mercoledì 26 novembre 2014
Fassina che abbaia non morde e tratta per aver voce sul Quirinale
Circola la leggenda che la mitica sinistra PD stia facendo un abilissimo e machiavellico giochino a Renzi: Civati, Fassina e qualcun altro se ne vanno ora per preparare un nuovo centrosinistra con Vendola e Grassi, mentre Bersani e D'Alema lavorano ai fianchi Renzi dall'interno e si aggiungerebbero semmai dopo.
Sarebbe uno scenario catastrofico. Ma a naso si tratta appunto di una leggenda e alla fine uscirà solo Civati. Ma senza saper né leggere né scrivere Renzi farebbe bene a stroncarli tutti prima. Così quando alla fine lui stesso cadrà, farà ancora più rumore [SGA].
La sintonia tra il dissidente azzurro e il big democratico potrebbe pesare sulla corsa al Colle
Laura Cesaretti - il Giornale Mer, 26/11/2014
Politica 2.0 La vera partita dei dissidenti Pd
di Lina Palmerini Il Sole 26.11.14
La
minoranza Pd ha scelto l'astensione e non si capisce perché. Se davvero
– come dicevano – il Jobs act determina «l'arretramento di milioni di
lavoratori» era più logico un no. Ma ieri l'obiettivo era più Renzi che
la precarietà.
La scelta di non partecipare al voto finale è un
equilibrismo politico perché se è vero che Renzi «incita alla
sovversione» – come ha detto Fassina – e se è vero che il Jobs act è
«lavoro sporco» – come ha detto Vendola – sono ragioni talmente forti da
determinare un logico e conseguente voto contrario. Soprattutto quando
in gioco c'è il tema che più di tutti identifica la sinistra e
quell'area del Pd: il lavoro. Non a caso nessun leader di
centro-sinistra è mai riuscito a fare una riforma dell'articolo 18 e
adesso che è fatta, che quell'argine si è rotto, sarebbe stato più
coerente strappare davvero. E non riconoscersi più in un partito che
quella «libertà di licenziare» l'ha approvata. E invece il limbo del
non-voto fa pensare che i 30 – con il Jobs act – vogliano aprire
un'altra partita che guarda al Quirinale.
Una tattica per negoziare
altro, insomma. Non sul lavoro perché la riforma è ormai fatta ma per
trattare su chi sarà il successore di Giorgio Napolitano e diventare gli
altri interlocutori di Renzi oltre all'area bersaniana che invece ieri,
con coerenza, ha votato sì al Jobs act. Un avvio di guerriglia
parlamentare che si muoverà tra la piazza sindacale e il braccio di
ferro con Renzi su tutti i prossimi tavoli: Colle, legge elettorale,
legge di stabilità. Una navigazione a vista perché il progetto politico
non c'è ancora.
C'è una via di mezzo. Un Aventino ma non ancora una
opposizione politica di sinistra. Il risultato delle elezioni in Emilia
Romagna non pesa solo per l'astensionismo che ha colpito il Pd ma anche
per il calo di consensi per la sinistra «radicale», da Sel a
Rifondazione alla Lista Tsipras. Nonostante Renzi, nonostante il Jobs
act e gli scioperi Fiom-Cgil, le forze della sinistra – variamente
distribuite – hanno complessivamente perso l'11% di consensi rispetto al
voto europeo e il 13,6% sulle regionali del 2010. E l'Emilia è la
seconda Regione per numero di tessere Cgil, più di 822mila, è la terra
di Maurizio Landini e delle imprese tra le più sindacalizzate. Segno che
non basta parlare di malessere sociale per trovare elettori e consensi.
Servirebbe
quello che è accaduto alla Lega. Un leader riconosciuto che la sinistra
finora non ha. E un programma declinato in tutte le sue conseguenze.
Matteo Salvini è contro la riforma Fornero, contro la «macelleria
sociale» del Jobs act – anche se il primo a tentare la riforma
dell'articolo 18 fu Maroni da ministro del Welfare nel 2002 – ma è anche
contro l'Europa e l'euro da cui queste riforme derivano. È una strada
politica lineare, difficilmente realizzabile, ma senza contraddizioni.
