il governo a uno dei due partiti più votati, in un secondo turno che ricorda (negli effetti, non nella tecnica) il sistema francese. Sarebbe una sfida a due. Renzi contro Berlusconi, oppure Renzi contro Grillo. E il vincitore avrebbe i numeri per governare da solo. In Parlamento i voti dei partiti alleati sarebbero aggiuntivi ma non più determinanti. E’ evidente che un simile meccanismo darebbe una formidabile spinta verso il bipartitismo.
LO SBARRAMENTO
L’abbattimento delle soglie pretese da Berlusconi, 4,5 per cento per i partiti coalizzati e addirittura 8 per cento per i non coalizzati, era l’obiettivo principale degli alleati del Pd. E l’hanno centrato: la soglia è stata ridotta al 3 per cento, cifra che lascia a molti — anche se non a tutti — la speranza di tornare in Parlamento. In cambio, i partitini hanno dovuto cedere il potere di interdizione, novità non di poco conto.
PREFERENZE E CAPILISTA
Ostinatamente rifiutate da Berlusconi, che aveva imposto le liste bloccare, le preferenze tornano sulla scheda elettorale. Ma con un trucco: prima viene eletto il capolista, poi chi ha preso più preferenze. In concreto, i partiti mediopiccoli manderebbero in Parlamento solo capilista (anche se utilizzerebbero la concorrenza tra i candidati per rastrellare il maggior numero di voti) e le preferenze deciderebbero solo una fetta più o meno grande degli eletti dei partiti maggiori, ovvero la quota di deputati oltre i primi 75 (i capilista). A questo si aggiunga che i leader dei partitini hanno ottenuto la possibilità di candidarsi in dieci circoscrizioni (prima erano otto) in modo da avere la certezza di essere eletti e la possibilità di mettere in concorrenza, a colpi di preferenze, gli aspiranti subentranti.
CIRCOSCRIZIONI
Scendono dalle 120 dell’Italicum a 75. Significa liste non più di sei candidati ma di otto o nove. Con il superamento delle liste bloccate non era più necessario mantenerle “corte” per superare le obiezioni della Consulta. Le liste più lunghe potrebbero consentire al Pd di evitare le primarie (non previste in nessun Paese del mondo per i posti in lista) lasciando che i suoi elettori scelgano i nuovi parlamentari direttamente nei seggi ufficiali.
QUOTE ROSA
L’accordo di maggioranza segna un punto importante a favore della parità di genere. Almeno il 40 per cento dei capilista dovranno essere donne, e nel caso fosse resa possibile una seconda preferenza (verificandone però la compatibilità con l’esito del referendum del 1991 sulla preferenza unica) dovrà essere “di genere”, ovvero a una donna se la prima preferenza è stata data a un uomo e viceversa. Un successo importante per le donne di tutti i partiti che alla Camera hanno combattuto (e perso) la battaglia per avere più chances di essere elette.

Pronto l’accordo Renzi - Berlusconi
L’ultima paura del premier: “Silvio ci sta ma i problemi saranno in aula”
di Francesco Bei e Goffredo De Marchis Repubblica 12.11.14
Berlusconi vuole chiudere. Mettere la sua firma sotto la nuova legge elettorale, restare al centro del grande gioco. Quello che, tra poche settimane, avrà come premio anche il Quirinale. È questo il senso del «pieno mandato » che si è fatto dare ieri da Forza Italia. Un modo per far capire a Renzi che le parole di Brunetta non contano, che per quanto i Fitto, i Minzolini e tutti gli altri pasdaran interni abbiano fino all’ultimo provato a sabotare l’intesa, l’unica parola che conta è la sua.
Alle sei della sera l’ex Cavaliere varcherà per l’ottava volta il portone di palazzo Chigi e non ci sarà più spazio per riflessioni e ulteriori rinvii. «O si sblocca subito oppure salta il patto del Nazareno », minaccia Renzi. E Berlusconi non ha nessuna intenzione di correre questo rischio, soprattutto ora, a un metro dal traguardo. Soprattutto dopo che lunedì, nella riunione ad Arcore, Confalonieri e figli impegnati in azienda gli hanno preannunciato quello che la Borsa ha scoperto ieri. Ovvero Mediaset sta andando male, molto male: chiude i primi nove mesi del 2014 con una perdita di 46,8 milioni di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E l’ultima cosa di cui ha bisogno è una Forza Italia relegata a fare l’opposizione in un angolino del parlamento, con l’impero del Cavaliere minacciato da leggi avverse.
