Fino a metà ‘700 il selvaggio disordine della catena montuosa era inviso al classicismo Rousseau fu definito il «Lutero» del nuovo culto per le Alpi Burke riteneva che il sublime fosse legato all’infinito e al terrore Kant chiarisce che la sublimità sta nel soggetto che lo guarda
di Franco Brevini Corriere 12.11.14
U
na delle prove più clamorose che le cose le vediamo solo se le pensiamo
è offerta dalle montagne. Non fosse che per le dimensioni,
difficilmente le montagne possono passare inosservate. Eppure per secoli
la cultura occidentale non le ha «viste», semplicemente perché
mancavano le categorie per pensarle. Riconoscibilissime dai quai di
Ginevra, ancora in pieno ‘700 le cime del Monte Bianco non avevano nome.
Qualche carta liquidava quella muraglia di ghiacci scintillanti con il
toponimo Montagnes Maudites, «maledette». E, stando all’alpinista e
studioso americano William Coolidge, fino al XVII secolo sulle Alpi si
conoscevano solo una quarantina di cime oltre i duemila metri di quota.
In
realtà con il loro selvaggio disordine, le cime non potevano attrarre
la tradizione del classicismo, che aveva proclamato l’ordine, la
simmetria, la proporzione e l’equilibrio come caratteristiche
ineliminabili della bellezza. Per molti secoli si è ritenuto che il
bello fosse una proprietà delle cose: c’erano cose belle e cose che non
lo erano. Le montagne, come il mare in tempesta, le desolate distese
boreali, i vulcani, il folto della foresta, non erano giudicati «belli»
in quanto non corrispondevano ai canoni estetici dominanti. E non
venivano presi in considerazione.
Le cose cambiano con la filosofia
empiristico-sensistica, che sposta l’asse del discorso dalle
caratteristiche degli oggetti alle sensazioni che essi suscitano nel
soggetto. In The Standard of Taste Hume scrive: «La bellezza non è una
qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le
contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza». Nel dominio
dell’estetica questa affermazione produsse una rivoluzione copernicana.
Ad
avviare lo smantellamento dell’idea di bellezza della Klassik furono
inizialmente i fautori dell’estetica del pittoresco. Con essa una
moderata asimmetria viene per la prima volta ammessa. È il grande
momento del Sud d’Italia: armenti e rovine greco-romane. Ma alla nuova
estetica guardano anche Albrecht von Haller con il poemetto filosofico
Die Alpen del 1729 e Jean-Jacques Rousseau con la Nouvelle Héloïse del
1761, che reca il significativo sottotitolo di Lettres de deux amants,
habitants d’une petite ville au pied des Alpes . Il peso di Rousseau
nella fortuna delle montagne fu enorme. Leslie Stephen nel suo celebre T
he Playground of Europe lo definì «il Cristoforo Colombo delle Alpi, il
Lutero del nuovo culto della montagna».
Ma se quello di Rousseau fu
un influsso di tipo prevalentemente sentimentale, spettò all’estetica
del sublime di sdoganare definitivamente gli scenari della wilderness,
fra cui quelli alpini. Recuperando una categoria circolante fino dal I
secolo con il Perì Hýpsous dello pseudo-Longino, essa diede nuova
cittadinanza a ciò che è smisurato e mostruoso, a ciò che produce paura e
orrore.
Fu la cultura anglosassone la culla dei nuovi sentimenti
estetici e la traversata delle Alpi compiuta dai viaggiatori del
Settecento offrì le occasioni per sperimentarli. Nei Remarks on Several
Parts of Italy del 1705 Addison parlò ossimoricamente di «an agreeable
kind of horror», cioè di «un piacevole tipo di orrore». La riflessione
su questi temi sarebbe proseguita nel 1757 nella fortunatissima
Philosophical Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and
Beautiful di Edmund Burke: distinto dal bello, legato agli oggetti
attraenti, il sublime è piuttosto connesso alle idee di infinito e di
terrore. Infine nel 1790, nella Critica del Giudizio , in polemica con
la concezione empirista di Burke, sarà Kant a chiarire che la sublimità
non sta nell’oggetto, ma nel soggetto che lo contempla. Fra i due libri,
nel 1786 cade emblematicamente la prima ascensione alla vetta del Monte
Bianco.
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