Alla
minoranza Pd di ieri tutti questi passaggi mancano. Dopo aver
combattuto per portare il Pd nei socialisti europei ora sono pronti a
voltare le spalle all'Europa? Il Jobs act arriva da lì, da Bruxelles e
da Francoforte ma il gruppo del non-voto preferisce scaricare su Renzi e
sull'altra minoranza la responsabilità della riforma che è invece uno
dei tasselli per stare in Europa. Non in quella vagheggiata dall'area
dei 30 che cancella il fiscal compact ma quella di oggi. Quella con cui
l'Italia fa i conti. A meno che i dissidenti – da Cuperlo a Boccia – non
firmino anche un altro documento: l'uscita cooperativa dall'euro di
Fassina.
Democratici. La maggioranza di Area riformista vota sì ma molti escono dall'Aula
La minoranza del Pd si divide: nasce la corrente dei dissidenti
di Emilia Patta e Giorgio Pogliotti Il Sole 26.11.14
ROMA
La presa di distanza della minoranza più radicale del Pd sul Jobs act è
arrivata. È stata una decisione lunga e travagliata, presa in una
riunione convocata da circa una quarantina di dissidenti, e alla fine il
segnale al premier e segretario del Pd Matteo Renzi è giunto forte e
chiaro. Che Pippo Civati e i 5 deputati a lui vicini votassero no era
noto. La novità, piuttosto, è rappresentata dai trenta (ben oltre,
quindi, i 17 che già lunedì sera avevano dato dei segnali in tal senso
votando un emendamento di Sel per ripristinare l'articolo 18) che hanno
deciso di uscire dall'Aula, non partecipando al voto in segno di
protesta. «L'impianto della delega non è soddisfacente nonostante le
modifiche approvate dalla Camera», hanno spiegato in un documento comune
firmato dall'ex sfidante di Renzi alle primarie Gianni Cuperlo e
firmato da Stefano Fassina a Francesco Boccia, da Davide Zoggia a
Alfredo D'Attorre a Rosy Bindi. Certamente la decisione di saltare il
guado da parte di molti di questi dirigenti del Pd di epoca bersaniana è
strettamente legata al risultato delle elezioni di domenica in Emilia
Romagna, che hanno visto un impressionante aumento dell'astensione e la
perdita di oltre 600mila voti democratici rispetto alle europee
nonostante la vittoria del candidato del Pd Stefano Bonaccini. Un calo
della partecipazione che la minoranza addebita appunto allo scontro
ingaggiato da Renzi contro la Cgil. Un effetto diretto del voto, dunque.
Visto che a metà della scorsa settimana il compromesso tra governo e
minoranza raggiunto con la mediazione del capogruppo alla Camera Roberto
Speranza e del presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano aveva
soddisfatto un po' tutti, tranne i soli Cuperlo e Civati.
Con il
voto di ieri sul tema caldo del lavoro si forma quindi una sorta di
corrente dentro la corrente Area Riformista che ha come riferimenti i
giovani Speranza e Maurizio Martina (ministro dell'Agricoltura): 30 su
un centinaio di deputati accreditati alla minoranza. Un numero che se
non riesce a bloccare del tutto i provvedimenti, dal momento che alla
Camera il premier può contare sul sostegno della grande maggioranza dei
307 deputati del Pd, certamente può funzionare da freno e da disturbo. E
le prossime partite saranno quelle campali della legislatura. Intanto
le riforme costituzionali (poi sarà la volta dell'Italicum di ritorno
dal Senato). E non è un caso se Bindi ha già presentato un emendamento
per reintrodurre l'elettività dei senatori e D'Attore un altro per
ridurre a 500 i 630 deputati. Ma soprattutto le Camere dovranno
occuparsi presto in seduta comune dell'elezione del prossimo presidente
della Repubblica se – come molti segnali invitano a credere – Giorgio
Napolitano darà le dimissioni a fine anno.
Sulle posizioni di
Speranza e di Damiano, in favore del Jobs act renziano, sono comunque
restate personalità di peso come gli ex segretari Pier Luigi Bersani e
Guglielmo Epifani. Anche se Bersani ha voluto precisare che, nonostante
alcuni «miglioramenti», il Jobs act «non convince» del tutto. «Voto le
parti che mi convincono con piacere e convinzione – ha detto – e le
parti su cui non sono d'accordo per disciplina, avendo fatto per quattro
anni il segretario del Pd». Ma per molti deputati della minoranza
questo richiamo alla disciplina di partito potrebbe vacillare in
occasione dell'elezione del Capo dello Stato.