Certo, qualcosa il premier dovrà cedere. Berlusconi non può tornare a casa a mani vuote. Ma ormai persino il punto più contestato, il premio di maggioranza assegnato al primo partito anziché alla coalizione, non è nemmeno in discussione. Si erano lasciati l’ultima volta con un «vedremo », Berlusconi gli aveva detto: «Tu hai un partito al 40% ma io posso ancora avere una coalizione. Il premio alla lista in teoria va bene, ci porta al bipartitismo, ma fammici pensare ancora un po’». Questo contrasto è sparito dalla scena. Ieri, durante la riunione a palazzo Grazioli, è stato proprio il leader a usare le parole più aspre contro «quel demagogo populista» di Matteo Salvini, dando dunque per scontata la fine dell’alleanza che ha tenuto insieme per vent’anni leghisti e forzisti. Una nuova coalizione di centrodestra competitiva sembra un’ipotesi irrealistica, inutile inseguire fantasmi.
Il Fort Alamo di Berlusconi è rimasta alla fine la soglia di sbarramento anti-cespugli. La vorrebbe alta, arrivò a proporre uno stellare 8 per cento e si meritò una battuta come risposta: «Silvio, in Turchia hanno il 10% e non è un esempio di democrazia ». Gli piacerebbe almeno ottenere il 5% per tenere fuori dal Parlamento l’Ncd e costringere Fratelli d’Italia a rientrare in un listone unico. Oltretutto, dando per scontata una vittoria del Pd e un 55% di seggi attribuiti al primo partito, a tutte le opposizioni resterebbe da spartirsi il restante 45%. Meno partiti ci sono a dividersi la torta e più seggi spettano ai perdenti. Renzi qualcosa è disposto a concedere. Lo ha preannunciato lunedì sera al vertice di maggioranza con i piccoli: «Lo so che preferite il 3% ma vi chiedo di non irrigidirvi su nessuna clausola. Vi chiedo di lasciarmi un margine di libertà per trattare con Forza Italia e portare a casa l’accordo». Tutti a questo punto sperano si possa chiudere su un compromesso onorevole: al 4 per cento. Forse il 4,5, come è già previsto nell’Italicum per chi sta dentro le coalizioni. Una soglia che consentirebbe a Berlusconi di poter dire ai suoi di aver reso la vita più difficile per Alfano. E che magari potrebbe essere utile a convincere un partitino del centrodestra a entrare nel listone unico.
Renzi è convinto che Berlusconi voglia confermare il patto, accettare la modifiche. Poi chiederà il via libera alla direzione del Pd convocata stasera alle 21. Ma dal leader azzurro pretenderà garanzie sulla tenuta del partito e dei suoi gruppi parlamentari. «Mi sembra che il Cavaliere abbia dei problemi veri in Forza Italia. Lo so che Brunetta va per conto suo e che al Senato i fittiani sono meno che alla Camera. Ma una legge deve superare la prova dell’aula. E in aula quello che concordiamo a quattr’occhi rischia di essere scritto sulla sabbia». Per questo Renzi dice che quello di oggi «sarà l’ultimo incontro con il capo di Fi». Un altro modo per far capire che non accetterà proposte di rinvio. Nemmeno davanti all’argomento che Berlusconi sicuramente metterà sul piatto: la successione di Giorgio Napolitano. Ma l’ex sindaco di Firenze vuole evitare proprio la sovrapposizione dei due percorsi e immagina che una rapida approvazione della riforma elettorale sia la strada per un ripensamento del capo dello Stato sui tempi dell’addio.
L’altro puntello che può rinviare le dimissioni di Napolitano è la tenuta del Partito democratico. Da mettere alla prova già stasera con un voto sulla relazione del premier-segretario. Se il Pd tiene sulla riforma elettorale (e le prime reazioni alle modifiche sono positive) e sul Jobs Act, diventa tutto più facile, si può anche tirare la corda con Berlusconi. Ma la riforma del lavoro resta uno scoglio durissimo, persino i mediatori stanno per alzare bandiera bianca. È una battaglia che dentro al Pd coinvolge la storia, l’identità e i punti di riferimento elettorali di tanti parlamentari.

L'interesse del Cavaliere La politica in numeri
di  Roberto D'Alimonte Il Sole 12.11.14
Quello dell'altra sera è stato un vertice di maggioranza particolarmente affollato. La cosa curiosa è che il tema in discussione era una riforma elettorale il cui obiettivo è quello di abolire la necessità in futuro di vertici del genere.