Il Jobs act passa in Aula senza 40 voti del Pd
Renzi: non mi freneranno Il grazie via Twitter «ai deputati che l’hanno approvato»
di Dino Martirano Corriere 26.11.14
ROMA
La legge delega sul lavoro (che il premier Matteo Renzi ha ribattezzato
Jobs act) ha compiuto alla Camera il secondo giro di boa, lasciandosi
dietro una scia densa di veleni e un’aula vuota per metà: 40 deputati
del Pd non hanno partecipato al voto e buona parte di loro si è unita
alle opposizioni (M5S, Sel e Forza Italia) abbandonando l’emiciclo in
segno di protesta. Il governo ha dovuto richiamare in fretta e furia
ministri e sottosegretari in Aula perché il totale dei votanti rischiava
di non superare il numero legale. L’illusione delle opposizioni, e
della minoranza del Pd, è durata però una manciata di minuti: alla fine i
voti favorevoli sono stati 316, i contrari 6 (tra i quali Civati e
Pastorino del Pd) e 5 astenuti. Totale 327 votanti, una buona spanna
sopra il numero legale calcolato ieri a quota 294 (la metà del plenum al
netto dei deputati in missione che erano 42).
Ora il provvedimento
torna al Senato: oggi parte l’iter in commissione Lavoro e la prossima
settimana arriverà in Aula per l’approvazione definitiva in modo da
consentire al governo di esercitare (con i decreti attuativi) la delega
che riscrive i meccanismi sui diritti dei (futuri) lavoratori
dipendenti.
Matteo Renzi, che ha l’ obiettivo di rendere operativi i
decreti dal 1° gennaio 2015 insieme alla legge di Stabilità, non ha
cambiato rotta e ha rivendicato la bontà della riforma che cambia anche
l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 («Reintegro nel
posto di lavoro»): «La Camera approva il Jobs act. Più tutele,
solidarietà e lavoro...Grazie ai deputati che hanno approvato il Jobs
act senza fiducia. Adesso avanti con le riforme. Questa è
#lavoltabuona», scrive su Twitter. La sua idea su chi nel Pd non ha
votato il testo non cambia: lo fanno «per frenarmi», per calcoli
politici hanno ignorato una mediazione «che ha convinto ex sindacalisti
come Damiano ed Epifani».
Diametralmente opposta l’analisi dei
dissidenti del Pd: «Renzi alimenta tensioni sovversive e corporative»,
attacca Stefano Fassina. Più tranciante ancora il leader di Sel, Nichi
Vendola: «Tradotto in italiano Jobs act vuol dire lavoro sporco,
precarizzare, demansionare, licenziare». Forza Italia che ha scelto
l’uscita dall’Aula insieme ai grillini: «Il voto sul Jobs act ha
certificato lo stato confusionale della maggioranza che sostiene questo
moribondo governo. Il provvedimento è un imbroglio che peggiorerà il
mercato del lavoro».
Ma è la minoranza del Pd che è entrata in
fibrillazione. Dopo il voto è stata convocata una conferenza stampa
(Stefano Fassina, Rosy Bindi, Alfredo D’Attorre, Davide Zoggia, Michela
Marzano, Gianni Cuperlo, Roberta Agostini, Ileana Argentin, Barbara
Pollastrini, Francesco Boccia, Alessandra Terrosi e altri) per
presentare un documento intitolato «Perché non votiamo il Jobs act».
In
totale i dissidenti del Pd che hanno messo la faccia e la firma sul
documento contro il Jobs act sono 29 mentre quelli che hanno votato a
favore sono 250. Il fronte del no boccia per la sua genericità la delega
al governo sul lavoro: «La parte che dovrebbe allargare diritti e
tutele è generica e senza risorse. Il disboscamento della giungla dei
contratti precari viene rinviato a valle di una ricognizione da svolgere
in tempi indefiniti e senza identificare obiettivi impegnativi.
All’avvio di ammortizzatori per gli “esclusi” si dedicano solo 200
milioni di euro contro una promessa iniziale di 1,5 miliardi per il
2015».
Nel Pd, 29 su 307 hanno sottoscritto il documento. Tra gli
altri 11 dem che non hanno partecipato al voto ci sono 6 «assenti
giustificati» (tra i quali Enrico Letta e Rosa Villecco). E poi vanno
conteggiati i 13 parlamentari dem in missione (in buona parte della
squadra di governo). Per arrivare a quota 307, il totale del gruppo del
Pd, bisogna sommare i due contrari (Pippo Civati e Luca Pastorino) e i
due astenuti Paolo Gandolfi e Giuseppe Guerini.
La minoranza alza la voce. E cerca una linea
Bersani: il mio sì per disciplina E D’Alema: alle urne si è visto che senza radici a sinistra ci indeboliamo
di Alessandro Trocino Corriere 26.11.14
ROMA
«Confidiamo nelle nuove norme sul licenziamento disciplinare». Gianni
Cuperlo scherza, alludendo alla possibilità di provvedimenti dopo il
voto di ieri sul Jobs act. Lo fa durante la conferenza stampa serale che
sancisce, con una foto di gruppo che vede riuniti una ventina di
deputati, un dissenso che cresce e spaventa i piani alti democratici: 2
voti contrari, 2 astenuti e ben 40 deputati che non hanno partecipato al
voto (almeno sei, spiegano dalla segreteria, «assenti giustificati»),
nonché 13 in missione. Un pacchetto di mischia rilevante, che ha
rischiato di far mancare il numero legale e che Francesco Boccia chiama
«un nuovo punto di partenza».
Partenza verso dove, si chiedono in
molti. Il livello dello scontro è altissimo, come mai era stato da
quando Renzi è salito al potere. Pier Luigi Bersani ha votato a favore,
ma solo per «disciplina» e in omaggio al suo ruolo di ex segretario di
partito. Ma non ha fatto mancare le critiche a quella che considera
«un’impostazione difettosa»: «L’articolo 18 si poteva anche toccare, ma
su cose di dettaglio». E per il resto, avverte Renzi e i suoi: «Non mi
diano del conservatore, sennò mi incazzo». Non è l’unico a perdere
serenità. Stefano Fassina si rivolge direttamente al segretario: «Le
parole di Renzi non aiutano la pace sociale. Alimenta le tensioni
sovversive e corporative».
Renzi sovversivo? Dopo il Bersani che in
direzione denunciava il «mobbing» contro di lui e che più tardi spiegava
come «il Patto del Nazareno fa salire Mediaset in borsa», aumentano le
voci che rendono plausibile (ma non probabile) uno sbocco traumatico. Se
Bersani rassicura «il legno storto si raddrizza nel Pd» , sono in
diversi a guardarsi intorno. Quelle di ieri sono state prove tecniche di
scissione? «Dipende da Renzi», dice Pippo Civati. Che preconizza: «Dopo
il voto di oggi, se si mette male, Renzi si fa un giro al Quirinale».
Davide Zoggia, bersaniano, spiega che si è trattato solo di «segnalare
un disagio»: «Non vogliamo certo far cadere il governo. Se ci fosse
stata la fiducia avremmo votato a favore».
Fa sentire la sua voce
anche Massimo D’Alema, che analizza il voto delle Regionali: «C’era
l’illusione che si potesse buttare via l’elettorato di sinistra per
prendere quello di centrodestra. Non è stato così: alla crisi di
Berlusconi corrisponde la crescita della Lega. Se perdiamo le radici a
sinistra, ci indeboliamo seriamente». L’ex premier non ha apprezzato
neanche le polemiche con la Cgil: «L’asprezza dello scontro, l’insulto e
il disprezzo del sindacato sono stati un errore».
I numeri di ieri
hanno sorpreso persino i dissidenti. Il documento che sanciva la scelta
di uscire dall’aula, è stato firmato da 29 deputati. Alla fine, non
hanno partecipato al voto in 40 (alcuni impossibilitati, anche causa
guai giudiziari, come Marco Di Stefano e Francantonio Genovese).
Matteo
Orfini — leader dei Giovani Turchi che ha cercato e trovato una
mediazione insieme a Roberto Speranza, Cesare Damiano e Guglielmo
Epifani — minimizza e chiama i dissidenti «primedonne»: «Sono vittime di
protagonismo a fini di posizionamento interno. Ma alla fine si sono
autoisolati. E poi quanti sono, 30? Il 10 per cento del gruppo pd, bel
risultato: vi ricordo che contro Renzi all’inizio c’era la maggioranza
dei deputati. E poi questa è tutta gente che ha ingoiato senza dar cenni
di sofferenza il voto sul pareggio di bilancio in Costituzione e la
legge Fornero».
Solo fini di posizionamento interno, con la
ricostituzione delle correnti? O c’è di più? Torna la domanda sul
possibile sbocco della dissidenza. Per Alfredo D’Attorre c’è «un’area di
critica molto vasta» nel Pd. Pippo Civati si prepara a fare le valigie,
ma il resto del gruppo pare intenzionato a dare battaglia dentro il Pd.