Infatti, il pezzo forte del nuovo Italicum concordato ieri dentro la maggioranza di governo è il premio alla lista. Con questo meccanismo il vincitore delle elezioni non sarà più una coalizione di partiti e partitini litigiosi, ma un solo partito. Con il premio alla lista e il doppio turno il partito vincente avrà la maggioranza assoluta dei seggi e governerà da solo. Punto. Non ci saranno più vertici. Ci saranno ancora conflitti e mediazioni, ma saranno tutte interne al partito di governo. Come avviene in tante democrazie occidentali.
Qualcuno farà notare che questo non è del tutto vero. Le piccole formazioni che puntano al governo, a differenza di quelle che preferiscono l'opposizione, faranno di tutto per ottenere posti nelle file di uno dei grandi partiti per assicurarsi qualche seggio. In questo caso si faranno dei listoni. È possibile che questo accada, ma anche se così fosse la decisione dei piccoli di cercare posti nelle fila dei grandi non sarà che il preludio alla loro sparizione definitiva. Si confonderanno con i partiti ospitanti e alla fine spariranno lì dentro. Per evitare questa fine dovranno correre da soli e puntare a superare la soglia di sbarramento. Staranno in Parlamento, ma non al governo.
La soglia unica al 3% è uno degli ingredienti dell'accordo dell'altro ieri. È bassa ma non ha importanza. Era noto che Ncd avrebbe proposto a Renzi il premio alla lista in cambio di una soglia bassa. L'obiettivo prioritario di Alfano è quello di non essere costretto a fare alleanze, soprattutto con Berlusconi. Con un premio alla lista, inserito in un sistema elettorale decisivo, una soglia bassa non fa danni. Farebbe danni solo se il sistema non fosse decisivo, cioè se le elezioni non determinassero con certezza un vincitore con la maggioranza assoluta dei seggi. In tal caso i partitini sopravvissuti alla soglia avrebbero un notevole potere di ricatto. Per questo motivo non sarebbe una buona idea far rientrare questo potere di ricatto con il meccanismo dell'apparentamento tra primo e secondo turno nel caso sia necessario un secondo turno.
E adesso Berlusconi che farà? L'accordo dell'altra sera non si discosta per molti aspetti da quello che lui stesso aveva fatto con Renzi al Nazareno e dopo. Molte delle modifiche concordate, come la soglia al 40% per il ballottaggio e la reintroduzione delle preferenze, sono cose su cui c'era già un'intesa di massima tra Renzi e Berlusconi. Il nodo è il premio alla lista.
Come abbiamo scritto più volte, questo meccanismo non va bene a Forza Italia. Berlusconi, dalle voci che circolano, lo aveva promesso a Renzi già a settembre. Ma non aveva fatto i conti con il suo partito. Oggi gli interessi del cavaliere non coincidono con quelli di Forza Italia. Il conflitto è evidente. Da una parte ci sono i suoi interessi di imprenditore, dall'altra quelli del partito che lui ha fondato. In questo momento la Mediaset di Berlusconi è come la Fiat di una volta: non può che essere governativa. Sono troppi i rischi legati alla regolamentazione del settore delle tv e delle telecomunicazioni in un momento in cui tutto sta cambiando e il centrodestra non ha vere chance di vincere le prossime elezioni. E poi c'è il legittimo desiderio di non finire ai margini delle decisioni politiche che contano, Quirinale in primis. Insomma dal suo punto di vista Berlusconi ha ragione a voler mantenere un buon rapporto con il premier. Il problema è che il suo partito non ne vuole pagare il prezzo. Per esempio, sotto forma di premio alla lista.
Dopo tanti anni durante i quali il conflitto di interessi di Berlusconi è stato additato come uno dei mali della politica italiana, oggi le cose sono cambiate. Gli interessi del Berlusconi imprenditore coincidono con quelli del Paese. Può sembrare curioso ma è così. Il Paese ha bisogno di riforme. L'Italicum è una buona legge elettorale. Con il premio alla lista sarebbe anche migliore. La riforma costituzionale si deve fare. Il Paese ha bisogno di collaborazione tra le forze politiche orientate a governare. Siamo convinti che anche dopo il vertice dell'altra sera ci siano margini di trattativa sia sulla soglia di sbarramento che sulle preferenze. Una soglia al 4% non sarebbe uno scandalo. E a maggior ragione si può trovare un compromesso sul mix preferenze-lista bloccata. Tutto sta a vedere se Berlusconi riuscirà a convincere il suo partito che stare al gioco con Renzi vale la candela. Non dovremo aspettare troppo. Il premier appare deciso a sbloccare l'impasse sulle riforme, a cominciare da quella elettorale. E fa bene. 

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