Spiega Cuperlo: «La nostra è un’opposizione costruttiva, sul merito».
«Se ci buttassero fuori — aggiunge Fassina — sarebbe surreale».
Pierluigi Bersani “La nostra gente non vuole scissioni ma Matteo non faccia finta di nulla”
“Ho votato sì sul Jobs act per disciplina di partito ma nessuno, anche chi è uscito, può negare i passi avanti compiuti” “Il messaggio del voto emiliano è chiaro: Restate lì. Infatti la sinistra alternativa prende lo zero virgola”
intervista di Goffredo De Marchis Repubblica 26.11.14
ROMA
Pier Luigi Bersani vota a favore del Jobs Act. Per disciplina di
partito, spiega. Perché chi ha fatto il segretario del Pd per quattro
anni non può tirarsi fuori tanto facilmente. La solita storia della
ditta in cui Bersani crede davvero. Non crede invece che questa riforma
«vada al cuore del problema ovvero la produttività». Ma di fronte alla
spaccatura profonda consumatasi ieri nell’aula di Montecitorio, c’è
qualcosa di più nel suo sì. È un rifiuto netto della scissione, un
appello alla minoranza interna a pensarci bene prima di fare mosse
azzardate. Tutto muove dal dato emiliano, da quell’astensione «inedita e
impressionante ». «Il messaggio di quel voto – spiega Bersani in un
corridoio della Camera – o meglio di quel non voto per me è chiarissimo.
Significa “restate lì. Noi elettori del Pd ci siamo come autosospesi ma
non vogliamo andare da nessun’altra parte”. Non a caso le forze della
sinistra alternativa prendono poco o niente, percentuali dello zero
virgola. Le cose cambiatele dentro al Partito democratico, è il senso di
quella delusione profondissima e che nessuno dovrebbe sottovalutare.
Per questo è ancora più grave che Renzi faccia finta di niente».
Forse
se il premier aprisse oggi una riflessione sull’astensione e sui voti
persi rischierebbe di dare fiato ai tanti dissidenti dentro al Pd e
nelle piazze.
«Può darsi che sia questo il punto. Renzi non riconosce
un problema, ha paura che se offre un dito poi qualcuno si prende tutto
il braccio. Ma negare l’evidenza, non abbassarsi alla discussione può
essere un pericolo ancora maggiore per lui. Può fare un volo dall’ottavo
piano e il botto sarà ancora più grande. Il dato dell’astensione è
agghiacciante e Renzi non dovrebbe temere nulla da un’analisi seria
della situazione. Perché io penso che il messaggio di quegli elettori
non sia “uscite dal Pd”, bensì risolvete tutti insieme ».
Che è successo in Emilia?
«Un
sacco di cittadini, di elettori anche nostri, ha una sensazione di
estraneità, la voglia di chiamarsi fuori, un elemento di rifiuto. Non
sono andati da altre parti ma hanno detto no e io credo di capire
perché. Lo ha scritto bene Michele Serra su Repubblica. Il
centrosinistra in quella regione ha sempre avuto il compito di dare un
senso alle cose che si fanno e se si perde il senso, cioè un messaggio
di coesione a partire da un tema di equità, perché questo è il senso
fondamentale della sinistra, non si interpreta quella gente ».
Disincanto o messaggio voluto?
«Messaggio
intenzionale. Non pensiamo che la gente si sia distratta, perché quello
è un posto dove gli elettori ragionano e fanno quel che hanno deciso di
fare. Io li ho visti con le lacrime agli occhi scegliere di non
votare».
Per questo si è espresso a favore del Jobs Act? Per non sfasciare tutto?
«Ho
votato a favore perché nessuno, nemmeno quelli che sono usciti
dall’aula o che hanno detto no, nega i passi avanti che ci sono stati. È
il discorso del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. In questo caso ci
sono tutti e due».
Però la minoranza si è di nuovo divisa e non vi siete rafforzati.
«Ci
sono diverse sensibilità. Ho parlato con tanti di noi. Alcuni hanno
problemi a mantenere ferma la barra dentro la loro area. Li capisco
benissimo. Altri hanno problemi con i territori, con la loro base
elettorale perché sono parlamentari che hanno un loro elettorato vero,
autentico. Ma non mi sembra un dramma, ognuno fa quello che può per
dimostrare al governo che sta sbagliando, che va corretta la linea».
Anche sul lavoro?
«Certo.
Con il Jobs Act non si va al cuore del problema che è la produttività
del lavoro. Ci sarà un recupero su quel terreno? Non credo. Ci avvitiamo
sull’articolo 18, che aveva bisogno al limite di qualche ritocco, ma
non era certo il cuore di una questione drammatica. Io la penso così. E
non mi chiamassero conservatore sennò è la volta che mi incazzo».
Cosa bisognava fare di diverso?
«È
stato tutto sbagliato fin dall’inizio. Ma spero che si possa dire
ancora cosa bisogna fare, perché c’è tempo per correggere. La vera sfida
al mondo del lavoro, sindacati compresi, doveva venire dal lato della
produttività e quindi da una flessibilità dell'organizzazione aziendale,
da una sfida sul tema decentramento e partecipazione. Avere invece
affrontato cose minori come l’articolo 18 o altro, o avere creato un
ulteriore canale che differenza la situazione dei lavoratori sullo
stesso banco di lavoro è un approccio negativo».
Bindi: si torni all’Ulivo o noi usciamo Matteo ha deluso, è già in caduta
L’esponente della sinistra: se il Pd non cambia ci sarà bisogno di una nuova forza Un soggetto alternativo dovrebbe essere competitivo con il Partito della Nazione
intervista di Monica Guerzoni Corriere 26.11.14
ROMA «Non ci siamo divisi...».
La minoranza si è spaccata in tre, presidente Rosy Bindi.
«Gli
obiettivi di chi ha votato no e di chi ha lasciato l’Aula, come me,
erano gli stessi. Marcare la distanza netta da un provvedimento che,
eliminando il diritto al reintegro, considera il lavoro come una merce».
L’indennizzo non basta?
«È un passo indietro profondo,
secolare, rispetto alla dignità del lavoratore richiamata dal Papa.
Oltre a non condividere il merito io ho voluto prendere le distanze dal
messaggio che il premier ha costruito in questi mesi. Le sue parole
hanno scavato un solco tra il governo, il segretario del Pd e il mondo
del lavoro, la parte più sofferente dell’Italia. Abbiamo visto la
delegittimazione del sindacato e una provocazione davvero lontana dalla
situazione reale degli italiani».
Pensa che l’astensionismo nasca da qui?
«Tra
Emilia e Calabria il Pd ha perso 750 mila voti. Se alle Regionali
avessero votato gli stessi elettori delle Europee dovremmo dire che oggi
il Pd è tornato al 30%, un numero più vicino al 25 di Bersani che non
al 41 di Renzi».
L’astensionismo è ininfluente, secondo lui.
«Affermazione
molto grave. L’astensionismo è un problema per la democrazia di un
Paese, per il Pd e anche per il governo. Il premier ha fatto campagna in
prima persona e ha lanciato dal podio dell’Emilia uno dei messaggi piu
gravi quando ha detto che lui crea lavoro, mentre il sindacato organizza
gli scioperi. Con le Regionali Renzi si è unito ai tanti salvatori
della patria a cui gli italiani amano affidarsi, per poi sperimentare la
cocente delusione».
Rimpiange Enrico Letta?
«Il paragone non è
con Letta. È con Grillo, con Salvini, con il Berlusconi dei primi anni.
La rottura della politica col Paese reale è profonda e sembra
rimarginarsi quando gli italiani si affidano al salvatore di turno, per
poi delusi andare a ingrossare l’unico partito che vince, quello
dell’astensione. Il voto di domenica dimostra che è iniziata la parabola
discendente, anche di Renzi».
Gufa perché rottamata?
«Sono
stati rottamati 750 mila elettori in un colpo solo, non la Bindi. Questa
categoria è servita a Renzi per vincere, ma ora, per continuare a
governare, deve prendere per mano la povertà, le periferie, il dissesto
del territorio, la crisi industriale. Chi guida i processi politici deve
indicare il cammino, la speranza, e responsabilizzare tutti nella
fatica della paziente ricostruzione».
La minoranza chiederà il congresso anticipato?
«Il
gioco interno al Pd non interessa agli italiani, figuriamoci a me. Quel
che mi interessa è che ci sia una forza politica che abbia il coraggio
di ricostruire il tessuto democratico e affrontare una crisi economica
sempre piu grave».
Progetta la scissione?
«Dico che questa è la
funzione del Pd, se ha memoria delle origini, se non vagheggia l’idea
del partito unico della nazione e se è un partito riformista, ma di
sinistra. Quello sul Jobs act è stato un primo passaggio di merito, ma
ora ce ne sono altri non meno importanti».
La riforma costituzionale?
«Appunto. Così è irricevibile, umilia il Parlamento e lo rende subalterno al governo».
La legge di Stabilità?
«Non può essere una mera, finta restituzione delle tasse, c’è bisogno di sostegno vero al lavoro e agli investimenti».
E l’Italicum, lei lo vota?
«Se
il patto del Nazareno non ha più futuro, nessuno pensi di portare
avanti quella legge elettorale con sostegni diversi in Parlamento. C’è
da dare al Paese una legge che assicuri il bipolarismo, non attraverso i
nominati e il premio di maggioranza al partito unico».
E se Renzi va a votare?
«Questo
risultato dovrebbe farlo riflettere, non è tempo di facili ricorsi alle
urne. Voglio sperare che al di là del messaggio grave, sbagliato e
pericoloso che ha mandato all’Italia, Renzi abbia un momento di
ripensamento serio. Spero cambi stile e accetti il confronto. E si
ricordi che il segno di chi ha la responsabilità più alta è unire, non
dividere».
Perché non uscite per fondare una forza alternativa, guidata da Landini?
«Se
il Pd torna a essere il partito dell’Ulivo, che unisce e accompagna il
Paese, non ci sarà bisogno di alternative. Ma se il Pd è quello di
questi ultimi mesi, è chiaro che ci sarà bisogno di una forza politica
nuova».
Una forza minoritaria?
«Tutt’altro che minoritaria, una
forza di sinistra, competitiva con il partito della nazione. E allora
servirà, oltre alle idee, la classe dirigente».
La sinistra fuori dal Pd non è un ferro vecchio?
«Renzi
sbaglia quando si paragona al partito a vocazione maggioritaria di
Veltroni, che prese il 33% e ridusse la sinistra radicale a prefisso
telefonico. Quello era collocato nel centrosinistra e non ambiva a fare
il partito pigliatutto. Se il Pd è quello di questi mesi una nuova forza
a sinistra non sarà residuale, ma competitiva. E sarà un bene per il
Paese, se non vogliamo che il confronto si riduca ai due Matteo. Sarà
una sinistra riformista e plurale, ma sarà una sinistra. Sarà il Pd».
Il voto sul Quirinale sarà una resa dei conti?
«Quando
dovremo confrontarci su quella scelta, spero più tardi possibile, io
auspico che venga fatta ricercando l’unità del Paese. Fu un bene
bocciare la riforma del centrodestra, che riduceva il capo dello Stato a
portiere del Quirinale».
Perché Renzi dovrebbe cercare un nome non condiviso?
«Ci
sono molti modi per ridurre il ruolo del Colle, come rinunciare alla
ricerca della personalità più autorevole per considerarla strumentale
alla politica del governo. Sarà fondamentale trovare la persona che più
unisce e la cui autorevolezza sia considerata indiscussa, da tutti».
Voglia di fuga. Giuseppe Civati
Civati avverte: “O rottama il Patto col Cav. o faccio il nuovo centrosinistra”
intervista di Giampiero Calapà il Fatto 26.11.14
Adesso
è “possibile”, dice il dissidente anti-renziano per antonomasia Pippo
Civati: “Non posso infilare ancora altri voti contrari al governo e
restare nel Pd, Renzi rottami subito il Patto del Nazareno per un nuovo
Patto del centrosinistra, un patto dei cittadini: l’iniziativa della mia
associazione Possibile, il 13 dicembre a Bologna, sarà l’embrione di un
nuovo centrosinistra, vedremo se il Pd andrà nella stessa direzione”.
Civati,
ma alla fine a votare contro il Jobs act siete rimasti in due, lei e
Luca Pastorino, gli altri dissidenti sono “solo” usciti dall’aula...
Non
lo nego, mi aspettavo qualche voto contrario in più perché con un
segnale di astensione come quella arrivato da Emilia Romagna e Calabria
sarebbe stata una risposta più forte e decisa, più comprensibile. È da
un mese che annuncio il mio voto contrario, lo dovevo al mandato
elettorale e ai delegati della Fiom che abbiamo incontrato proprio
ieri... Neanche i grillini, che mi davano del pirla, hanno avuto la
forza di votare “no”. Ma diciamo che registro positivamente anche la
loro di uscita dall’aula.
Non si sente sempre più isolato?
No,
questo no. Paradossalmente considero positivo un fatto: l’area del
dissenso si è allargata. Il dissenso annunciato era circoscritto a 29
deputati del Pd, alla fine sono stati 40. Non è un dato da poco.
Iniziano a essere numeri importanti, che dovrebbero far riflettere il
capo del governo e segretario del partito.
Allora vede ancora un futuro per il Pd?
Ho
passato due mesi a farmi dare del pirla... il solito Civati, dicevano.
Invece, il voto delle regionali in Emilia Romagna e Calabria e quello in
aula sul Jobs act rappresentano con forza che un problema nel Pd c’è.
Come si traduce questo problema?
Ma
come si deve tradurre. È incredibile in aula ascoltare la dichiarazione
di voto di Massimo Corsaro, Fratelli d’Italia, uno che più a destra non
si può, mio storico rivale dai tempi del Consiglio regionale lombardo:
ha detto di riconoscersi pienamente nel Jobs act del governo Renzi. Per
me questo è un problema enorme.
Insomma Civati, rompe col Pd?
Ora
nel Pd c’è un fatto politico gigantesco, l’area del dissenso si è
allargata. Fino a ieri ero solo, oggi no. Voglio ricostruire il
centrosinistra. È chiaro che siamo al limite, non posso infilare altri
voti contrari al governo del Pd. Ma Renzi deve rottamare il Nazareno.
Serve un nuovo Patto del centrosinistra, un patto dei cittadini. Lo
chiederemo ufficialmente a Bologna il 13 dicembre in un’iniziativa
dell’associazione di sinistra che ho fondato la scorsa estate a Livorno,
“Possibile”. Perché adesso è possibile davvero.
Gianni Cuperlo. Li si nota di più se escono
“Fuga di elettori, non convince più”
intervista di Wa. Ma. il Fatto 26.11.14
Onorevole Cuperlo, perché siete usciti dall’aula sul Jobs act?
Abbiamo
tenuto una linea molto chiara in queste settimane. Non eravamo contro
una riforma del lavoro, ma doveva essere una buona riforma.
Quali sono i punti indigeribili?
Rispetto
al Senato, nel passaggio alla Camera, sono state apportate modifiche
positive. Ma il testo finale contiene delle norme per noi sbagliate, sul
demansionamento, sul controllo a distanza dei lavoratori, sull’utilizzo
dei voucher e sui licenziamenti.
Però avete messo in difficoltà il vostro governo.
No. Non credo. Il problema drammatico dell’Italia oggi non è la poca libertà di licenziare. La nostra priorità è come assumere.
Se in Senato il governo metterà la fiducia la minoranza voterà contro?
Mi auguro che il governo sappia raccogliere il messaggio che è arrivato non solo oggi alla Camera, ma l’altroieri dalle urne.
State pensando di uscire dal partito?
Nessuno di noi ha questa intenzione. Il Pd è il partito che abbiamo voluto con passione e con impegno.
Cosa pensa del dato dell’astensionismo?
Quando
in Emilia Romagna da un’elezione regionale alla successiva c’è un calo
del 30% non puoi dire che dipende dalla disaffezione dovuta alle
indagini. Il Pd dalle europee a oggi ha perso 700mila voti, che vanno
prevalentemente nell’astensione. Significa che il grande cambiamento di
cui parla il governo non ha ancora un consenso dal basso. Non ho dubbi
che Oliverio e Bonaccini saranno due ottimi presidenti, ma dire che
l’astensione è un problema secondario è una frase consolatoria, che non
tiene conto della qualità della democrazia.
Però non riuscite a mettervi d’accordo neanche tra voi. Bersani ed Epifani hanno votato a favore del Jobs act.
Abbiamo scelto una linea di condotta coerente non partecipando al voto.
I
renziani dicono che la vostra posizione è scorretta, che allora
dovreste avere il coraggio di andarvene. E che sarebbe il caso di votare
con il Consultellum domani mattina, senza mettervi in lista.
Allargo
le braccia. Io ho un’idea diversa di partito. Oggi mi preoccupo non di
chi dovrei o potrei mettere in lista, ma di centinaia di migliaia di
voti che non sono riuscito a far arrivare alle mie liste.
Crede che le elezioni si avvicinino?
Ho sempre dato credito a Renzi, quando diceva “siamo qui per fare le riforme”.
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